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Crisi mondiale e "anatra zoppa" italiana (con cenno al Mezzogiorno)
di G. G.
Non è infondata la tesi per cui l’Italia, nella presente crisi mondiale, se la sta cavando meno peggio di molti altri paesi fra i maggiori. Solo che, ci pare, mai se ne spiega il perché.
Si dice che le banche italiane sono meno esposte nei rovinosi aspetti finanziari della crisi, sicché non ci sarebbe ragione di temere per esse un tracollo come quello che ha investito varie banche degli Stati Uniti e che grava su altre varie banche europee. A quanto sembra finora, questa affermazione può essere riconosciuta valida, anche se non mancano coloro che sono convinti di una maggiore o minore esposizione latente di istituti bancari italiani ai rischi funesti lamentati per tante banche di altri paesi, anche europei, e che non escludono, perciò, qualche improvviso crac di imprevedibile portata. E, se la crisi in atto si limitasse a una tempesta, anche grave, del settore finanziario e bancario, si potrebbe ritenere di dover soffrire, e, magari, anche molto, ma le preoccupazioni sarebbero certamente alquanto minori di quel che sono. Così, invece, non è, perché, come è noto, e come era da aspettarsi, la crisi è tutt’altro che limitata al settore finanziario e bancario, e ha già investito in pieno, e a livello mondiale, l’economia della produzione e degli scambi – la cosiddetta “economia reale” – e il livello dei consumi, determinando così un tipico “circolo vizioso”: meno consumi, meno mercato, meno produzione, meno credito e solvibilità, minori redditi, e daccapo meno consumi etc. Ed è qui appunto che si innesta l’osservazione sulla minore presa della crisi mondiale sull’Italia.
Quel che non ci è sembrato di vedere osservato nei molti commenti (e, spesso, sproloqui) di politici e pubblicisti, ma anche economisti è, però, che l’almeno apparentemente minore portata della crisi è dovuta essenzialmente al fatto che la crisi stessa è arrivata quando l’economia italiana da alcuni anni era in affanno, e in affanno anche grave. Tanto grave che da qualche tempo l’andamento del Prodotto Interno Lordo (il mitico PIL) faceva registrare incrementi del tutto trascurabili, se non addirittura un regresso. Molto negativo era, perciò, il confronto con gli alti tassi di aumento del Pil dei paesi oggi rampanti (Cina, India, Brasile, Spagna, fino alla Romania) e spesso portati ad esempio e modello (almeno quelli europei, in particolare la Spagna, molto invidiata qui per questa ragione) alla disgraziata Italia. E molto negativo il confronto era anche coi paesi dell’Occidente avanzato, i quali ugualmente apparivano in calo nella loro velocità di marcia sulla via di un ulteriore sviluppo, e tuttavia facevano registrare tassi di aumento del PIL ben superiori a quello dell’Italia.
In altre parole, l’attuale crisi mondiale ha colpito un’economia italiana già in grave rallentamento e, in varii settori, addirittura ferma o in regresso, quasi che i mali della crisi fossero qui già in corso. L’incalzare di questi mali ha, quindi, colpito un’Italia che era già una “anatra zoppa” nell’economia mondiale, e in particolare nel contesto europeo. Il masochismo nazionale già osservava, anzi, che per l’Italia era iniziato il cammino di un fatale declino, e si annunciava l’altrettanto fatale conclusione della non lunga carriera dell’Italia come paese fra i primi dieci del mondo in fatto di sviluppo economico moderno. Ed è in ciò, appunto, la ragione del perché la crisi odierna non abbia potuto avere qui la stessa profondità che in altri paesi, che prima della crisi stessa erano in molto minori difficoltà rispetto all’Italia.
I dati economici della fine del 2008 sembrano avallare tutto ciò, traducendo la maggiore tolleranza della crisi in Italia, e, per così dire, la maggiore preparazione involontariamente fatta ad essa con le difficoltà del paese negli anni precedenti, in un incremento delle esportazioni italiane del 4,3% e, perfino, in un nuovo superamento, dopo vent’anni (al tempo di Craxi!), del PIL inglese (1.535 miliardi di euro l’Italia, 1.468 il Regno Unito). Dati che farebbero addirittura sperare che il 2009 possa andare per l’Italia un po’ meno peggio di quanto si ha ragione temere (meno peggio, e cioè non bene, ma solo molto relativamente meglio, dato che le contrazioni delle attività e dei redditi proprie della crisi si erano già in parte subìte, pressappoco dal 2000 in poi, anche se erano – e sono – tutt’altro che già assorbite, o, se si preferisce, digerite: per il resto le previsioni degli analisti e degli studiosi, a correzione di ogni banale e semplicistico ottimismo, sono orientate a prevedere anche per l’Italia nel 2009 un’ulteriore riduzione del PIL, addirittura di più dell’1%).
È vero, d’altronde, che, come Luca Ricolfi ha notato in un recente articolo su «La Stampa», le statistiche hanno sempre due facce e possono alimentare una doppia verità a seconda dei criteri (o pregiudizi) con cui le si legge e le si usa. Non è, però, meno vero che il senso delle statistiche, quando c’è, è ben poco discutibile. E i dati della fine del 2008 ai quali abbiamo accennato un senso sembrano averlo. Soprattutto sembrano averlo per quanto riguarda il temuto declino della fase inventiva e innovativa dello sviluppo italiano. E c’è sempre anche da considerare – a nostro avviso – che, come ben si sa, una parte non esigua dell’attività economica e della ricchezza italiana vive fuori dei confini nazionali, nei paesi a più convenienti condizioni di investimento, e nelle statistiche nazionali non figura, quindi, nella sua effettiva realtà e consistenza. Osservazione, forse, non ortodossa da altri punti di vista, anche di pertinenza statistico-economica, ma certamente a suo luogo quando si parla di cose grosse come il temuto e predicato declino italiano.
Il paese, dunque, ha, in certo qual modo, capitalizzato, per così dire, le sue difficoltà e traversie economiche e finanziarie degli ultimi anni, e va affrontando la crisi attuale partendo da un livello più basso, il che la rende per l’Italia un po’meno drammatica e angosciosa che per altri paesi, che hanno goduto fino ad oggi di una molto migliore stampa in fatto di saggezza della loro politica economica e finanziaria e in fatto di vigore e di slancio delle loro energie sociali. Ciò non significa, ovviamente, che il compito di chi oggi governa, e domani governerà, il paese sia più facile. Da sempre, ma tanto più in regime di globalizzazione non vi sono gabbie d’oro o prigioni dorate, o sono ingannevoli e costituiscono, in realtà, la fonte degli errori più gravi. Al contrario, proprio il più basso livello e tono dell’attività economica in cui la crisi ha trovato l’Italia impone ai governi del paese problemi più complessi e difficili, dato il sovrapporsi di due compiti, che si possono coordinare, ma che, non per ciò, restano meno distinti: il compito di assicurare la ripresa dalla crisi specifica dell’Italia negli anni precedenti e di stornare in modo valido e duraturo ogni prospettiva di declino italiano, e il compito di far fronte ai non lievi contraccolpi della sopravvenuta crisi mondiale, che, quale che fosse la condizione dell’Italia al suo sopravvenire, non possono non farsi sentire (e già, infatti, si sentono) anche sull’economia italiana e su tutto ciò che ne consegue per la vita materiale e sociale del paese.
Paradossale appare, a questo punto, la posizione del Mezzogiorno. Ancor più toccato del resto dell’Italia dalle difficoltà degli anni scorsi, esso dovrebbe risentire di meno il morso della crisi. Ma questo vale, in effetti, per le economie con un loro impianto organico e consistente e un grado alto di inserimento nel grande mercato internazionale. Il Mezzogiorno solo in parte rientra in questa tipologia, e vi rientra quasi solo come parte dell’economia italiana nel suo insieme. In circostanze come quelle attuali dell’economia mondiale, a volare di più sono gli stracci. Non è, quindi, da aspettarsi nulla di buono, per lo stesso Mezzogiorno, dalla crisi in corso, salvo che nella misura in cui esso è parte dell’Italia, e si trova perciò, come abbiamo notato, ad avere già in parte scontato un processo di recessione o di crisi (e, anzi, dato il dualismo italiano, il Mezzogiorno si trova ad averlo scontato anche di più). E, tuttavia, come sempre, è proprio per i più deboli che le crisi possono anche aprire, talvolta, qualche spiraglio ad essi di solito precluso.
Questa crisi ha, infatti, segnato, tra l’altro, ed è un suo aspetto di grande interesse e importanza, una forte eclisse di quei fautori del mercato come unico regolatore dell’economia che sostenevano un liberalismo assoluto e pieno, di rado visto in passato (e ricordiamo, per inciso, che una gran parte della polemica antimeridionalistica dell’ultimo quindicennio ha avuto come suo tema ricorrente la deprecazione della inettitudine e ineducazione del Mezzogiorno al mercato, a causa della politica di assistenzialismo pubblico che alimentava le peggiori tendenze meridionali al parassitismo e all’inerzia: una delle polemiche più odiose e mal fondate in questa materia). Sta il fatto che la Russia decide ora di finanziare con aiuti di Stato, a correzione delle indicazioni del mercato, ben 295 sue grandi imprese; e questo certo non sorprende, date le sue tradizioni. Ma misure analoghe e più ingenti ha deciso il governo americano per l‘industria automobilistica e addirittura per qualche banca; e questo è certo una novità, e non piccola.
Ciò conferma che in questa crisi la parte dello Stato nell’economia appare destinata, almeno nel futuro prossimo, a crescere sia come finanziamenti a imprese e ad attività, sia come iniziative più o meno dirette, a cominciare dei lavori pubblici. Ed è qui, dunque, che nascono le opportunità possibili per il Mezzogiorno nell’attuale crisi; e sembra averlo bene inteso il ministro Tremonti, che parla di un Mezzogiorno da non lasciare solo e, anzi, da dotare delle risorse necessarie per crescere nelle nuove condizioni.
Il ministro si riferisce, anzitutto, alla priorità, come da sempre diciamo qui, delle infrastrutture in ogni azione per il Mezzogiorno: e su questo non si può che dargli ragione. Insiste pure sulla sua idea di una banca per il Mezzogiorno, in base alla giusta premessa che i meridionali risparmiano parecchio, ma il loro risparmio è dirottato altrove dal sistema del credito (per noi, però, anche da altri, fra cui le pubbliche amministrazioni, a cominciare dallo Stato). E su questo è da capire meglio cosa si vuol fare e come, ma il criterio è senz’altro lodevole.
Chi, tuttavia, sosterrà in sede politica, e come, le prospettive che così si delineano? La mediocre schermaglia fra maggioranza e opposizione sembra volare, al riguardo, assai più in basso del dibattito in corso nella stampa. Né si vede nelle attuali rappresentanze parlamentari e di governo chi sappia far valere le cose di cui parliamo. Basti dire che, oggi come oggi, il “meridionalista” più attivo sembra proprio Tremonti. Che si vuole di più? Anche se, a nostro avviso, Tremonti è di certo fra i migliori giocatori in campo.
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