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«Il Centauro»: la crisi della cultura politica marxista nel tramonto della “Prima Repubblica”.
di Eugenio Capozzi
Nel 1981 un gruppo di intellettuali italiani di formazione marxista, prevalentemente gramsciana, fondava una rivista di filosofia e teoria politica alla quale fu dato il nome de «il Centauro». Accanto alle figure-guida del direttore Biagio De Giovanni e di Massimo Cacciari, tra i redattori e collaboratori figuravano alcuni filosofi e storici che avrebbero sviluppato negli anni, a partire proprio dalle discussioni innescate in quel cenacolo culturale, riflessioni di notevole prospettiva: tra gli altri Remo Bodei, Giuseppe Duso, Roberto Esposito, Giacomo Marramao, Roberto Racinaro, Vincenzo Vitiello.
La rivista fu pubblicata per cinque anni, chiudendo infine i battenti nel 1986. Ora, meritoriamente, molti tra i più importanti testi comparsi nelle sue pagine vengono pubblicati in volume, per la cura di Dario Gentili, con il titolo La crisi del politico. Antologia de “il Centauro” (Napoli, Guida, 2008, 427 p.), corredati da un’ampia introduzione dello stesso Gentili e seguiti da un’intervista a De Giovanni.
L’antologia fornisce un importante contributo ad una prima valutazione storiografica di una stagione del dibattito politico-culturale italiano sulla quale ancora in gran parte non si è ragionato con la necessaria ampiezza.
Per tracciare un primo bilancio, a quasi trent’anni di distanza, sui temi proposti e sulle idee sviluppate nella rivista una risposta, occorre innanzitutto risalire al contesto storico-politico in cui essa vide la luce, e ai fattori che ne influenzarono la nascita.
Nel corso degli anni Settanta era entrato profondamente in crisi il rapporto, che per decenni era stato solidissimo, tra una parte cospicua dell’intellighenzia italiana e il Partito comunista italiano. L’ondata movimentista del Sessantotto aveva assestato un forte colpo a quell’egemonia del Pci sugli intellettuali italiani, che era stata costruita con grandissima abilità dalla leadership togliattiana fin dalla fine del regime fascista; producendo un neo-radicalismo estremamente eterodosso rispetto alla vulgata gramsciana, e intento a ricercare invece altri modelli ideologici nel maoismo, nel terzomondismo, nell’insurrezionalismo spontaneista.
A prezzo di notevoli sforzi, ed in una situazione interna ed internazionale particolarmente complessa, quel colpo era stato complessivamente riassorbito: tanto che il partito guidato da Enrico Berlinguer aveva potuto affrontare una fase di delicatissima riconversione (la strategia del “compromesso storico” e l’appoggio ai governi di “solidarietà nazionale”, la linea della “fermezza” contro il terrorismo delle Brigate Rosse, l’abbandono delle posizioni antieuropeiste, le prime timide dichiarazioni filo-atlantiste e lo “strappo” nei confronti dell’Unione sovietica) continuando a godere complessivamente di una “copertura” da parte di una cospicua pattuglia di intellettuali ancora “organici”.
Ma qualcosa si era definitivamente spezzato. Le grandi contrapposizioni ideologiche del Novecento mostravano ormai segni evidenti di una erosione strutturale e non episodica. Alla quale si accoppiava parallelamente, nel contesto italiano, la crescente consunzione di un sistema politico-partitico “bloccato” nato nell’immediato dopoguerra intorno alle formazioni antifasciste, e sempre più evidentemente inchiodato dalla sua impossibilità di assicurare un adeguato ricambio della classe dirigente e di governo. In questa situazione, si era messo in moto un processo ormai inarrestabile di sfaldatura del vecchio fronte togliattiano.
Il primo elemento di importanza storica dell’esperienza de «il Centauro» sta proprio nel fatto che le modalità della nascita della rivista e la sua impostazione furono il segno inequivocabile della fine dell’egemonia detenuta a lungo dal Pci sugli intellettuali italiani.
Nell’intervista posposta al volume, De Giovanni racconta come il progetto originario prevedesse una collaborazione tra due gruppi di studiosi che negli anni precedenti erano stati divisi da significative divergenze ideologiche: quello, appunto, dei gramsciani legati alla “scuola barese” (che prendeva il nome dalla sede universitaria in cui insegnavano De Giovanni e altri noti docenti appartenenti al Pci) e quello degli operaisti di Asor Rosa e Tronti (al quale era stato legato anche il teorico dell’“autonomia operaia” Toni Negri). L’ex-direttore aggiunge che l’operazione venne vista con sospetto e preoccupazione dal gruppo dirigente del Pci, il quale attraverso suoi autorevoli esponenti esercitò pressioni affinché essa non fosse portata a compimento. Il timore derivava, evidentemente, dalla facile constatazione che, se due “fazioni” tanto divergenti si fossero unite spontaneamente in un’unica sede di dibattito e approfondimento teorico, ciò non sarebbe certo potuto avvenire nella tradizione della “cinghia di trasmissione” con la linea politica che il partito andava soffertamente ripensando, proprio nella delicata fase successiva all’uscita dalla maggioranza di “solidarietà nazionale”.
Alla fine – sia stato per quelle pressioni o per le persistenti divergenze tra i due nuclei – la rivista comune non vide la luce. Nacquero invece due pubblicazioni distinte: «il Centauro», appunto, e «Laboratorio politico». E tuttavia, anche l’operazione teoricamente più “ortodossa” tra le due avrebbe prodotto, negli anni a venire, idee ormai poco riconducibili alla cultura di matrice comunista del dopoguerra. Infatti «il Centauro» nasceva già, come sottolinea oggi ancora De Giovanni, dalla consapevolezza della fine di un’epoca, sul piano culturale e politico: «Per me, tra il 1976 e il 1979, la sensazione netta fu l’esaurimento delle categorie ermeneutiche del marxismo come l’avevamo utilizzato noi per un decennio (1968-1978)». A ciò contribuivano soprattutto gli eventi del 1977, letti come «una rottura fra giovani generazioni e forme organizzate della politica» [p. 419]; e, parimenti, la percezione che la sinistra non comunista stava cominciando a dotarsi di nuovi strumenti di analisi della realtà politica che per la prima volta sfidavano apertamente l’egemonia culturale del Pci, come testimoniavano la nuova leadership socialista di Bettino Craxi e l’attivismo della rivista «Mondoperaio».
La nascita de «il Centauro» fu, dunque, innanzitutto il tentativo di leggere una crisi, di rispondere alla sfida di scenari inediti che ponevano in questione tutti i punti di riferimento intorno ai quali la formazione dei suoi animatori si era definita: «Per me», aggiunge ancora De Giovanni, «“il Centauro” è la fine di una certa interpretazione dell’intellettualità organica», anzi «era la fine dell’esperienza dell’intellettuale organico» [pp. 420, 421]. Sulle ceneri di quell’esperienza, si imponeva per lui l’esigenza di impostare una riflessione filosofica radicale su un’epoca letta, hegelianamente, come «un tempo di scissione» [p. 421].
Ma quella crisi, che rappresentava il tema fondamentale della loro riflessione, veniva interpretata dagli autori de «il Centauro» in un senso più ampio e generale, fino ad apparire loro come una crisi delle categorie portanti della stessa modernità politica occidentale. Era proprio da questo ampliamento di prospettiva, o proiezione, che derivava l’intitolazione della rivista con il nome di una creatura della mitologia classica caratterizzata dalla commistione tra natura umana ed animale. Quella figura veniva assunta infatti, sulla scorta di una citazione di Machiavelli, come emblema della sfera politica moderna, imperniata sulle nozioni di Stato e sovranità. Il centauro incarnava la figura del Principe che, nell’epoca del “disincanto”, ha come scopo primario la “durata” fisica del potere e per questo deve usare la forza insieme al diritto; ma, più ampiamente, esso impersonava la stessa natura del Soggetto teorico e pratico moderno: sorto, come sottolinea il curatore Dario Gentili, «dalla morte della universale individualità dell’uomo rinascimentale, dal suo ‘imbestiamento’» [p. 10]. La modernità politica e filosofica, insomma, sostituiva all’ideale della fusione tra natura e spirito, corpo e anima, quella di una fusione tra uomo e bestia (o, in prospettiva, uomo e macchina), natura e contro-natura, in grado di sposare la razionalità con la potenza e il dominio. Un’idea, questa, che presupponeva la complessità e la contraddittorietà dei fattori all’opera nella realtà storica, e nel contempo esprimeva al massimo grado l’esigenza di una sintesi generale affidata alla leadership politica.
Ora, la riflessione filosofica degli intellettuali raccolti ne «il Centauro» individuava nella storia del Novecento un passaggio definitivo di crisi, un’autentica “apocalisse” (rivelazione e, al contempo, fine definitiva di un mondo) in cui la sintesi “diabolica” della modernità politica palesava la sua natura contraddittoria, e di essa veniva definitivamente a morire. Sulla scorta di alcune opere teoretiche di allora (De Giovanni nota, al riguardo, soprattutto l’importanza di Krisis di Cacciari, pubblicato nel 1976) l’epoca dell’esplosione e poi della fine dei grandi conflitti ideologici veniva da essi interpretata come quella di un nuovo, più profondo disincanto: di una crisi irreversibile, cioè, delle categorie politico-culturali della modernità, che si traduceva nella nuova consapevolezza di una complessità non più sintetizzabile, non più soggetta a essere raccolta nell’unità del simbolico. In un’epoca caratterizzata costitutivamente dall’incertezza, la qualità principale del politico veniva indicata allora nel saper leggere problemi e conflitti inediti, non prevedibili, con categorie altrettanto nuove ed aperte.
Già nell’editoriale premesso al primo numero della rivista, De Giovanni legava questa coscienza di un superamento strutturale dei vecchi termini della “ragion di Stato” e del confronto ideologico ad una riflessione sulla revisione critica e sulle possibili prospettive di avvenire del marxismo, nel quale egli e gli altri promotori della rivista si erano formati: il marxismo andava per lui sottratto alla statica cristallizzazione che ne era stata fatta prima da Engels, poi dal marx-leninismo sovietico, per essere restituito integralmente alla sua “criticità”, la quale «non ripete la litania del ‘già noto’, ma si misura con tutto ciò che di nuovo la realtà porta dentro di sé». Su tale base, nel saggio Politica dopo Cartesio – pubblicato sempre nel primo numero – De Giovanni celebrava a suo modo il “funerale” del Centauro-Principe machiavelliano: «Nessun sovrano che si collochi da fuori comprende. [...] Il potere, la ‘forza’, son dentro non fuori le cose. E tuttavia ‘forza’ significa costruire un piano artificiale che trasporta le cose in un luogo, in una forma in cui esse diventano visibili, governabili» [p. 86].
Il politico “post-moderno” sa dunque, per De Giovanni, che il vero, unico Principe è lo stesso mondo storico-sociale, nella sua invincibile complessità, e che non esistono dottrine, parole d’ordine, formule che risolvano integralmente quella tensione in armonia: egli può soltanto agire, con mentalità pragmatica, con il fine di rendere compatibili gli aspetti, anche i più stridenti, di quella realtà.
Su «il Centauro», insomma, dal seno della cultura marxista nasceva la prima teorizzazione italiana del “post-moderno” in politica: aprendo la strada a riflessioni di ben definita prospettiva sulle specificità della sfera politica in un mondo post-ideologico, alla luce del tramonto della categoria stessa di Stato. Nello stesso saggio citato, De Giovanni sottolineava come la concezione moderna, cartesiana e hobbesiana, dell’ordine politico e della sovranità implicasse una metafora fisiologica in cui l’intera impalcatura sociale, civile ed istituzionale di una comunità umana veniva ridotta a “corpo” da tenere in vita il più a lungo possibile, “immunizzandolo” dalla sua naturale mortalità. A partire da questo contesto di discussione, riprendendo da Foucault la categoria di “biopolitica”, Roberto Esposito avrebbe costruito nei decenni successivi la sua riflessione sull’immunitas come categoria primaria e caratterizzante nell’ambigua natura dell’ordine politico moderno.
L’idea di un tramonto delle categorie moderne della politica, veicolato a partire da varie angolazioni, conduceva gli autori de «il Centauro» a cercare punti di riferimento filosofici nuovi, nei quali fosse possibile ritrovare un pensiero di quella crisi: in particolare, Carl Schmitt (del quale veniva ripresa soprattutto la lettura critica di Hobbes come massimo demiurgo della “teologia politica” moderna), Nietzsche e Heidegger. Un percorso per molti versi parallelo a quello seguito negli stessi anni dai pensatori che sarebbero stati raggruppati intorno alla formula del “pensiero debole”, intesa come cifra del tramonto della metafisica. Ai quali molti tra i componenti il gruppo de «il Centauro» erano uniti dalla convinzione che la politica “post-moderna” non contrapponesse a quella moderna un nuovo fondamento forte, e anzi di quella rappresentasse in certo modo quasi una estenuazione irrisolta. Come in proposito nota ancora Gentili, nell’impostazione data dalla rivista, «seppure liberato ormai dalle sue unilateralità e dal monopolio delle sue categorie forti, il Politico post-moderno resta ancora ‘moderno’ nella sua interna conflittualità e irrisolvibile contraddizione in qualsiasi ambito parli e ogni volta che un termine debba essere pronunciato “politicamente”» [p. 35]. Insomma, l’“onnipotenza” demiurgica pretesa dalla politica nell’epoca moderna si risolveva alla fine, come notava Giacomo Marramao nel saggio Tradizione e autorità, in «ineffettualità e impotenza» [pp. 303-304], nella sua riduzione a pura tecnica e procedura di un potere ormai vuoto.
In altri termini, la prospettiva filosofico-politica proposta sulle pagine de «il Centauro» sembrava oscillare tra il richiamo di De Giovanni all’empirismo e una tendenza di più profondo distacco verso la teoria politica in quanto tale: riscontrabile in particolare in autori come i già citati Marramao, Cacciari ed Esposito, e segnatamente in Giorgio Agamben, che approdava, sulla scorta di Nancy e Blanchot, all’idea di una comunità “presupposta” e “senza fondamento” come estremo richiamo al pensiero ed alla prassi politica, ridotta però ad una pura, infondata decisione. Cacciari ed Esposito esprimevano un atteggiamento di segno analogo riprendendo e ricontestualizzando da un celebre pamphlet di Thomas Mann la nozione di impolitico. Nella loro visuale, il destino della politica nell’epoca post-moderna si configurava come un richiamo al di là, o al di qua, della politica stessa intesa come dialettica di forze, progetti, interessi, idee: in una scelta dal valore soprattutto esistenziale.
Dall’insieme di queste riflessioni si possono dedurre due caratteristiche particolarmente importanti, che avrebbero avuto una non trascurabile influenza sulla successiva evoluzione, in Italia, tanto del dibattito intellettuale quanto di quello politico.
La prima consiste nella fortissima accentuazione di una interpretazione “catastrofica” della modernità politica, intesa come epoca radicalmente rivoluzionaria rispetto ai preesistenti fondamenti dell’ordine politico. Un’interpretazione che – sulle orme di Heidegger, il quale aveva individuato nel moderno l’epoca del trionfo della mera tecnica – conduceva alle estreme conseguenze una partizione cronologica ormai tradizionale e convenzionale; ma che all’epoca era già da tempo nettamente in dissonanza con tutte le più aggiornate riflessioni sulla storia costituzionale europea. Il processo estremamente complesso e stratificato attraverso il quale dalle monarchie cetuali medioevali si era venuto distillando lo Stato moderno, con tutti i suoi profondi elementi di continuità simbolica nella prosecuzione di una concezione sostanzialmente organicistica dell’assetto politico-costituzionale, veniva ridotto all’estrema semplificazione dello Stato “cartesiano” e “hobbesiano” come pura “macchina”: semplificazione che ignorava la continuità con l’idea gerarchica e organicistica della politica presenti anche nei due massimi filosofi “tecnici” dello Stato. E, per conseguenza, nell’orizzonte del nuovo pensiero ormai post-marxista non trovava ancora nessuno spazio una riflessione sulla realtà storica del costituzionalismo occidentale, sul fondamento essenzialmente religioso delle idee di limitazione del potere, di bilanciamento tra i poteri, dei diritti soggettivi: che, nel passaggio dal diritto consuetudinario cetuale al liberalismo, e infine alla democrazia, non contemplava alcuna “catastrofe” ma al contrario una profonda continuità culturale nello sviluppo dei regimi politici rappresentativi.
In altri termini, l’abbandono di dogmi marxisti-leninisti come la contrapposizione tra una democrazia “formale” o “borghese” e quella “sostanziale” non portava gli intellettuali della sinistra italiana, nemmeno sul finire della guerra fredda, ad attribuire un fondamento forte, sul piano storico e teorico, alla democrazia liberale, ma semmai, all’inverso, ad una posizione di estremo relativismo rispetto alle forme dell’organizzazione politico-istituzionale.
Il secondo aspetto cruciale – strettamente connesso al mancato recupero filosofico del costituzionalismo liberaldemocratico – consisteva nell’identificazione totale che gli autori de «il Centauro» operavano tra le diverse fasi della modernità politica: cioè nella mancata distinzione tra l’epoca della genesi e del radicamento dello Stato moderno e quella, successiva, dell’avvento delle ideologie e dei conflitti totali tra visioni del mondo ai quali esso dà luogo tra Ottocento e Novecento. Era comprensibile che, a partire da un punto di vista che era ancora quello della tradizione ideologica marx-leninista, lo spartiacque tra le due fasi storiche non venisse considerato decisivo. Ma l’idea di un esaurimento della prospettiva totalizzante delle ideologie avrebbe potuto generare, a rigor di logica, una riflessione sullo stravolgimento indotto dall’avvento delle ideologie stesse, intese come religioni secolarizzate, sulla dialettica politica e sulla concezione dello Stato nella modernità: uno stravolgimento che apriva, esso sì, la strada alla fine di ogni potenzialità simbolico-rappresentativa della sovranità e delle istituzioni. Non emerge pressoché mai nel pensiero dei post-marxisti de «il Centauro» la consapevolezza che in realtà quella che tramonta con la fine della guerra fredda non è tanto la modernità politica (lo Stato, il Principe, il Sovrano, la rappresentanza, la burocrazia, e così via) quanto, appunto, l’epoca delle ideologie, che quella modernità aveva unilateralmente “colonizzato”, cancellando ogni residuo dell’umanesimo politico occidentale ed instaurando la “teologia politica” puramente volontaristica dei suoi culti, delle sue liturgie, della sua riduzione della politica alla logica bruta amico-nemico, pienamente realizzata nei totalitarismi novecenteschi.
Conseguentemente sulla rivista, anche nella linea di tendenza rimasta più vicina alla tradizione hegeliana – quella appunto incarnata da de Giovanni – si tendeva a coinvolgere nell’archiviazione delle categorie del Politico moderno persino la nozione di dialettica, lasciando quasi del tutto sguarnito il campo dell’interpretazione razionale dei conflitti economici, sociali e politici. Laddove successivamente lo studioso napoletano si sarebbe orientato, semmai, in direzione del recupero di una concezione non totalizzante della dialettica stessa, emancipata dal dominio di una prospettiva deterministica ed escatologica; e che però al tempo stesso salvaguardasse la possibilità della costruzione di un ordine di senso nella lettura della storia europea ed occidentale.
Analogamente, l’idea che a partire dall’epoca moderna del “Principe”, e a maggior ragione in quella post-moderna, la prassi politica fosse inevitabilmente confinata nella sfera dell’“artificio” impediva di aprire una riflessione, che avrebbe potuto essere feconda, sulle forme in cui nelle democrazie contemporanee era stata trasmessa l’eredità del costituzionalismo cetuale (neo-corporativismo, federalismo). Una tale riflessione avrebbe dovuto presupporre, infatti, la consapevolezza della persistenza, ben oltre lo spazio della politica medioevale, di un riferimento simbolico e metaforico all’ordine naturale dell’ordinamento politico nella storia europea, e successivamente nella diffusione “globale” dei suoi princìpi fondanti.
È possibile, a questo punto, comprendere quale sia stata la nota caratteristica de «il Centauro» nell’evoluzione della cultura politica della sinistra italiana di derivazione comunista. La vicenda della rivista mostra chiaramente, infatti, come l’allontanamento dall’ortodossia ideologica totalitaria marx-leninista non abbia comportato per la cultura prevalente a sinistra nel nostro paese una riappropriazione in forme proprie della tradizione liberaldemocratica e socialista occidentale, e nemmeno un’adeguata tematizzazione delle radici culturali di quelle tradizioni. In una delle sue migliori espressioni culturali, infatti, la sinistra post-comunista giungeva, viceversa, ad accomunare costituzionalismo, vicenda dello Stato moderno, liberalismo, democrazia, socialismo, comunismo, fascismi, nazionalismi nel gran frullatore concettuale della “crisi della modernità”, archiviandoli in blocco come la fine di un illusione prometeica di salvaguardia dell’ordine attraverso la durata “fisica” degli organismi istituzionali. Di conseguenza, tutto ciò che essa riusciva a proporre come alternativa alla crisi della propria tradizione, che sommariamente confondeva con quella del Moderno, era l’appello ad una dimensione “oltre” e “fuori” rispetto alla politica tradizionalmente intesa. Una dimensione emotiva, etica, “mistica”, legata ad un’esigenza comunitaria non articolabile secondo la ragione e la tradizione politica euro-occidentale.
Parallelamente, la cultura politica diffusa della sinistra non più comunista avrebbe visto il passaggio dalla rivendicazione di un’alterità ideologica e di un modello alternativo di organizzazione sociale a quella di un’alterità etica, e all’identificazione dei propri antagonisti non più in interessi economici organizzati e in partiti che di questi erano i rappresentanti, ma in un più indistinto apparato di potere “corruttore” dell’etica sociale. Si verificava, insomma, la transizione dall’ideologia del conflitto di classe a quella moralista-giustizialista. Attraverso quest’ultima, peraltro, ciò che restava dell’eredità del marx-leninismo italiano confluiva sostanzialmente nell’alveo di un populismo in cui si postulava la contrapposizione tra un’Italia “sana” ed una “malata”: riprendendo motivi e suggestioni di varii motivi del pensiero politico italiano dell’‘800 e del ‘900 fin proprio a quel movimentismo sessantottino che gli intellettuali legati al Pci avevano strenuamente tentato di contrastare e “riassorbire”. Tutti elementi che sarebbero confluiti negli anni Novanta, con il crollo della “prima repubblica”, in una più generale cultura politica dominante caratterizzata dalla mitizzazione della “società civile”, e dalla demonizzazione sommaria dei partiti e del professionismo politico.
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