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Vita storiografica e identità nazionale. A proposito di storia d'Italia
di Marco Trotta
Impegnato non da oggi sul versante degli studi sul processo di formazione della nazione italiana, Eugenio Di Rienzo, nel suo ultimo Storia d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, (Firenze, Le Lettere, 2006), si è posto l'obiettivo di smuovere le acque stagnanti del dibattito sui destini storici del nostro paese, impantanatosi nel guado dell'arretratezza culturale di uno scontro ideologico semisecolare. Che questa, appunto, appare la mission del libro: puntare al «rilancio di una storiografia autenticamente nazionale», capace di rimuovere vecchie ruggini e proiettarsi verso la ripresa di un discorso unitario della storia d'Italia, intorno a rinnovate coordinate identitarie, mediante - e questo è, in effetti, il cuore del suo messaggio - la riproposizione di un canone storiografico, che fu caro a Gioacchino Volpe nei primi decenni del Novecento.
Il fatto di partire dalla figura dello storico fascista potrebbe avere il significato di una provocazione, tenuto pure conto dell'ostracismo nei confronti del Volpe anticonformista, nel corso dei primi anni repubblicani (non pochi tra i suoi allievi assunsero un tale atteggiamento). Negli intenti dell'Autore vi è probabilmente anche questo; ma molto più realisticamente Di Rienzo prende le mosse dallo stallo degli studi storici su questo terreno insidioso, per esprimere un certo disagio di fronte all'assenza di progetti condivisi per una nuova memoria del nostro paese, per la ricerca di un chiaro profilo identitario della nazione, ma anche per liberarsi, con l’ "ottimismo della volontà" di gramsciana memoria, di un nodo che ancora mantiene in piedi ortodossie di pensiero cristallizzate in steccati ideologici, sotto il peso di divaricazioni delle sorti storiografiche italiane.
Allora, il riferimento all'esempio di Volpe, al di là dei discutibili aspetti ideologici della sua visione, diventa per Di Rienzo pienamente congruente. Egli fu, da tale punto di vista, il grande studioso che impresse allo sviluppo nazionale il marchio dell'unita, sin dalle origini medievali di quel processo. Tale ipotesi finì, tuttavia, per inaugurare un confronto aspro con Benedetto Croce, che assunse sempre più i toni di una diatriba politico-ideologica, soprattutto dopo la diaspora intellettuale seguita all’avvento del regime fascista.
La crociana "religione della liberta", racchiusa nella vicenda del liberalismo, si contrappose all'interpretazione volpiana del doppio nesso stato-nazione/popolo-nazione che, pur manifestando un'incontrovertibile impronta liberale, avrebbe trovato nel fascismo il suo più consapevole approdo. In altri termini, per Volpe l'esperienza liberale avrebbe proseguito il cammino per incontrare nello Stato fascista quel processo di nation building di matrice gentiliana. Per Croce il movimento liberale nella sua fase più alta e matura, ferma nella tradizione cavouriana, non si sarebbe spinto oltre le prove in chiaroscuro di Giolitti e di Nitti.
Il burrascoso rapporto tra Volpe e Croce resta uno dei segni più emblematici della tradizione divisa della storiografia nostrana. La materia del contendere ha investito, del resto, il campo della politica, dal quale il discorso storico nazionale non prescinde. L'Autore, infatti, non ignora nel volume testimonianze illustri (Bissolati, Orlando, Gramsci, Mussolini, Togliatti), capaci di dimostrare come la politica, non sempre in chiave negativa, potesse gareggiare con la storia nella ricerca dell'identità nazionale.
Sembra, così, di ravvisare nelle tesi del Di Rienzo la centralità di un elemento teleologico: quello, cioè, di unire quanto finora e risultato il prodotto di drammatiche scissioni a proposito di storia, e storie, d'Italia, per ripartire con il sostegno di una visione "liberale", finalmente liberata da dogmi e preconcetti, aperta al dialogo contro il fatalismo (strumentale?) di quanti continuano a riaffermare i caratteri divisi del corso nazionale. Dopo le macerie di un conflitto civile che ha contraddistinto le fasi alterne della nostra secolare vicenda storiografica, e giunto il momento, per l'Autore, di raccogliere il testimone del discorso sulle radici nazionali e di calarlo, come "idea-guida", nel laboratorio dello storico, non solo offrendo su questo delicato oggetto nuovi spunti alla discussione, ma anche auspicando l'apertura di un'inedita pagina di storiografia nazionale.
Con il corredo di un ricco apparato documentario, il libro si traduce, perciò, in una meticolosa ricostruzione della complessa trama che vide, dall'età giolittiana alla Repubblica, i nostri storici più rappresentativi impegnati a ricercare le coordinate di fondo di quella operazione di impianto nazionale, che costituisce lo zoccolo duro della questione posta dall'Autore.
Fu proprio la Grande Guerra, e il suo riverbero sul tessuto sociale italiano, a ridestare nella storiografia nazionale una nuova coscienza volta a superare, secondo l' assunto idealistico di Croce, quella inclinazione all' erudizione e al positivismo, che ne aveva per vario tempo tarpato le ali. Nacque pertanto, tra conflitto e dopoguerra, l'esigenza di dare vita ad una storia italiana che implicasse motivi nuovi, corrispondenti ad "un'idea d'Italia "quale "problema storiografico", e coincidenti con l'innesto sul binario della modernizzazione liberale dei fattori alla base dell'ascesa risorgimentale, ma anche dei motivi unificanti che avevano pervaso la lunga vita preunitaria.
Gli esiti sofferti, ma vittoriosi, dell'intervento in guerra avevano fornito all'Italia la consapevolezza politica di una coesione sociale, oltre che militare, che la crisi dello stato liberale avrebbe, tuttavia, presto smentito. Ma in quel difficile contesta il paese si era posto il problema di ravvivare la propria tradizione storica all'insegna di nuove frontiere di metodo e di principio. Durante il conflitto, e specialmente dopo l'epilogo tragico di Caporetto, l'avvio delle attività dell'Ufficio Storiografico della Mobilitazione, auspice l'interesse di Giuseppe Prezzolini, ed ancora di Croce e di Volpe, aveva costituito già un momento-chiave per comprendere il mutamento dell'indirizzo storiografico nazionale, teso ad innovare gli strumenti del lavoro storico nella cornice identitaria del richiamo, sia pur retorico, alla nazione in armi.
Si trattò di un’esperienza che, nelle intenzioni dei suoi principali fautori, sarebbe dovuta apparire come foriera di novità, soprattutto sotto l’aspetto dei criteri di ricerca; ma i dissidi sulla prospettiva dell’opera portarono alla sua repentina conclusione: alla base vi furono incomprensioni non sanabili tra le espressioni rivoluzionarie dell’atteggiamento prezzoliniano, a proposito della guerra italiana, ed un certo conservatorismo del Croce, autorevolissimo interlocutore che, invece, guardava alla continuità moderata dei governi liberali.
La ripresa dell’interesse storiografico per una costruzione originale della memoria storica italiana, nei primi anni Venti trovò nell’opera di Volpe l’occasione per un’ulteriore svolgimento nel quadro di una rilettura storica dell’incontro del Risorgimento liberale con le aspettative del fascismo. Come ricorda Di Rienzo, l’esperimento editoriale della Storia d’Italia in collaborazione dal Medioevo all’età contemporanea, voluta da Volpe per collocare l’Italia in una nuova e più matura dimensione del suo retaggio storico, fallì nuovamente per le divergenze insorte con il Croce.
Insomma, la frattura che si andava consumando tra storici di razza, ormai in rotta di collisione per il diverso impianto ideale del proprio lavoro, si aggravò con l’irreggimentarsi della dittatura. Ma essa non fu meno drammatica nel dopoguerra, quando la questione delle radici storiche del nostro paese tornò ad essere il pallino di gran parte degli studiosi. In tale ottica, l’elaborazione di Rosario Romeo, con il suo osservatorio privilegiato di storico della Nazione, resta sicuramente tra le più pertinenti per riconsiderare la storia d’Italia secondo valori liberali, in sintonia sia con la tradizione di Croce che di Volpe.
Anche quella di Romeo si è rivelata, spesso, una voce solitaria e fuori dal coro, come sottolinea Di Rienzo, stretta tra le maglie della storiografia gramscianomarxista e quella di matrice cattolica, predominanti nelle vicende culturali italiane del secondo dopoguerra. Non v’è dubbio che le riflessioni di Gramsci sui nodi irrisolti dell’Unità e sull’esito moderato del Risorgimento (partecipazione passiva degli strati inferiori della società e mancata attenzione alle dinamiche delle campagne meridionali, anche se qui il concetto di “rivoluzione agraria mancata” appare del tutto riduttivo del pensiero dell’intellettuale sardo), abbiano stimolato un dibattito gravido di connessioni politico-culturali, portando in primo piano l’esperienza storiografica di Romeo, tesa alla sottolineatura del valore borghese dell’unificazione italiana e del ruolo fondamentale, nel corso dell’imperialismo, dello Stato nella svolta verso l’industrializzazione e la competizione economica europea.
Accresciutosi il conflitto storiografico, sacrificato sull’altare delle implicazioni politiche della polemica antifascista e resistenziale, reso oltremodo più acceso dal clima internazionale della Guerra fredda, la forbice del divario tra intellettuali liberali e marxisti (tra questi ultimi Emilio Sereni e, con vari distinguo, Giorgio Candeloro) si allargò, negando a quella serrata discussione, dall’alto profilo scientifico, di affluire nel fiume carsico della conciliazione nazionale, che proprio in ambito storiografico avrebbe dovuto riconoscere i presupposti teorici del suo definitivo riscatto. E tutto ciò si produceva (o non si produceva), mentre il processo post-bellico di ricostruzione nazionale andava a chiudersi, ed una nuova fase politica, all’insegna di un’alleanza programmatica tra progressisti, spalancava le porte al cammino della giovane democrazia italiana.
DC, socialisti e comunisti, protagonisti di equilibri politici più avanzati (dal centro-sinistra al compromesso storico), assicurarono la loro egemonia nella vita civile. Sul versante culturale si diffusero, a metà degli anni Settanta, opere storiografiche, come la monumentale Storia d’Italia Einaudi diretta da Romano Vivanti, particolarmente attenta alle novità della francese École des Annales, oltre che pensata come storia degli italiani – più che come storia d’Italia – in marcia fra le macerie della plurisecolare decadenza italiana. Era la conferma, del resto, di un certo modo di fare storia, che contribuì a mantenere inalterate – per Di Rienzo – le ragioni della divisione del discorso storico nazionale.
Un problema che è destinato, dunque, a rimanere senza possibilità di soluzione? Invitando a raccogliere la sfida di una nuova invenzione della tradizione italiana, Di Rienzo auspica, invece, una fase costruttiva che sappia spingere gli storici oltre i recinti precostituiti della memoria; una fase, insomma, dove la storia d’Italia possa essere rivisitata in chiave “liberale”, per ritrovare le sementi di un’identità nazionale finora mai condivisa. I rischi che un tale progetto possa affondare nelle sabbie mobili di uno strumentale revisionismo non paiono del tutto trascurabili. Ma proprio per questo, può rivelarsi non inutile, allora, una ricostruzione della memoria collettiva, capace di creare quel senso civico di appartenenza e quella identificazione con la storia nazionale, che solo il passaggio attraverso le sue profonde contraddizioni, può contribuire a rendere finalmente plausibile.
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