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Israele nel mondo di ieri
di Luigi Compagna
I)    Diritto internazionale e principio di nazionalità

Il 29 ottobre del 1973 all’ONU, l’ambasciatore d’Israele volle assumersi l’arduo compito, se non di definire, di descrivere il sionismo.
Il sionismo è il movimento nazionale del popolo ebraico che domanda la sua libertà e l’uguaglianza con le altre nazioni […]. Quando, sette secoli prima dell’era cristiana, piangenti sulle rive dei fiumi di Babilonia, gli ebrei cercavano di tornare in patria, questo era già sionismo […]; quando gli ebrei furono l’ultimo popolo del bacino del Mediterraneo a resistere alla forza dell’impero romano, questo era sionismo: quando partirono volontari dalla Palestina e da altre parti del mondo per combattere in unità ebraiche accanto agli Alleati nella prima guerra mondiale, questo era sionismo; quando crearono la brigata ebraica per combattere Hitler […], quando marciavano verso le camere a gas mormorando il nome di Sion […], quando combattevano come partigiani nelle foreste dell’Ucraina contro i tedeschi […] quando combattevano contro il colonialismo inglese, questo era sionismo. Il sionismo è caro al popolo ebraico come lo sono i movimenti di liberazione nazionale in Asia e in Africa […]. Non è nato nei ghetti di Europa, ma sui campi di battaglia contro l’imperialismo. Non rappresenta un risveglio di nazionalità fuori del suo tempo, ma secoli di resistenza alle forze dell’oppressione […].

La descrizione poteva apparire ridondante. Ma comprensibili erano le ragioni per cui dovesse esserlo. Ogni riferimento storico era anche politico, rispettoso della religione dei padri, ma non meno rispettoso della laicità degli Stati. Alle Nazioni Unite, dopo la guerra del 1967, il sionismo era diventato una sorta di bersaglio privilegiato ed il rappresentante d’Israele non poteva ignorarlo. Nel 1975 in assemblea plenaria il sionismo sarebbe stato bollato come una forma di razzismo e perfino quando tale risoluzione sarebbe stata poi abrogata, l’ONU avrebbe trovato modo di riproporne a vario titolo e in varie stagioni il pregiudizio che la ispirava.
L’antisionismo targato ONU era la conseguenza della guerra del ’67. L’URSS, a differenza che nel ’48, si era schierata al fianco dei paesi arabi e tutte o quasi tutte le sinistre occidentali l’avevano seguita. In Italia c’era stata la scelta di campo “a sinistra” di Eugenio Scalfari contro le ragioni di Israele care a Mario Pannunzio e ai suoi amici. In Francia quelle stesse ragioni indussero Raymond Aron a prendere le distanze dalla politica di De Gaulle in termini assai più risoluti di altre volte.
Non sono mai stato sionista – avrebbe detto Aron – poiché non mi sono mai sentito ebreo [...]. Ma io sento più chiaramente di ieri che l’eventualità stessa della distruzione dello Stato d’Israele mi ferisce al fondo del mio spirito. Da questo punto di vista, riconosco che un ebreo non perverrà mai alla più perfetta obiettività quando è in gioco Israele1.

Al di là delle sommarie imputazioni sui territori occupati, una generale e ricorrente demonizzazione del sionismo, che ne infrangesse la nobiltà di radici e motivazioni, è sempre servita all’emarginazione, delegittimazione, criminalizzazione dello Stato d’Israele nella coscienza internazionale. Là dove esso, come aveva intuito Francesco Ruffini già nel 1918, si era imposto. Intervenendo alla manifestazione organizzata dalla “Pro Israele”, un’associazione non israelitica per la difesa dei diritti del popolo ebraico sorta agli inizi del 1917, Ruffini aveva avuto modo di sottolineare come quello ebraico fosse uno dei “risorgimenti nazionali” resi possibili dalla vittoria dell’Intesa e da riconoscersi quanto prima in diritto internazionale2.
Di qui la sua critica all’esponente del sionismo inglese, Harry Sacher, che con Lord Acton riteneva la libertà degli individui (nel caso specifico, degli ebrei) meglio tutelata negli Stati pluri-nazionali. Di qui il suo “wilsonismo”, cavouriano e mazziniano, perché libertà individuale e libertà nazionali procedessero armonicamente insieme.
Il sionismo non poteva che essere quello politico di Theodor Herzl, la guerra mondiale era da leggersi come guerra per l’affermazione del principio di nazionalità, le nazionalità (di cui la coscienza era elemento fondamentale, mentre territorio e lingua soltanto indizi) dovevano ergersi, in luogo degli Stati esistenti, a protagonisti del diritto internazionale. Il pensiero di Ruffini era chiarissimo. Pregiudiziale per lui la costituzione di uno Stato ebraico: ultimo appuntamento di una dottrina del diritto internazionale che egli faceva risaliva a Pasquale Stanislao Mancini ed alla sua famosa prolusione del 1851 all’Università di Torino (Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti)3.
Certo, alla fine del secolo XIX il sionismo di Hess e di Herzl era stata una forma di reazione all’antisemitismo. Ma Ruffini ne coglieva la portata più vasta. Si trattava di reinserire la questione ebraica nella nuova organizzazione politica dell’Europa di cui gli Stati nazionali erano ormai protagonisti imprescindibili. Sicché anche l’aspirazione biblica ad «un regno di sacerdoti e un popolo sacro», che rifiutasse di «aver parte fra le nazioni», andava riletta, ricompresa, se necessario reinterpretata, alla luce delle nuove dottrine ed istituzioni politiche.
«Si accordi tutto agli ebrei come individui, ma nulla come nazione»: lo aveva detto all’Assemblea nazionale francese nel 1789 il conte August Stanislas de Clermont-Tonnerre. Ne era scaturito il fatidico «contratto di emancipazione» degli ebrei, diffusosi dopo la Rivoluzione francese a tutti i paesi dell’Europa occidentale e centrale: gli ebrei potevano diventare cittadini (francesi e più tardi tedeschi o italiani) a patto di sacrificare tutti i loro attributi nazionali e di distinguersi dai loro compatrioti unicamente per la religione praticata (o non praticata) come singoli individui4.
L’idea di poter essere cittadini di confessione ebraica era invece inconcepibile in Polonia, Russia, Ucraina, dove viveva la maggioranza degli ebrei europei. Di qui la conservazione anche in pieno Novecento, per gli ebrei dell’Europa orientale, di costumi collettivi che andavano ben al di là delle convinzioni religiose: dalla lingua yiddish alla cultura, dall’abbigliamento alla concentrazione in determinati quartieri, con la sottintesa malinconica speranza di far un giorno ritorno alla terra dei padri.
Bisognava rivolgersi agli ebrei di entrambe le Europe per coinvolgerli in un movimento politico nazionale a sfondo cosmopolita, che determinasse nell’ebraismo effetti ancor più radicali di quelli che l’illuminismo aveva impresso nel cristianesimo. Michael Brenner, nella sua Breve storia del sionismo, guarda al primo sionismo come ad una sorta di “nazionalismo internazionale” e non c’è dubbio che abbia ragione5. Racconta Baruch Hagani:
Gli Ebrei orientali recarono al sionismo il loro entusiasmo, il loro bisogno di soccorso e di confronto; gli Ebrei occidentali vi recarono il loro spirito di organizzazione, la loro cultura moderna, la loro comprensione delle necessità presenti. Dall’incontro di questi due elementi nacque il sionismo politico, dominato dalla forte personalità di Herzl, che, per la sua attività infaticabile, per le sue qualità d’uomo di Stato, per il fascino e l’autorità della persona, dette al movimento un’ampiezza formidabile e tentò di trasportare il sionismo dal circolo ristretto della vita ebraica al campo della politica internazionale6.

Sul «Corriere della Sera» del 17 giugno 1920 Ruffini, riprendeva quanto aveva già avuto modo di puntualizzare l’anno prima in sede scientifica7. L’originalità del sionismo gli sembrava stesse tutta nell’aver impostato in termini di diritto e politica internazionale la questione ebraica: “nazionalismo internazionale”, anche perché teso a porre fine alla bimillenaria storia di persecuzione e di assimilazione che aveva caratterizzato la diaspora.
A risolvere la questione ebraica, la quale da un secolo forma la disperazione dei popoli civili, due rimedi, dice Herzl, furono impiegati in modo affatto empirico: l’antisemitismo e la emancipazione. Ma e l’uno e l’altro si sono chiariti inefficaci. L’antisemitismo non fa che rinforzare il particolarismo degli Israeliti e risvegliare la loro coscienza etnica. La emancipazione, aprendo l’adito allo esplicarsi di alcune loro facoltà native, non fa che esagerare le anomalie della loro posizione economica. Una soluzione della questione ebraica si potrà avere solo quando la si imposti sul suo vero terreno, che è quello della politica internazionale. Poiché la questione ebraica non è una questione economica, né una questione religiosa, sebbene assuma a volta a volta l’aspetto dell’una e dell’altra. È una questione nazionale, e per risolverla, si deve, prima di tutto, farne una questione mondiale, e metterla così innanzi alle grandi potenze. L’oppressione ha fatto di noi, dice Herzl, un gruppo storico riconoscibile dalla sua omogeneità. Che lo vogliamo o no, noi siamo diventati un popolo, un popolo uno. Si dia a questo popolo la sovranità di un territorio determinato, conforme ai suoi bisogni: e la questione sarà risoluta8.

La condizione degli ebrei in Europa alla fine del secolo XIX non era quella di un popolo o di una nazione, ma di disperse famiglie allargate. La loro vita quotidiana e le loro strutture di potere ricalcavano ancora il modello delle corporazioni medioevali. Nelle comunità della diaspora sopravvivevano due muri che il sionismo doveva riproporsi di abbattere. C’era il muro di separazione imposto dall’esterno, che nell’Europa orientale delimitava il ghetto come “territorio di steccato”, nel quale grandi concentrazioni di popolazione ebraica subivano legislazioni e consuetudini non poco discriminatorie. E c’era poi il muro di separazione eretto e voluto dagli stessi ebrei per proteggere la propria identità, la propria cultura, il proprio sistema educativo, la continuità delle proprie aristocrazie del sapere e del saper vivere.
Era come se l’ebraismo avesse due dimensioni: l’una segnata da un distinto operare, vestire, parlare rispetto al resto degli abitanti di una stessa città; l’altra, a cavallo fra un sistema di associazioni religiose assistenziali e una rete di circoli culturali, alimentata da un certo spirito di difformità spirituale dal mondo circostante. Entrambe le dimensioni, in tempi di Stati nazionali, erano ormai vacillanti. Il sionismo le sfidava sul terreno della secolarizzazione ineluttabile, dovendo per così dire “distillare” all’interno della società ebraica, ancora in tanti aspetti medievale, una passione e una forza etico-politica che facessero Stato.
Né era consentito al sionismo politico arretrare di fronte alle incomprensioni, talvolta dettate da incomunicabilità, talvolta da ostilità, che il proprio apparire aveva suscitato nella società rabbinica. In Europa ormai il sistema comunitario “corporativo” medievale non serviva più da difesa contro l’antisemitismo e serviva, piuttosto, a render gli ebrei ancora più stranieri di prima.
Federico Chabod avrebbe attribuito alla passione nazionale, che il secolo XVIII non aveva conosciuto, una sua carica di religiosità per cui la nazione si configurava essa come la nuova divinità del mondo moderno, e quindi a suo modo la nazione diventava “sacra”9. Lo Stato nazionale che il sionismo mirava a fondare era un modo di reagire alla condizione storica in cui gli ebrei si erano venuti a trovare in Europa nell’Ottocento: popolo sacro in tempi di sacralità della nazione.
Se per gli altri popoli gli ebrei non erano una nazione, pretendere di esserlo e riuscirci sarebbe stata una novità rivoluzionaria. Fra gli ebrei, per un verso; nel mondo, per un altro verso. Ed era questa novità, a suo modo corrosiva dell’ebraismo degli avi, che i rabbini denunciavano ma poi non sapevano neutralizzare. Nei confronti della tradizione il sionismo non implicava necessariamente smarrimento o affievolimento di fede religiosa, ma ai rabbini era facile insinuare che fosse così, non potendone comprendere o giustificare tutto il secolarismo che lo sorreggeva. Nota con finezza Vittorio Dan Segre:
La società rabbinica rimase, soprattutto nell’Europa orientale sino alla vigilia dello sterminio nazista, una società troppo chiusa su se stessa per comprendere non l’essenza della giudeofobia (di cui aveva lunga esperienza) ma del nuovo antisemitismo laico, ideologico, razzista, molto più violento dell’odio religioso cristiano che lo aveva preceduto e poi alimentato. Il prezzo pagato per questa incomprensione è stato terribile per le comunità europee, soprattutto dell’Europa orientale, dove i rabbini si opposero al movimento nazionale ebraico con estremo vigore sin dal momento della convocazione del primo congresso sionista. Lo fecero con maggiore sforzo che contro l’assimilazione, sia perché gli ebrei assimilati sfuggivano, socialmente ed economicamente, più delle masse al loro controllo, sia perché l’assimilazione era vista come una perdita di individui mentre il sionismo come una rivolta all’autorità divina collettiva. I capi religiosi non si resero conto del pericolo rappresentato dall’emergere dello Stato nazionale in Europa. Temettero la concorrenza della scienza e della educazione moderna laica; e l’effetto blasfemo del nazionalismo che sostituiva la sovranità del popolo a quella divina10.

I sionisti parlavano di indipendenza e di autodeterminazione a un popolo privo di coscienza territoriale. Era facile ravvisare, non solo da parte dei rabbini, la sostituzione di una sovranità umana razionalmente controllabile a quella divina. Volere creare una maggioranza ebraica in qualche posto del mondo, alla quale garantire sicurezza fisica e riconoscimento internazionale, era finalità nitidamente laica. Ci si riprometteva uno Stato in cui gli ebrei potessero anche cessare di essere tali, se lo desideravano, e soprattutto realizzare collettivamente quella assimilazione (uno Stato come gli altri) che giudeofobia ed antisemitismo nei fatti precludevano.
Dal popolo sacro doveva rinascere una nazione che si facesse Stato; e questo nel secolo che della nazione aveva sancito la sacralità. Quella del sionismo, nella storia dell’ebraismo, non poteva che essere una strada in salita. Anche riguardo alle dottrine politiche che l’Europa del XIX secolo aveva visto crescere e diffondersi.
Il liberalismo europeo si sentiva garante di libertà individuali più che di libertà nazionali. In polemica coi nazionalismi esso amava porre l’accento sui rischi per i diritti dei singoli insiti in una appartenenza le cui sorti trascendessero quelle degli individui che la compongono. Soprattutto il liberalismo anglosassone, dalla seconda metà del XIX secolo, tendeva ad essere assai meno mazziniano che in passato. Quanto al socialismo, la sua disattenzione al principio di nazionalità era questione dottrinaria che guerra e dopoguerra mai riuscirono davvero a correggere: neanche quando, come nel caso del Bund, la sensibilità alla questione ebraica sarebbe stata intensa e sincera.
Proprio perché liberale italiano, partecipe cioè di una tradizione liberale di national state building, Francesco Ruffini si poneva come fiancheggiatore del sionismo politico herzliano. Lo Stato nazionale ebraico era ormai per lui un obbligo del diritto internazionale preso sul serio: razza, territorio e lingua potevano essere fattori aggiuntivi ma non determinavano essi, come Mancini e Mazzini avevano insegnato, ciò che è nazione. Gli elementi etici e volontaristici del sionismo di Herzl, a maggior ragione dopo una guerra combattuta e vinta dal principio di nazionalità, non potevano più restare ai margini di un nuovo ordine internazionale da costruirsi, appunto, nel nome di Mancini e di Mazzini.
Ruffini si rifaceva così ad una ben precisa stagione del pensiero liberale italiano: si pensi al dibattito seguito alla guerra franco-prussiana così come era stato ricostruito da Federico Chabod11. Mancini e Mazzini erano per Ruffini più affidabili di quel “plebiscito di tutti i giorni” evocato da Ernest Renan per definire la nazione. Mancini e Mazzini erano in diritto internazionale il più efficace antidoto alle esaltazioni della razza, del territorio, della lingua, della geopolitica, che maturavano nella concezione tedesca.
Il giurista Ruffini temeva l’anglotedesco Houston Stewart Chamberlain e la sua dottrina razzista; diffidava del geografo Friedrich Ratzel, divulgatore in Europa della dottrina geopolitica; neanche in lontananza voleva vedere risorgere il fantasma dei Reden di Friedrich Fichte e di quella sua idea di una superiorità del tedesco su ogni altra lingua (e magari nazione). Il sionismo politico che Herzl aveva formulato nel 1896 meritava di vedersi finalmente riconosciute le proprie buone ragioni. Esse, in quello che Stefan Zweig avrebbe chiamato “il mondo di ieri”, erano ragioni del “mondo di oggi” che non potevano rinviarsi al “mondo di domani”. Lo spirito mazziniano in nome del quale la prima guerra mondiale era stata combattuta doveva ispirare anche il tavolo della pace.

II)    Da Disraeli a Belfour

Frattanto l’emancipazione ebraica in Inghilterra aveva seguito un suo peculiare cammino. Benjamin Disraeli venne battezzato il 31 luglio del 1817 a dodici anni. Tra suo padre Isaac e la sinagoga di Bevin Marks si era aperta una questione di principio rivelatasi insolubile. Ne sarebbero scaturite conseguenze storiche: per Benjamin, ovviamente, ma anche per la Gran Bretagna, l’Europa, il mondo. Senza quel battesimo Disraeli non sarebbe mai diventato primo ministro di un paese nel quale gli ebrei sarebbero stati legalmente ammessi al parlamento solo nel 185812. Meno carico di avvenire, invece, fu il 26 agosto del 1824 a Treviri il battesimo di Karl Heinrich Marx, motivato da una apostasia familiare meno casuale e più ragionata (esercitare la professione di avvocato)13. Disraeli avrebbe influito più di Marx nella storia della questione ebraica. Ma le loro conversioni al cristianesimo, diverse quanto si vuole, erano un segno di novità.
Nella tradizione il battesimo era un modo per sfuggire alla persecuzione sicché l’emancipazione avrebbe dovuto renderlo superfluo. Al contrario, a partire dalla fine del secolo XVIII, divenne sempre più frequente. Era un segno della secolarizzazione dei sistemi di vita occidentale, del minor ruolo in Europa dell’esperienza religiosa. In Inghilterra il battesimo eliminava gli ostacoli che impedivano ad un ebreo di arrivare, ad esempio, in Parlamento. Oltre che a Disraeli si pensi a Samson Gideon Junior, a Sir Manasseh Lopez, a David Ricardo, a Ralph Bernal.
C’erano poi i Rotschild14. Essi – fra Commons e Lords, tra Tories e Whigs, fra City e Foreign Office – seppero creare una risorsa di ebraismo impenetrabile a tutti gli attacchi e a tutte le avversità. Filantropi sistematici e ad un tempo eccentrici, dotati di virtù tipicamente ebraiche e di attitudini tipicamente inglesi, i Rotschild furono il mito di cui Disraeli volle essere il massimo cantore. In un suo romanzo del 1844 (Comingsby), l’onniveggente mentore della narrazione è Sidonia, una specie di superuomo ebreo che Disraeli ammise di aver inventato sul modello di Lionel Rotschild. Da allora le sue pagine si sarebbero sempre preoccupate di esagerare fascino, saggezza e preveggenza dei Rotschild, nonché di circondare il loro prestigio, la loro ricchezza, la loro generosità, di un alone di favola.
Egli riteneva che gli ebrei meritassero una stima particolare. Educato da cristiano, nel corso di un viaggio al principio degli anni trenta nel Mediterraneo e in Terrasanta, aveva maturato una originalissima sensibilità all’ebraismo. Quel che l’aveva maggiormente impressionato era l’ascesa sociale di ebrei di successo in tutta la Siria, dove le difficoltà erano enormi. Disraeli li avrebbe definiti i Rotschild d’oriente. I pascià, aveva osservato, come esperti finanziari si servivano soprattutto degli ebrei e la ragione era che, se fosse stato necessario, li si potevano facilmente perseguitare. Nel personaggio di Adam Besso nel Tancred del 1847, Disraeli ritrasse uno di loro e Tancred sarebbe stato reputato «una versione romanzata dell’autobiografia spirituale vittoriana»15.
Disraeli può ben dirsi un “marrano”16. Insofferente alla «perniciosa dottrina della naturale eguaglianza dell’uomo» considerava gli ebrei migliori degli altri. Israele, cuore del corpo umano, era stato ingiustamente costretto ad accollarsi il carico della malvagità dell’umanità, ma le sue doti restavano intatte ed erano doti razziali. «Tutto è razza – dice il superuomo Sidonia – non c’è altra verità». Sempre in Comingby si legge che «Sidonia e i suoi fratelli sono una razza senza mescolanza» ed è privilegio che per Disraeli gli ebrei condividevano con gli arabi del deserto (“ebrei a cavallo”). C’è pure una esaltazione della purezza ebraica quasi darwinista:
Gli arabi mosaici (cioè gli ebrei) sono il più antico, se non l’unico, sangue non mescolato che abiti nelle città! Alla corrente non inquinata della loro struttura caucasica e al genio segregante del loro grande legislatore, Sidonia attribuiva il fatto che essi non fossero stati già da tempo assorbiti da quelle razze miste che si arrogano il diritto di perseguitarli, ma che periodicamente si assottigliano e spariscano, mentre le loro vittime fioriscono ancora in tutto il primitivo vigore della pura stirpe asiatica […].

Consapevole di quanto il suo ebraismo potesse apparire paradossale, spesso sgradevole, Disraeli coltivava analogamente un suo originale cristianesimo. «Io sono – amava ripetere – la pagina che manca tra il Vecchio e il Nuovo Testamento».
I suoi giudizi sugli ebrei – “aristocrazia della natura”, “razza pura perseguitata” – avevano la crudezza e l’innocenza della letteratura; si aggrappavano ad un lessico intriso di populismo, non sempre di liberalismo. Le sue opinioni sulla Chiesa – «unica istituzione ebraica rimasta, alla quale gli ebrei devono tutto» – erano egualmente dettate da ansia di provocazione. Gli uni e le altre furono capaci di scuotere incomprensioni, pigrizie, opacità dottrinarie accumulatesi nei secoli17.
In termini politici, per Disraeli, le idee sefardite a favore della tradizione, dell’autorità, della gerarchia, erano idee tories. Si rammaricò quando proprio i tories nel 1847 si opposero al provvedimento che avrebbe consentito agli ebrei osservanti di sedere in Parlamento. Allora soltanto quattro deputati conservatori, ricorderà Disraeli in Life of George Bentinck avevano votato in favore: lui stesso, Bentinck appunto, Thomas Baring e Milness Gaskell. Proprio il discorso di Bentinck in quella occasione determinò l’esaurirsi della sua leadership. Colpendo Bentinck, i tories indirettamente contribuirono ad aprire la strada alla leadership di Disraeli.
Più che uno di quei paradossi a lui graditi, sarebbe stato “giusto” nell’accezione ebraica ed egli ne sarebbe stato sempre convinto. C’era nelle sue idee politiche un misto di aristocrazia e di meritocrazia. Lo sorreggevano sentimenti nazional-popolari più che liberal-europei ed all’ebraismo toccava la cattedra di suprema meritocrazia. La questione ebraica veniva da lui ricondotta al diritto-dovere della Gran Bretagna di colonizzare. Nell’arco di tempo lungo il quale in India una compagnia commerciale si trasformò in un impero, la Gran Bretagna si accreditò come la maggior potenza colonizzatrice del XIX secolo. Se Gladstone guardò soprattutto all’India, Disraeli ebbe in mente lo scenario dell’Impero turco.
Come scrittore sarebbe difficile attribuirgli meriti, ma come uomo politico la sua impronta ed il suo peso furono consistenti. Non lo si può rubricare, nella storia che porta Israele a farsi Stato, soltanto come un sefardita romantico all’inseguimento di estrose fantasie da romanziere del colonialismo18. Nel contesto delle sue scelte politiche il numero degli ebrei in Palestina si sarebbe più che raddoppiato. Non solo. Sarebbe anche stato previsto, o quantomeno sottinteso, un futuro nel quale avrebbero essi governato il paese. Significativa nel 1851, nel parco di Lord Carrington a High Wycombe, una sua passeggiata a fianco di Lord Stanley, il quale si sarebbe preso cura di annotarne la conversazione.
[…] La Palestina, egli diceva, aveva vaste possibilità naturali; tutto quello che ci voleva era manodopera e protezione per i lavoratori: la proprietà del suolo poteva esser acquistata dalla Turchia; il denaro sarebbe arrivato: i Rothschild e i principali capitalisti ebrei avrebbero contribuito tutti: l’impero turco stava andando in rovina e avrebbe fatto qualsiasi cosa per denaro. Tutto quello che era necessario era impiantare alcune colonie, con diritti sul suolo e sicurezza contro i soprusi. La questione della nazionalità poteva aspettare fino a quando esse si fossero saldamente impiantate. Aggiungeva che queste idee erano ampiamente diffuse e sostenute per tutta la nazione ebraica. L’uomo che le avesse realizzate sarebbe stato il prossimo Messia, un vero Salvatore del suo popolo […]19.

Leggenda vuole che in punto di morte Disraeli abbia parlato in ebraico di Palestina e di Gerusalemme (come nel suo romanzo Alroy). Ma questo può essere irrilevante. Non furono suggestioni romantiche o romanzesche quelle che indussero Herzl alla fine del secolo a definire la Gran Bretagna “il punto di Archimede” su cui poggiare la leva del sionismo. Lo ricongiungevano all’Inghilterra di Disraeli ben altri motivi. Il primo era quella stessa geografia politica, fra Gran Bretagna e Turchia, che avrebbe ispirato la diplomazia del sionismo. Il secondo era quel tipo di parlamentarismo (più tory, cioè nazional-popolare, che whig, considerando l’esigenza di farne partecipi gli ebrei dell’Europa orientale) da imprimere come abito, esso sì davvero statuale, nel sionismo.
Certo, al di là dei suoi aspetti politici, il filosemitismo era tradizione inglese di ampio respiro. Si pensi alle Melodie ebraiche di Byron. Si pensi ai tanti studiosi di diritto e di storia, educati sulla Bibbia di re Giacomo, formatisi sul passato ebraico e non insensibili alle amarezze del presente. Né può attribuirsi, al di là di questo o quel personaggio dei loro libri, pregiudizio antiebraico a scrittori come Dickens, Trollope e Thackeray. Magari a Disraeli stavano antipatici, e viceversa; nondimeno erano partecipi del complessivo filosemitismo inglese. Il che vale pure per il grande archeologo Sir Charles Warren, fra i primi a scalare il muro del Tempio di Gerusalemme: il suo libro del 1875, The Land of Promise or Turkey’s Guarantee, non può considerarsi affatto estraneo al sionismo o al “protosionismo” ed è ingiusto che venga poco considerato nell’ambito della storiografia20.
La verità è che fra le metà del secolo XIX e la meta del secolo XX, Gran Bretagna e stato nazionale ebraico avrebbero avuto una storia in comune: di patronage e di influence, ma anche di durezza e di scontro. Le sue luci e le sue ombre vanno iscritte in quella dottrina politica del colonialismo e dell’imperialismo che la generazione di Herzl aveva ereditato da quella di Disraeli: la geometria del “punto di Archimede” scaturiva in questo senso da una tradizione.
Qualcosa di davvero importante andava intanto maturando sul fronte della miglior letteratura nazional-popolare. A prospettare la possibilità di un ritorno a Sion fu George Elliot in Daniel Deronda. Pubblicato a puntate nel 1876 sulla rivista «Blackwoods», romanzo diffusissimo, sionistissimo, disraelissimo, fu capace di far dire al medesimo Disraeli : «non l’ho letto, se ho voglia di leggere un romanzo ne scrivo uno»; riuscì a riempire di gioia a New York la giovane Emma Lazarus; fece scrivere a Lucien Wolf alla voce “sionismo” dell’undicesima edizione dell’Encyclopaedia Britannica del 1911 che Daniel Deronda aveva offerto allo spirito nazionale ebraico «lo stimolo più forte dopo la comparsa di Shabbetai Zevi».
Personaggio centrale del libro è Mordechai («un uomo immerso nella povertà e nell’oscurità, indebolito dalla malattia, consapevole di essere all’ombra della morte che avanza, ma che vive una vita intensa in un passato e un futuro invisibili»). Il personaggio si ispira a un dotto ebreo, bibliotecario al British Museum, morto di cancro, Emmanuel Deutsch, che alla Elliot aveva trasmesso il suo entusiasmo per la Palestina, per la storia e per la lingua ebraica, per la religiosità del saper vivere e del saper morire, fino a farle scrivere ogni puntata del romanzo «con le lacrime agli occhi»21.
A centinaia di migliaia di ebrei assimilati, per bocca di Deutsch-Mordechai, la Elliot mostrava l’universalità del sionismo.
Il mondo ci guadagnerà come ci guadagneranno gli ebrei. Perché ci sarà una comunità all’avanguardia dell’Est che porterà nel suo seno le culture e le simpatie di ogni grande nazione; ci sarà una terra come punto di arresto delle inimicizie, un terreno neutrale per l’oriente, come il Belgio lo è per l’occidente.

A suo modo questo passo della Eliot, che per le generazioni della prima guerra mondiale si sarebbe caricato di tragica ironia, serviva allora a sottolineare come la ricostruzione di Sion avrebbe pacificato e civilizzato una zona barbarica: era la stessa convinzione di Disraeli.
Occorreva una figura messianica più credibile di quella del Tancred di Disraeli. La Eliot la individuò in Daniel Deronda, designato da Mordechai, destinato a sposarsi con Mirah e ad andare in Medioriente a ricostruire «una esistenza politica per il mio popolo, facendone di nuovo una nazione, dandogli un centro nazionale, come l’hanno gli inglesi, che pure sono anch’essi sparsi su tutta la superficie del globo».
Centinaia di migliaia di ebrei (assimilati e identitari) ed altrettanti non ebrei (di varia confessione) del libro della Eliot furono avidi lettori. Quel romanzo apparve ancor più disraeliano di quelli di Disraeli. Se a lui venne di vantarsi di non volerlo leggere, lo lesse invece Arthur Balfour, che si dichiarò, grazie a tale lettura, conoscitore della questione ebraica. Essa, grazie a Daniel Deronda aveva ormai conquistato il senso comune. Paradosso disraeliano avrebbe poi alternato sulla scena due diversi Daniel Deronda: in prima battuta Alfred Dreyfus e molto più in là Arthur Balfour; fra l’uno e l’altro toccò a Herzl scrivere “la pagina che manca” e dopo di lui a Chaim Weizmann.



NOTE
1 Raymond Aron, De Grulle, Israël et les Juifs, Paris, Plon, 1968.^
2Cfr. F. Ruffini, Guerra e Dopoguerra. Ordine internazionale e politica della nazionalità, a cura di A. Frangioni, fondazione Luigi Einaudi, 2006, pp. 81-112.^
3Una nuova edizione della prolusione di Mancini era stata curata da Ruffini nel 1920 per le Edizioni della Voce.^
4Alla vigilia della Rivoluzione francese, a scendere in campo contro l’antisemitismo erano stati due aurei libretti. Uno, Apologia degli ebrei di Zalkind Hourwitz, chiedeva esplicitamente l’accesso alla cittadinanza francese. L’altro, Saggio sulla rigenerazione fisica, morale, politica degli ebrei dell’abate Henri Grégoire, interpretava l’emancipazione come una “nuova nascita” che togliesse agli ebrei quanto era loro proprio (dalle abitudini alimentari alle tradizioni liturgiche, dalla lettura della Torah alla prospettiva della Palestina).^
5Cfr. M. Brenner, Breve storia del sionismo, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 21-55.^
6B. Hagani, Herzl, Roma, «la Voce»,1919, p. 11.^
7Cfr. F. Ruffini, Sionismo e Società delle Nazioni, Bologna, il Mulino, 1919.^
8F. Ruffini, Sionismo, in «Corriere della Sera», 17 giugno 1920.^
9Cfr. F. Chabod, L’idea di nazione, Bari,Laterza, 1971.^
10V.D. Segre, Le metamorfosi di Israele, Torino, UTET, 2006, p. 40.^
11Cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Roma-Bari, Laterza, 1997 (quarta ed.), pp. 3-177.^
12Cfr. W.F. Moneypenny, Life of Benjamin Disraeli, London,1910.^
13Cfr. F.J. Raddatz, Karl Marx:a political biography, London, Ernest Kay, 1979.^
14Cfr. C. Roth, The Magnificent Rotschilds, London, Robert Hale Co., 1939; B. Gille, Histoire de la Maison Rotschild, Genève, Librarie Droz, 1965; M. Rothschild, Dear Lord Rothschild: Birds, Butterflies and History, London, Academic Press, 1983.^
15Cfr. D. Schwarz, Disraeli’s Fiction, Londra, Macmillan, 1979, p.79.^
16Benjamin Disraeli Marrano Englishman s’intitola la descrizione di M.C.N. Salbstein, The emancipation of the jews in Britain, New York, Rutherford,1982, p. 98.^
17Cfr. M.C.N. Salbstein, cit., pp. 97-114.^
18Poco apprezzando i suoi romanzi, gli viene negato ogni ruolo politico in W. Laqueur, A History of Zionism, New York, Tauris Parke Paperbacks, 2003, p. 43.^
19 J.R. Vincent, Ed, Disraeli, Derby and the Conservative Party. The Political Journals of Lord Stanley, London, 1978, p. 32.^
20 Di Disraeli e Warren nulla si legge in opere importanti dedicate alla ricostruzione del sionismo e dei suoi precursori. Cfr. D.J. Goldberg, Verso la Terra Promessa. Storia del pensiero sionista, Bologna, il Mulino,1999. G. Bensoussan, Una storia politica e intellettuale, Torino, Einaudi, 2007.^
21Cfr. G.S. Haight, George Elliot, Oxford, Oxford University Press 1968, p. 487.^
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