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Gioacchino Volpe tra storia e politica
di Emilio Gin
Preceduta da studi sicuramente significativi (Cervelli, Belardelli, Turi), l’imponente monografia di circa 750 pagine, dedicata da Eugenio Di Rienzo a Gioacchino Volpe (La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, Firenze, Le Lettere, 2008), forse potrebbe costituire, almeno per la completezza della documentazione, la parola conclusiva su questo argomento. È un Volpe seguito passo passo, in tutte le fasi della sua esistenza (dalla «culla alla bara», si potrebbe dire), quello che Di Rienzo ci presenta, in un volume che ha comunque anche l’ambizione, in buona parte riuscita, di offrire al tempo stesso una storia del tempo in cui Volpe si trovò ad agire, scandito dai drammatici tornanti della crisi dello Stato liberale, dell’inquieta vigilia della Grande Guerra e del suo svolgimento, dell’avvento e del consolidamento del Fascismo, della seconda prova bellica, in cui il nostro paese si trovò impegnato, del suo catastrofico esito, durante il quale si consumò la fine della dittatura, della nascita della prima Repubblica, del processo di modernizzazione degli anni Sessanta.
Il volume parte dalla prima formazione intellettuale di Volpe vissuta sotto l’influenza di un apprendistato politico e culturale integralmente basato sul magistero del Carducci «poeta civile», il quale, come bene mise in luce Croce, «per mezzo della scuola e della quotidiana polemica, manifestò variamente quel suo carattere, esercitando per alcuni decenni opera di correttore e di educatore». Era quello di Volpe un Carducci, che aveva ormai consumato il distacco dall’ideologia «giacobina» della giovinezza, avvicinandosi decisamente all’istituto monarchico. Un Carducci, dunque, che aveva condiviso pienamente e poi appoggiato con vigore gli obiettivi politici di Francesco Crispi e in particolare quello di traghettare anche i più inquieti ceti intellettuali, usciti dalla vicenda risorgimentale, su posizioni costituzionali e legalitarie di accettazione piena e indiscussa dello status quo istituzionale, soprattutto in vista del raggiungimento di una grandeur internazionale, che solo la coesione interna della nazione, garantita dalla corona, avrebbe potuto consentire. Ma anche un Carducci «poeta della storia» (la definizione è ancora di Croce) e storico in prima persona, nelle cui interpretazioni delle stagioni dell’Italia medioevale si trovavano contenuti in nuce alcuni temi fondamentali del Volpe storico dell’età comunale, ma già precocemente storico della nazione italiana. In primo luogo, la messa in evidenza della lunga durata e della costanza di un «principio popolare nazionale», che si presentava quasi come un’energia generatrice di carattere materiale e naturale, costituendo, proprio per questo, un fattore remoto, sotterraneo, ma sempre operante in tutta la sua potenza, della dinamica storica della nazione, in quanto «forza vitale» che non corrispondeva a nessuna precisa denotazione economica, sociale, etnica. Il «popolo» si sarebbe sempre acquartierato come sovrano, unico e indiscusso, nella ricostruzione storica di Volpe storico dell’Italia medievale, moderna e recentissima, il quale, nel 1907, avrebbe esplicitamente ricordato come l’indagine del passato avrebbe costantemente dovuto concentrasi sull’elemento collettivo e cogliere in profondità «i prodotti inconsapevoli della storia, in cui più che l’impronta netta dell’uomo di genio si ritrova il lavorio lento, secolare, incerto della turba anonima ed incolore, la goccia che scava il macigno, le istituzioni economiche e giuridiche tutte, in cui si fissano e si tramandano i bisogni e le consuetudini della gran massa degli uomini».
Condizionato dall’influsso di questa prima formazione, destinata a non venir mai meno, Volpe inoltrava la richiesta di ammissione per un posto gratuito nella sezione di Lettere della Scuola Normale Superiore di Pisa, nel luglio del 1895. In quella sede, trovava un ambiente intellettualmente vivace, a partire dai suoi stessi compagni di studio (Giovanni Gentile, naturalmente, Fortunato Pintor, Giuseppe Lombardo Radice) e dai suoi insegnanti, da D’Ancona a Crivellucci, il quale con la rivista «Studi Storici», da lui diretta, aveva offerto la sede privilegiata, nel quale si stava combattendo buona parte del «conflitto sul metodo», che avrebbe interessato la storiografia italiana nel crinale dei due secoli, opponendo i sostenitori dell’interpretazione «materialistica» e «realistica» della lezione di Marx. Tra questi ultimi, si schierava immediatamente Volpe che, a partire dal 1900, avrebbe intrecciato un fecondo rapporto con il più importante sostenitore di quest’ultima tendenza, Benedetto Croce, con il quale entrava in contatto, al principio del nuovo secolo, grazie a Giustino Fortunato e Gentile. Questo rapporto privilegiato parve configurarsi all’inizio come quello tra maestro ed allievo, con grande deferenza del più giovane storico nei confronti del poco più anziano filosofo. Ma quel legame presto si sarebbe sviluppato su di un piano di assoluta parità, nel momento in cui Croce individuò in Volpe il miglior storico della sua generazione, colui che, meglio di ogni altro, aveva recepito la revisione crociana del materialismo marxista, tramutandolo in «metodo critico», in «storiografia realistica», e rifiutandone la trasformazione nella «filosofia della storia» di Gentile o nel semplicismo sociologico di Gino Arias e Gaetano Salvemini, ambedue malamente influenzati da Achille Loria. Stima del tutto ricambiata, questa, se Volpe, nel marzo del 1903, dopo aver ricevuto il primo numero della Critica diretta dal filosofo napoletano, gli scriveva di apprezzare senza riserve la linea editoriale del nuovo periodico e soprattutto «la battaglia, che essa ingaggerà subito con certe modernissime tendenze sociologiche e pseudosociologiche che, con facili generalizzazioni ed enunciazioni di leggi storiche, ad ogni piè sospinto minacciano di farci tornare molto indietro, peggio ancora, di tutte le nostre idee infatti di metodo storico e di ricerca».
Da quel momento Volpe diveniva lo storico accreditato della rivista, con una serie di note, recensioni, articoli, che Croce definiva «semplicemente stupendi» e, grazie a quella funzione, entrava in contatto con altri grandi protagonisti intellettuali, come Luigi Einaudi. Dall’illustre inquilino di Palazzo Filomarino, Volpe ricevette poi qualcosa di più di un semplice riconoscimento formale del suo valore. Durante il concorso universitario del 1905, che lo vide gareggiare quasi ad armi pari con Salvemini, Volpe dovette in buona parte la sua vittoria a Croce, molto legato al filologo romanzo Francesco Novati, preside della Facoltà milanese, dove la cattedra era stata bandita, al quale il filosofo aveva parlato di Volpe come «studioso che io stimo come una delle migliori speranze degli studi storici italiani». L’ingresso italiano nella Grande Guerra li trovò su posizioni opposte, acceso interventista Volpe e fermo neutralista Croce, ma quel dissidio non incrinò nella sostanza la loro intesa. Nel gennaio del 1916, lo storico scriveva al filosofo «la storia ci unisce e la realtà politica ci divide, un poco, pazienza!», ma nella stessa lettera gli sottoponeva un progetto di una storia dell’Italia, da investigare in tutte le sue componenti politiche, economiche, sociali, religiose, persino sessuali, dove largo spazio doveva essere dato a tematiche fino allora ignorate: dalla questione meridionale, al problema dell’emigrazione, alla crescita dell’apparato industriale e alla sua ricaduta sulle condizioni materiali e morali della vita quotidiana. Un progetto, questo, che Volpe avrebbe portato compiutamente a termine nei suoi lavori contemporaneistici: da Italia in cammino del 1927, alla trilogia dedicata alla «storia civile» del popolo italiano nel primo conflitto mondiale (Il popolo italiano tra la pace e la guerra; Ottobre 1917; Il popolo italiano nella Grande Guerra), ai pionieristici studi sul movimento fascista del 1932 e del 1939, al grande massiccio storiografico di Italia Moderna, pubblicato a partire dal 1943.
La Grande Guerra, che vide Volpe direttamente impegnato sulla linea del fronte, costituì un momento di profondo trapasso della sua storiografia. Da quel momento in poi l’elemento «nazionale» sembrò avere decisamente la meglio su quello «popolare» e la storia d’Italia venne da Volpe tratteggiata non più soltanto come «storia interna di una comunità e di una stirpe», ma come dinamica fisiologica verso un’espansione esterna che iniziata felicemente, tra XI e XIII secolo, poi interrottasi bruscamente con la decadenzee del Quattrocento, avrebbe dovuto ora riprendere impulso con eguale vigore, seguendo le stesse antiche direttrici di sviluppo verso il litorale adriatico, l’Africa mediterranea, la Corsica, le Baleari, fino al Levante. Dopo la delusione per la conclusione delle trattative di pace di Versailles, il Volpe nazional-liberale della vigilia del conflitto era ormai divenuto un Volpe integralmente nazionalista (le cui posizioni si assimilavano quasi completamente a quelle di un Coppola o di un Federzoni), spiritualmente pronto a transitare nelle fila del fascismo nella speranza, condivisa allora da molti altri intellettuali d’estrazione liberale (da Croce a Casati, ad Einaudi), che quel movimento potesse offrire il rimedio alla «Caporetto civile» del biennio, che fece seguito alla fine del primo conflitto. Nel novembre del 1920, Volpe transitava, sia pure nelle vesti di semplice fiancheggiatore, nelle fila del movimento fascista, sulla base di un fiducioso progetto di restaurazione degli ideali liberali e nazionali. L’adesione era ratificata da un intervento indirizzato a Mussolini, che, redatto il 18 di quello stesso mese, veniva dato alle stampe, sul «Popolo d’Italia», in casuale ma significativa coincidenza, la domenica della strage di palazzo d’Accursio a Bologna, dopo la quale lo squadrismo compiva un ulteriore salto di qualità politico e militare, e in ragione della quale il problema della violenza fascista si trasformava da semplice problema di ordine pubblico a problema di praticabilità del sistema costituzionale italiano. Poi, nel 1924, l’elezione dello storico a deputato nelle file del Pnf, la sua collaborazione, anche se con forti riserve mentali al varo delle «leggi fascistissime», e per l’intero ventennio (dall’affare di Corfù, alla guerra di Etiopia, al 1940) il suo sostegno convinto alla politica estera di un regime, del quale, per altri versi, Volpe avrebbe criticato alcune delle più importanti realizzazioni interne: dal programma corporativo, alla manomissione delle prerogative della Corona, al Concordato, alle leggi sulla razza. Infine, solo, dopo l’esito drammatico delle campagna di Grecia, il divorzio di Volpe da un sistema di potere che, per usare proprio le sue parole, alla prova della guerra aveva fallito il suo «vero collaudo, proprio di tutti i regimi autoritari e totalitari».
*
Questi in estrema sintesi i contenuti del volume di Di Rienzo che ci sembra costituire una storia collettiva e non soltanto privata e personale, oscillando sempre, e molto spesso felicemente, tra biografia e storia generale. In quest’ottica, l’esistenza di Volpe si fonde con la biografia corale di un’intera generazione intellettuale (quella dei Croce, dei Gentile, dei Salvemini, dei Prezzolini, dei de Ruggiero, degli Anzilotti, dei Casati, dei Pintor, dei Soffici e dei Papini), rintracciata alla luce dei moltissimi carteggi inediti, ricostruiti, per la prima volta, con certosina pazienza dall’autore. E in questa stessa prospettiva, la vicenda di colui che fu per antonomasia lo «storico della storia d’Italia» (dal Medioevo all’Età contemporanea) finisce per rappresentare la «storia di un italiano», accomunata a quella di tanti altri più oscuri suoi connazionali dagli stessi desideri, dalle stesse aspirazioni, illusioni, traviamenti. Per Di Rienzo, infatti,
se la “grandezza” del Volpe storico fu infatti, come soltanto accadde nella Francia del XIX secolo a Michelet, la capacità di aver instaurato un rapporto intimo, istintivo, molto spesso non mediato da una precisa prospettiva intellettuale, con il suo popolo, quella fu anche la sua “miseria”, quando quel rapporto viscerale lo spinse, per volontà di comprendere a tutti i costi e di tutto voler giustificare, a considerare con davvero eccessiva indulgenza, da una prospettiva che Croce avrebbe giudicato pericolosamente “affettuosa”, le vicende della sua patria, anche quando queste si sarebbero incrociate e compromesse con i mali oscuri del Novecento.

Grazie a questa impostazione, il lettore viene messo in grado di comprendere le vicende della sfortuna e della fortuna, che la nuova Italia repubblicana, avrebbe riservato a colui che Rosario Romeo definì «forse il più grande storico italiano della prima metà del Novecento». Da una parte, il rifiuto della sua storiografia, a partire dal 1945, che si sarebbe basato più sui dati della sua vita che su quelli della sua opera, e «la leggenda nera», eppure sicuramente non infondata, del Volpe fascista e poi neofascista, che avrebbe potentemente assecondato la degradazione morale dell’Italia di Mussolini e dei suoi epigoni, dilapidando le sue stesse formidabili qualità di analista del passato. Dall’altra, in tempi più recenti, la nascita, per contrappasso, di un’altra leggenda, questa volta aurea, ma sicuramente meno credibile, relativa ad un Volpe, vittima inconsapevole dei mali del proprio tempo e sempre capace di superare i tanti condizionamenti ambientali, grazie alle superiori doti di un’impareggiabile maestria storiografica. In ambedue i casi, una congettura di valore, molto spesso formulata a priori, ha così ridotto e mortificato la ricchezza e la contraddittorietà di un’esistenza, che Di Rienzo è riuscito a farci comprendere, a parte intera, a condizione di narrarla, prima di giudicarla, in tutte le sue luci e in tutte le sue ombre.
Proprio il carattere volutamente narrativo del volume riesce infatti a diradare la spessa cortina di semplificazioni e di congetture, più o meno tendenziose, che ha finito per confondere la reale fisionomia dell’adesione di Volpe al movimento di Mussolini. Per Di Rienzo, i tempi, i modi, la durata di quell’adesione lasciano veramente poco spazio all’utilizzazione della mistificatoria categoria del «fascismo critico» o del «fascismo defascistizzato», che nel caso di Volpe è spesso servita a fabbricare una versione giustificazionista della sua biografia politica, o peggio a confezionare l’icona apologetica di un uomo di studi maldestro nel muoversi tra i meandri politici dell’Italia fascista e addirittura di un «liberale» straniero alla dittatura. Si tratta, in ambedue i casi, secondo Di Rienzo, di una ricostruzione assolutamente ingannevole, basata soprattutto sull’errata valutazione di quel «diritto al mugugno», che il regime concesse più o meno largamente a molti degli intellettuali attivi nel Ventennio, e che in Volpe toccherà livelli di spregiudicatezza sicuramente alti, addirittura eccezionali e fuori norma, ma non tali da poter configurare una vera e propria contestazione sistematica alla dittatura.
La stessa decisione di non aderire alla Repubblica Sociale Italiana, da parte dello storico, assume, una volta messa in chiaro grazie a nuove testimonianze addotte da Di Rienzo, più il significato di un estremo atto di lealismo verso l’istituto monarchico, che quello di una vera e propria condanna del Ventennio, come già testimoniava la lettera inviata a Gentile, il 16 agosto 1943. In quella corrispondenza, Volpe pronunciava la sua abiura nei confronti del «fascismo degenerato e corrotto degli ultimi anni, che non era niente o era solo un uomo, un avariatissimo uomo», per poi però immediatamente dopo esprimere il suo rimpianto per una mancata correzione di rotta che avrebbe potuto portare, prima della catastrofe finale, «ad una evoluzione, sia pure rapida, ad una “normalizzazione”, che permettesse di innovare e, infine, di raccogliere nel nuovo il meglio delle eredità del fascismo e mantenere così la continuità della vita italiana», consentendo di «aiutare gli Italiani nuovissimi a separare “quel che è vivo e quel che è morto” del fascismo». Un testimonianza, questa, importante per comprendere l’atteggiamento politico dello storico nel secondo dopoguerra, che lo porterà ad una militanza nella fila del neo-fascismo, la quale pure creava qualche conflitto irrisolto tra la sua fisionomia di fermissimo monarchico e il legato repubblicano degli «orfani di Mussolini». Eppure quel ritorno alla politica non fu soltanto causato dall’ostilità di Volpe verso il nuovo regime politico italiano, che aveva infierito contro di lui, privandolo dell’insegnamento universitario, estromettendolo da tutte le istituzioni culturali, boicottando letteralmente la diffusione della sua produzione intellettuale. Secondo Di Rienzo, il fiancheggiamento, sia pure sporadico e non sempre coerente, alle iniziative del Msi trovava le sue ragioni profonde nella convinzione, più volte espressa da Volpe, fino al 1971, di non potersi «considerare come non avvenuto quello che per un quarto di secolo costituì la vita di cinquanta milioni di italiani, perché vi sono in ogni società civile che non voglia perire dei valori fuori dal tempo e fuori dalla storia, che non si discutono, pena il dissolvimento della società stessa». Era la stessa filosofia di riferimento di altri illustri reduci del regime (Soffici, Papini, Barna Occhini, Biagio Pace, Camillo Pellizzi), che li portava a riconoscersi in un movimento che rappresentava «il piccolo fascismo dopo il grande Fascismo», in una prospettiva storica dove il passato sembrava destinato a non dover più passare. Anche se Di Rienzo riconosce a Volpe l’intuizione politica, vicina alla strategia sperimentata da De Marsanich nel 1950, che ipotizzava la possibilità di dar vita ad una «grande destra», nazionale, moderata, conservatrice, aconfessionale, simile per quanto possibile al modello offerto dal gollismo francese, in grado di agire da protagonista nel nuovo quadro istituzionale sancito nel 1948, respingendo ogni recriminazione e ogni spinta anti-sistema.
Ricco di meriti indubbi, il volume di Di Rienzo non è comunque esente da qualche difetto, che vale la pena di mettere in luce. In primo luogo, la mole eccessiva del volume, che avrebbe potuto essere contenuta rinunciando ad un’eccessiva larghezza della contestualizzazione storica e al compiacimento per l’esibizione della sicuramente ricchissima documentazione raccolta. In secondo luogo, la vicinanza forse troppo stretta dell’autore al suo oggetto di indagine, che rischia di fare di Volpe una sorta di «primo motore» dell’intera storiografia italiana del Novecento, sottovalutando altre tendenze come quelle di Croce e di Salvemini. Che la riflessione sulla storia italiana della prima metà del secolo appena trascorso abbia potuto avere altri esiti, assai diversi da quelli indicati dall’autore dell’Italia in cammino, ce lo dimostrano infatti due volumi recenti, che si muovono lungo lo stesso arco cronologico e problematico tracciato da Di Rienzo, portando a diverse, anche se non opposte, conclusioni. Intendo parlare dell’importante monografia di Michele Maggi dedicato a Gramsci, la cultura e la guerra europea (Edizioni di Storia e Letteratura, 2008) e dell’ammirevole sintesi di Roberto Vivarelli su Fascismo e storia d’Italia (Il Mulino, 2008), che, insieme al volume qui recensito, forniscono degli elementi rilevanti per ricostruire la fisionomia politica e intellettuale del nostro «Secolo breve».
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