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Guido de Ruggiero tra pensiero e azione, tra ethos e pathos.
di Valeria Sgambati
Quando si parla della “dittatura idealistica” in Italia agli inizi del secolo scorso, oppure della più effimera e purtroppo meno incisiva “egemonia liberaldemocratica” subito dopo la seconda guerra mondiale, s’incorre spesso in facili schematismi e approssimazioni, che hanno avuto quasi sempre il torto di velare la moderna complessità e l’originalità e ricchezza di posizioni teoriche e di sfumature politiche, riferibili tanto a singoli protagonisti quanto ad aggregazioni intellettuali.
Su uno dei più rappresentativi esponenti di entrambi i periodi, Guido de Ruggiero, gli studi non sono stati finora molto numerosi e approfonditi e perciò sulla sua formazione neoidealistica e liberale, come della sua militanza culturale e politica nel partito di azione e sulle colonne de “La nuova Europa”, diretta dall’amico Luigi Salvatorelli negli anni della seconda guerra mondiale, non molto e neppure sempre in modo adeguato si è riflettuto e scritto. Forse ha anche pesato la cosiddetta “egemonia” culturale della sinistra marxista, impostasi a lungo in Italia dopo la nascita della Repubblica, che ha indotto molti a evidenziare soprattutto il carattere “conservatore”, “superato”, addirittura “reazionario” della filosofia e della cultura politica di de Ruggiero, pur riconoscendogli l’intransigenza morale, “azionistica”, e l’onestà e coerenza intellettuale e politica. E così si è si è spesso dimenticato che de Ruggiero ha anticipato la cultura politica del cosiddetto “lib-lab”, l’attualissimo liberal-laburismo, e del federalismo europeo e che come e con Giovanni Amendola ha intuito la natura eversiva, illiberale, totalitaria del bolscevismo e del fascismo, anticipando il concetto di totalitarismo poi impostosi nella cultura europea a partire dal periodo tra le due guerre mondiali. E così pure si è dimenticato che egli ha precocemente rivalutato i principi e i valori dell’umanitarismo e del razionalismo settecenteschi e ha attribuito un ruolo politico e sociale fondamentale nella società di massa e nella prassi democratica all’opinione pubblica e ai ceti medi.
Per Eugenio Garin, che pure gli ha dedicato molta attenzione, ancora negli scorsi anni Ottanta il pensiero di de Ruggiero s’inscriveva fondamentalmente nel moralismo e nel conservatorismo tradizionali. Invece, come ha notato Giuseppe Galasso in Croce e lo spirito del suo tempo, de Ruggiero, insieme a Omodeo, può senz’altro considerarsi uno degli intellettuali che maggiormente rivelano «il travaglio interno dell’idealismo italiano e delle sue varie articolazioni politiche e teoretiche». Un travaglio che s’inquadra, soprattutto per quanto riguarda il primo, anche nel contesto del pensiero filosofico e politico legato al liberalismo occidentale. Infatti, una “conversione” dalle originarie posizioni gentiliane verso Croce si può notare in Guido de Ruggiero il quale, come ha scritto Galasso nell’opera sopracitata,
tra la sua Storia del liberalismo, apparsa nel 1925 e Filosofi del Novecento del 1934 ebbe una fase di riconsiderazione dell’attualismo degna di grande attenzione non solo per le sue prossime implicazioni storicistiche e realistiche, ma anche per le premesse delle posizioni pressocché neo-illuministiche che egli avrebbe alla fine accettato e sostenuto.

Anche Gennaro Sasso, in un numero di «De Homine» del 1967, aveva notato il carattere riduttivo del giudizio di importanti intellettuali di sinistra su de Ruggiero, tendenti a sottolinearne soprattutto “le qualità dell’animo” isolate, però, «dal processo di pensiero col quale si espressero», col risultato di limitare e ridimensionare così «alla sfera psicologica l’inquiteudine filosofica e la testimonianza liberale», come è stato notato da Maria Luisa Cicalese nel suo libro, L’impegno di un liberale-Guido de Ruggiero tra filosofia e politica (Le Monnier, dicembre 2006).
Su tanta parte di questo importante quanto significativo travaglio, inserito in ben determinati contesti storici e culturali, getta luce proprio il libro di Maria Luisa Cicalese, che raccoglie alcuni suoi saggi dedicati alle diverse fasi della vita e del pensiero del filosofo napoletano, nonché numerosi testi e lettere di quest’ultimo.
In particolare, il libro si sofferma sugli anni giovanili e del primo antifascismo considerando il doppio e parallelo percorso formativo, filosofico e politico, di de Ruggiero, che si evolverà, in un modo non rettilineo ma coerente, fino alla maturazione della proposta politica del liberalismo sociale in seno al partito d’azione e della proposta dello storicismo etico nell’ambito della filosofia.
Pur rimanendo sempre costanti in lui i riferimenti al “realismo e moralismo”, alla “scienza e filosofia”, a “Kant e Vico”, egli, come scrive l’autrice, passa dall’accettazione giovanile e “gentiliana” «di un’unità pressoché immediata di pensiero-azione, storia-vita, passione-ragione, alla prevalenza negli anni del fascismo del pensiero critico, della valutazione storica razionale che tuttavia sa produrre uno scatto dal passato-presente al futuro».
I caratteri originali del pensiero di de Ruggiero vanno senz’altro individuati nel significato “decisamente morale” che egli, differenziandosi da Omodeo, attribuiva all’identificazione di res gesta e di historia rerum, così come nella proposta di superare lo storicismo crociano dandone una versione essenzialmente etica, cioè quella che non ci limita «alla consapevolezza di essere superiori come figli della storia già realizzata a ciò che è empiricamente in corso, ma anche a nutrire l’aspirazione di sollevare verso obiettivi superiori la dinamica in atto senza straniarsi dai problemi contingenti ma riempiendo il liberalismo di contenuti democratici», che lo sviluppo storico fa diventare sempre più democratici e addirittura socialdemocratici, pur nell’ambito di una concordia sempre discors.
Così pure la originalità di de Ruggiero va ricercata nella relazione di continuità, e non di opposizione sia pure dialettica, da lui stabilita tra illuminismo e romanticismo, tra il XVII e il XVIII secolo, contrariamente a quanto asserito per esempio da Gentile, nonché nell’innovativa e anticipatrice interpretazione di Rousseau. Questi che, secondo il giudizio del pensatore napoletano, nella concezione della volontà generale, da un lato, prelude al moderno dispotismo, al totalitarismo delle rivoluzioni e dei rivoluzionarismi messi in atto a partire dalla rivoluzione francese; un dispotismo, quello moderno, più pernicioso e subdolo di quello antico, per esempio di Luigi XIV, perché trasferisce la “schiavitù” dell’assolutismo entro le coscienze, rendendola “più intima” e meno vincibile. Dall’altro lato, però, la volontà generale di Rousseau, il quale aveva il dispotismo nel cervello ma non nel cuore, è sempre droite e tendente al bene pubblico, rappresentando «la fonte primaria e inesauribile del dispotismo democratico».
In ogni caso, per de Ruggiero, dopo Rousseau e la Rivoluzione francese, il problema teorico e pratico divenuto imprescindibile è quello del «mobile limite storico della coscienza individuale che lo stato non deve varcare sotto pena di distruggere la fonte stessa di ogni personalità e di ogni energia morale, quindi di degradare e di inaridire anche la vita propria».
Negli anni giovanili, dai primi del ‘900 all’indomani della prima guerra mondiale, de Ruggiero passa da concezioni politiche elitarie, antidemocratiche e da concezioni filosofiche di stampo gentiliano ma anche spaventiano a un pensiero che, progressivamente recuperando e acquisendo gli “immortali principi” del 1789, cerca di conciliare individualismo e organicismo, liberalismo e democrazia, masse e stato, libertà, uguaglianza e giustizia, per porre le basi di una concezione del liberalismo come metodo, come sopra partito, «nel quale tutte le forze possano trovare spazio nelle alleanze e nelle lotte».
Come per molti intellettuali di quel tempo, soprattutto quelli dalle originarie e varie simpatie liberali, nazionaliste e interventiste, anche per de Ruggiero la guerra e poi il fascismo avrebbero rappresentato una svolta decisiva, che però nel suo caso lo avrebbe sospinto verso una ricerca teorica e politica non priva di elementi di personale elaborazione speculativa rispetto al magistero di Gentile, prima, e a quello di Croce, poi.
Sul piano della riflessione politica ciò si evidenzia in un percorso che si snoda dalla piena rivalutazione della Rivoluzione francese e del Risorgimento al recupero innovativo del liberalismo anche e soprattutto attraverso la considerazione e integrazione delle esigenze sociali e morali poste dal socialismo democratico, socialdemocratico e laburista, tragicamente sfidato e oscurato dal mistificante marxismo leninista e dal totalitarismo sovietico di stampo “zarista”. Sul piano della riflessione filosofica, de Ruggiero, rivaluta progressivamente, a partire dagli anni della prima guerra mondiale, il giusnaturalismo, il cartesianesimo e l’illuminismo e afferma possibile la compresenza e coesistenza nella storia europea della concezione della libertà montesquieuiana e di quella rousseauiana, cioè della “potestà di fare ciò che non nuoce agli altri” e della volontà generale, della sovranità del popolo: due concezioni che storicamente portano l’una a offrire una «camera dei rappresentanti», l’altra «un’accolta di commissari del popolo».
La vera immortalità dei principi della Rivoluzione francese sta proprio, secondo lui, «nell’aver dato un’espressione, sia pur contingente e manchevole, dell’intimo dissidio tra l’individuo e lo Stato» e dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino sarebbe infatti nata la moderna triade rivoluzionaria, quella liberale, quella democratica e quella sociale.
Dopo la guerra il distacco di de Ruggiero dal nazionalismo, nei confronti del quale c’era stato, per meglio dire, soltanto “«un avvicinamento estrinseco», come precisa la Cicalese, risulta quindi totale, ma ciò non fa che aumentare la sua preoccupazione e il suo scontento per la scarsa coesione nazionale e sociale e per gli uomini e le idee dei partiti italiani tanto più lontani e divisi tra di loro e al loro interno, quanto più dannosi e inefficaci su piano della proposta politica e dell’intervento concreto. In modo particolare, i liberali, secondo de Ruggiero, si erano rivelati assolutamente inadeguati a rappresentare il vero spirito borghese e liberale, scambiando per “liberalismo di marca” il fascismo, così come i democratici ne avevano oggettivamente aiutato l’ascesa «preparando quel livellamento generale della vita sociale che facilitava la dittatura», una dittatura moderna basata sul potere della quantità, ovvero del denaro e del numero.
Sul piano internazionale, i valori liberali e democratici dell’Intesa sono riusciti, secondo lui, a vincere, ma «il liberalismo vincitore non è più quello di prima poiché, rinnovandosi nel conflitto, ha incluso nel suo principio originale, l’individualismo, l’esigenza organizzatrice». Anzi è tempo che il principio individualistico possa ormai «prevalere disciplinandosi eticamente, divenendo cioè esso stesso capace di organizzare». Il liberalismo come metodo può perciò sempre rinnovarsi riempiendosi di contenuti nuovi, in grado di soddisfare le istanze politiche del presente e del futuro d’Italia e d’Europa.
L’inapplicabilità del trattato di Versailles e la nuova prospettiva offerta dalla Lega delle nazioni nonchè dal wilsonismo, rivitalizzano in modo inatteso il liberalismo che ormai «si proclama –come scrisse ne L’Impero britannico dopo la guerra, del 1920-21- non come sistema chiuso e irrigidito in vecchie forme individualistiche, ma come un metodo, come un’energia spirituale che, avendo la sua fonte nell’affermazione più incancellabile e incomprimibile dello spirito –la libertà- è capace di incarnarsi in forme storiche differenti o di assumere un differente contenuto storico».
E’ all’interno di questa visione che de Ruggiero stabilisce l’esistenza e l’ulteriore necessità di un fecondo rapporto di adiacenza e continuità tra liberalismo e democrazia. In prospettiva egli ne individua pure la possibilità di una commistione ideale e politica, nella delineazione però di un liberalismo sociale, ispirato più al programma liberale di Asquith e alla filosofia politica di Haldane che al «miscuglio liberale-socialista» di un Missiroli o all’inveramento “proletario” del liberalismo di un Gobetti.
In questa prospettiva si colloca dunque la positiva “scoperta” del socialismo, la comprensione profonda della funzione moderna da esso svolta, avvenute non tanto nel suo paese quanto durante il suo soggiorno in Gran Bretagna nel 1920, in cui molto apprezzò il laburismo e il neo liberalismo fondato sul neo-idealismo.
Questa scoperta, ha sottolineato la Cicalese, fa capire come il dibattito sul liberalismo e socialismo fosse, già negli anni della prima guerra mondiale e subito dopo, impostato e affrontato in modo anche sofisticato dagli intellettuali italiani «di formazione crociana e gentiliana», così come fa capire, viene fatto a noi di aggiungere, che la cultura politica del primo antifascismo, quello legato in modo particolare all’esperienza dell’Aventino e dell’Unione Democratica Nazionale di Giovanni Amendola, cui aveva aderito lo stesso de Ruggiero, sia stata una preziosa miniera di riflessioni e proposte. Riflessioni e proposte che il tempo avrebbe fatto accantonare e carsicamente inabissare ma non cancellare, come fu evidente negli anni della seconda guerra mondiale e del relativo dopoguerra, e che si possono a ragione considerare -per tanti aspetti culturali, per le proposte politiche e per i protagonisti in carne e ossa venuti alla luce dopo il 1945- una felice continuità e un’originale evoluzione rispetto a quelle precedenti esperienze, tanto fondamentali quanto spesso sottovalutate o rimosse.
Un esempio di ciò è proprio incarnato dalla parabola politica e teorica di de Ruggiero che negli anni ’40, nell’ambito della breve militanza nel partito d’azione e della collaborazione a «La Nuova Europa», di cui era magna pars e condirettore di fatto, sviluppò molte idee e intuizioni le cui trame e radici sono ravvisabili già nel primo dopoguerra. Dall’importanza e centralità dei ceti medi e dell’opinione pubblica alla concezione della moderna democrazia e del federalismo europeo, dalle cause del fascismo al ruolo dei partiti e sindacati nella società di massa, dalla riflessione sul totalitarismo alla ricerca della terza forza, dall’analisi della cultura illuministica e della “ragione” occidentale alla rifondazione in chiave soprattutto etica dello storicismo, sono molti i temi più rilevanti e significativi della sua riflessione di quel tempo che, sia pure in maggiore o minor misura e intensità, si ricollegano al suo intenso passato.
Il subitaneo fallimento politico e poi lo scioglimento del partito d’azione, di cui è stato uno dei massimi dirigenti e ideologi, e le precocissime disillusioni suscitate dal corso politico concretamente avviatosi nell’Italia repubblicana e dalla guerra fredda, portano all’appannamento di qualsiasi prospettiva politica di “terza forza”, e quindi anche la prospettiva di una prosecuzione della “grande alleanza” antifascista a livello internazionale, e perciò tanto più la prospettiva della pace, ma non riescono tuttavia a far tacere o ripiegare l’indomito spirito di Guido de Ruggiero.
Poco prima di morire, nel 1948, pubblica saggi di ampio e duplice respiro, culturale e politico, come sempre. Questa volta vi s’individuano orizzonti diversi, come per esempio il problematico rapporto tra progresso tecnico e progresso morale oppure il problema dei nuovi conformismi di massa, indotti da vecchi e nuovi mass-media. E soprattutto, come ha sottolineato la Cicalese, la novità delle ultime pagine di de Ruggiero, e anche per certi aspetti la loro attualità, stanno nella visione fin troppo ottimistica del futuro, «nella fiducia per la ‘interdipendenza dei popoli’ con l’internazionalizzazione e mondializzazione dei problemi della vita contemporanea che i confini nazionali entro cui ancora si attarda non sono più sufficienti a contenere» e anche nel ritenere ormai inevitabile l’avvento di un «controllo internazionale delle forze fisiche» sempre più globale.
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