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Metafora e metonimia nella storia: qualche riflessione pratica.
di Edoardo Tortarolo
Talvolta un episodio può presentare un problema conoscitivo meglio di una formulazione in termini astratti. L’episodio che vorrei presentare riguarda una delle lezioni del Festivalstoria di Saluzzo dell’anno passato 2006. Si tratta di una manifestazione che porta temi storici presentati con rigorosa aderenza alle fonti e con il soccorso di eminenti specialisti della materia a contatto con un pubblico di persone colte che non si occupano professionalmente di studi storici. Il tema del Festivalstoria del 2006 fu il processo nella storia. Una lezione riguardò il mancato processo a Napoleone Buonaparte: un tema ben scelto, considerando che negli anni recenti si sono celebrati in Italia processi postumi a Napoleone, inscenati a volte con il concorso di magistrati per condannare Napoleone per i crimini commessi verso la popolazione civile delle località lombarde e verso la Serenissima repubblica di Venezia1. Il relatore, lo storico tedesco Volker Sellin, trattò la vicenda di un processo mai avvenuto: quello che gli inglesi non avviarono contro Napoleone all’indomani della sua definitiva caduta e prima dell’incarceramento a Sant’Elena. Il tema fu allora raccontare la storia di come e perché avvenne qualcosa che sostituì un altro qualcosa che tutti o almeno molti nel 2006 si sarebbero aspettati accadesse nel 1815. Coerentemente a una condivisa attribuzione di compiti per lo storico accademico, Sellin spiegò le ragioni che indussero gli inglesi a comportarsi nel modo in cui si comportarono: cioè a rendere inoffensivo Napoleone senza introdurre ex post un elemento di giuridificazione nei rapporti tra gli stati che solo avrebbe permesso a una potenza vincitrice di processare il sovrano di un altro paese2. Che questa concezione eminentemente giuridica dei rapporti interstatuali sia divenuta un fattore cruciale nella comprensione della storia euroamericana degli ultimi 60 è un tema importante che merita un’altra trattazione. Al termine della bella lezione mi si avvicinò un distinto signore per commentare con me quanto avevo detto nella mia qualità di spalla e commentatore della lezione. Al termine della conversazione aggiunse di avere un rapporto diretto, una relazione di tipo individuale con Napoleone, perché l’imperatore dei francesi aveva avuto un impatto decisivo sulla sua vita. Dalla breve conversazione emerse che il distinto signore era un profugo istriano: alla radice della sua vicenda esistenziale, vissuta evidentemente come segnata da un’ingiustizia insanabile, si collocava la cessione di Venezia, dell’Istria e della Dalmazia all’Austria con il trattato di Campoformio dell’ottobre 1797. Da quel momento nella sua visione si era sviluppata una vicenda storica che nel corso di un secolo e mezzo portò direttamente al momento traumatico della fuga di fronte all’avanzata dei titini e dell’inizio di una nuova e certamente difficile vita, anche se tutto nell’apparenza esteriore lasciava intendere un’eccellente educazione e un raggiunto benessere.
Quest’episodio può essere spiegato in modi diversi, non da ultimo – come mi accadde in una reazione immediata che soffocai a fatica – come un esempio della strumentalizzazione rancorosa e pretestuosa della storia italiana da parte di formazioni di partito oscillanti tra ribellismo e nostalgie dittatoriali. Qual era il punto? Evidentemente la percezione del passato come un insieme di eventi che esigono una rielaborazione emotiva perché segnata da profondi legami con la nostra esistenza personale. L’episodio potrebbe rimanere, appunto, un episodio di nessun interesse se non fosse il sintomo di un riorientamento nello studio della storia che sta cercando anche nuovi concetti per esprimersi. La rivista History and Theory, che è ben nota come la più affermata e diffusa tribuna appunto per discussioni di teoria della conoscenza e della scrittura storica, ha dedicato la gran parte delle annate 2006 e 2007 alla discussione del tema della “presenza” nei testi di storia. L’articolo-guida si intitola Presence ed è stato scritto da Eelco Runia, uno psicanalista trasformatosi in teorico della storia sulla base di una ricerca pubblicata nel 2004 sul comportamento collettivo, di gruppi specifici e dell’opinione pubblica olandese, di fronte al caso dei reparti dell’esercito olandese che non intervennero per impedire il massacro di Sebrenica nel 19943. La tesi del saggio di Runia su cui si sono impegnati in esercizi di commento e ridefinizione alcuni tra i più attenti teorici nei vari numeri di History and theory è in sintesi estrema la seguente4. La discussione storiografica degli ultimi 30 anni è stata dominata dalla preoccupazione di analizzare le modalità di rappresentazione degli eventi del passato nei testi storici. Si è favorita l’attenzione alla capacità o insufficienza di un testo di descrivere una situazione dinamica del passato dal punto di vista di essere realistica, cioè di rappresentare e presentare al lettore il significato del passato. La forma espressiva di questo realismo storiografico fondamentale è quindi la metafora, che rileva la necessità di trasportare (appunto metaforein) il significato di un evento dal passato al presente e deve realizzare questa funzione superando la discontinuità temporale tra il passato e il presente di chi scrive e di chi legge. Si tratta ora di tenere conto del fatto che questa forma di storia si è rivelata incapace di venire incontro al bisogno manifesto nella cultura recente mondiale di cercare un contatto emotivo con il passato, espresso dai libri che si occupano di commemorazioni, luoghi della memoria, rielaborazioni di traumi individuali e/o collettivi. Per Runia non si tratta di una forma diversa di storiografia accanto a quella del realismo ma di un nucleo più profondo dello scrivere di storia, oscurato o dimenticato sotto il predominio della storiografia-metafora. La forma espressiva di questa percezione del passato è la metonimia perché il tutto del passato è ricuperabile a partire da un frammento che è sotto i nostri occhi. Il luogo della memoria o la traccia documentaria lasciata da un evento diventano quindi lo strumento di un processo di appropriazione del passato che ha caratteristiche fortemente individuali, emotive e legate alla situazione concreta. Attraverso il riconoscimento di questo legame tra il presente e il passato si può cogliere il nucleo dell’esperienza storica, vale a dire il bisogno di esperire la presenza del passato nel presente. La metonimia è la forma espressiva adeguata perché permette di ricuperare nel presente l’assenza del passato. La realtà storica, secondo la formula inventata da Runia, è il viaggiatore clandestino (lo stowaway), che non paga biglietto perché invisibile, al seguito della storiografia: la metonimia segnala la presenza di quest’assenza, in quanto il passato - appunto - è passato e non c’è più, ma è segnalato, malgrado e non in virtù delle intenzioni dello storico nella metonimia, che effettua il trasferimento non di significato ma di presenza. A differenza della storia-metafora che è eminentemente diacronica, la storia-metonimia è spaziale perché crea luoghi che segnalano la presenza dell’assenza, segnalano che esseri umani non esistono più e che la loro scomparsa costituisce un problema emotivo e di identità per noi che invece esistiamo e cerchiamo di collocarci nel flusso del tempo. In altre parole, la funzione denotativa delle tracce del passato (indicare che cosa sostituiscono) prevale sulla loro funzione connotativa (che cosa dicono del passato). Runia sostiene che questa storiografia metonimica ha illustri ma negletti precedenti, il più geniale dei quali è naturalmente Vico. Per Runia Vico ha compiuto il tentativo più coerente di trasformare il passato in spazio da percorrere per ricostruire la storia umana. In questo spazio si trovano luoghi reali e luoghi astratti (le istituzioni) che aprono al linguaggio la possibilità proiettarsi nel passato e ricuperare quanto è svanito nel tempo con un atto di inventio linguistica che rende vita a un passato che non c’è più. La spazializzazione della storia nella forma discorsiva di una storiografia che accetti la metonimia come suo forma espressiva rende possibile il superamento reale della tensione tra continuità e discontinuità del presente rispetto al passato5. Dietro questo Vico fa capolino, com’è facile intuire, lo Heidegger di Essere e tempo. Il saggio di Eelco Runia è un intreccio sapiente di allusioni esoteriche ed esempi concreti, ricerca di novità di prospettiva e rimandi alla tradizione classica della filosofia analitica e della storia. Non tutto è convincente: spesso i passaggi del ragionamento sono irritanti nella loro genericità e l’inserimento dell’argomentazione in un discorso profondamente influenzato dalla psicanalisi conferisce un tono prescrittivo che genera fastidio. Sarebbe sterile però dilungarsi nella critica. Interessa in questa sede piuttosto vedere dove il saggio coglie elementi di mutamento attuale nella percezione e articolazione del passato, su quali punti il dibattito ampio che ne è seguito ha insistito, e dove il tema della presenza sollevato da Runia può essere utile a capire quanto sta accadendo intorno a noi.
La nozione - certamente vasta e strabordante - di presenza indica la necessità di superare un’esasperata attenzione agli aspetti puramente linguistici dei testi storici. C’è nella cultura odierna un diffuso bisogno di trovare nella scrittura storica il contatto con il passato che comporti per il lettore un rapporto diretto, vitale e nutriente. Quanto più l’esperienza quotidiana di ciascuno di noi si svolge nella rarefazione dei momenti di rapporto profondo con il nostro ambiente, cresce il urgenza di ritrovare e rivivere le grandi esperienze formative del passato che si pongono alla base del nostro essere così e non altrimenti, in quanto persone e in quanto gruppi. La profondità cronologica ricostruita nei suoi passaggi raffredda e demotiva il rapporto di ciascuno di noi con gli eventi del passato, e finisce per renderci intimamente estranei al passato se il rapporto basato sul significato del passato s’indebolisce. La riflessione recente sul sublime storico, sui problemi legati alla rappresentazione di eventi catastrofici o comunque aldilà delle tradizionali capacità della storiografica realistica (metaforica e non metonimica, cioè) è sotto gli occhi di tutti per avvertirci dei limiti di capacità comunicativa e forse anche conoscitiva insita in questa storiografia nel momento attuale6. Se il senso del ragionamento di Runia è che si deve riconoscere la maggiore efficacia di ricupero del passato da parte di un luogo che rappresenta la presenza di un’assenza, rispetto a un testo che tenta di rappresentare con gli strumenti del realismo un momento del passato particolarmente significativo, allora c’è qualcosa di vero nell’osservazione che il rapporto con il passato deve tornare a essere una preoccupazione centrale per lo storico così come è già, da qualche tempo, per i destinatari della ricerca sul passato. I momenti che stringono la loro attenzione sono d’altronde ora in modo crescente legati a perdite, morti, deprivazioni, fratture, circostanze che hanno interrotto il fluire naturale delle cose. Gli storici dell’età dell’oro otto-novecentesca della storiografia ritrovavano la presenza del passato nel percorso trionfale o almeno avviato al trionfo della nazione, della classe, della scienza e della cultura e riuscivano a comunicare prevalentemente il significato costitutivo della vicenda collettiva per l’esistenza individuale. L’importanza del significato era evidente, così come la sua efficacia. Trovare il significato della perdita e della minaccia che emana dalla perdita, se è questo cui si è davvero interessati, è affare assai più complesso. Intorno a questo carattere dell’interesse attuale verso il passato si concentra gran parte della discussione. Quello che Isnenghi ha chiamato la “storia epigrafica”7, la storia attraverso i luoghi pubblici della storia italiana, dalle piazze ai palazzotti alle chiese, ha dato avvio a riflessioni su come i pubblici monumenti occupino l’immaginario e definiscano la storia attraverso il meccanismo di far rivivere l’assenza e spesso la scomparsa del passato con l’artificialità dell’intervento culturale, nella maggior dei casi determinato dai mutevoli orientamenti delle coalizioni di governo nazionale e soprattutto locale: il monumento, l’edificio, il resto più o meno autentico, la celebrazione in absentia. La vicenda del Museo ebraico di Libeskind l’Olocausto a Berlino e le polemiche intorno a come creare uno spazio per ricordare l’11 settembre a New York sono solo due esempi di questa percezione del passato8. I grandi funerali pubblici hanno accentuato la nozione che il passato si definisce come perdita definitiva di una presenza: dove questo si vuole evitare, si vietano i funerali pubblici, come nel caso dei soldati americani caduti in Iraq. Più prosaicamente e meno drammaticamente, le battaglie per l’intitolazione e contestuale de-intitolazione delle strade che divampano nei consigli comunali sono indizio di quest’attitudine: rinominare corso Unione Sovietica, con l’argomento che questa denominazione evoca i gulag e perpetua simbolicamente una dittatura, appare una modalità più efficace di rapportarsi al passato che, poniamo, rileggere il populismo russo di Venturi o l’autobiografia di Victor Serge tradotta da Garosci9 e in fondo anche che impegnarsi in una revisione dei libri di testo di storia per le scuole. Interferisce con questa trasformazione del sentire verso il passato certamente il ritorno della visualità come forma dominante di percezione della realtà. Più specificamente il ritorno della questione della presenza s’inserisce in una revisione dei regimi di storicità prevalenti. Nella discussione sulla presenza Michael Bentley ha utilizzato come sinonimo il concetto di cronotipi, formulato nel 1991 da Bender e Wellbery10. In italiano il concetto ha un significato totalmente diverso. Userò quindi regimi di storicità per indicare quali condizioni concettuali e culturali determinano la validità o l’invalidità dei giudizi espressi sui rapporti tra passato, presente e futuro11. Esiste una storia dei regimi di storicità: credere che la historia sia magistra vitae o seguire i dettami, splendidamente descritti di recente da Anthony Grafton12, dell’ars historica cinque-seicentesca comporta un rapporto con il passato diverso da chi viene dopo la demolizione del tempo newtoniano-kantiano, dopo la storiografia degli irredentismi nazionali e dopo la proclamazione del principio della “simultaneità del non simultaneo” di Ernst Bloch, per citare solo alcuni dei possibili tipi di storicità formulabili. Ma nessuno di questi si sostituisce semplicemente al precedente: se non esiste empiricamente un regime di storicità fondativo di tutti gli altri, è certo che almeno nella ricerca professionale di tipo accademico in storia il passaggio da un insieme di riferimenti concettuali a un altro è - in condizioni normali - graduale e permette di mantenere elementi dell’uno nell’altro e di filtrarli in equilibri nuovi. Un caso interessante può essere il libro recente di Emilio Gentile sul fascismo di pietra13, ma si possono anche ricordare i virtuosismi di Sergio Luzzatto sui corpi, presenti e assenti, conservati e occultati, di Mussolini e Mazzini14. Certamente Bentley, che è storico per così dire molto pratico (nel senso della practice of history di Geoffrey Elton) della cultura vittoriana e biografo di Butterfield15, ha ragione a sostenere che la discussione corrente segnala il ritorno della presenza del passato dopo un lungo periodo di concentrazione sui meccanismi di rappresentazione di un passato che aveva assunto spesso contorni evanescenti. Non credo che neppure i più spericolati manipolatori del rapporto tra realtà del passato e sua rappresentazione, come Simon Schama, abbiano mai negato la realtà distinta del passato16. Credo sia un’osservazione necessaria in Italia dove è stato strumentalizzato il confronto tra Arnaldo Momigliano e Hayden White degli anni settanta, un confronto molto civile e simpatetico perché procedeva da un problema comune: come raccontare la storia? Considerare l’intreccio della storia insito nei documenti, cioè nei resti che il passato ci ha trasmesso? ossia cercare di costruire un intreccio utilizzando i documenti che sopravvivono alla distruzione generata dal trascorrere del tempo17?
Il ritorno prepotente della presenza del passato dalla fine degli anni ottanta (forse anche nel nostro caso il 1989 è stato l’anno spartiacque) ha scompigliato le carte del confronto tra Momigliano e Hayden White, tra la filologia e il post-strutturalismo, tra il documento scritto e l’inventio dell’intreccio, alla ricerca del significato della storia o almeno di una storia. Come spesso succede, gli scrittori sono stati sismografi più veloci degli storici nel registrare i piccoli o grandi terremoti delle nostre modalità di percepire la realtà: il passaggio dal realismo intriso di ricerca di significato delle prime opere di Primo Levi sino allo spaesamento che si respira nei Sommersi e salvati, la letteratura ha anticipato la sensibilità degli storici, spostandosi dal significato del passato alla percezione del passato nel presente.
Nel caso italiano questa presenza del passato, non saprei se davvero molto più metonimica che metaforica, è palpabile e genera tensioni evidenti nel comportamento degli storici. Nel 2011 si celebrerà il 150 anniversario dell’unità d’Italia: un’occasione non solo di massicci investimenti pubblici nelle grandi opere di edilizia nelle tre capitali Torino, Firenze e Roma e altrove, ma anche un’occasione unica per rivolgersi al pubblico per parlargli della storia italiana, del suo ruolo nella storia europea, della sua vita interna e delle prospettive per il futuro. Sulla base di quanto detto, è verosimile che, a differenza delle celebrazioni per il centenario dell’unità italiana nel 1961, ci sarà una massiccia presenza del passato per così dire topografico: la spazializzazione del passato sarà possibile attraverso restauri, ricuperi e ricreazioni, anche virtuali, di luoghi del passato. L’alternativa tra "sistema museale" e "museo diffuso" sembra decisa a favore del secondo corno del dilemma, con la trasformazione delle città italiane in luoghi di ripetizione del passato attraverso una generazione sistematica di luoghi ed eventi che riattualizzino la presenza del passato. Significativamente, il tema dell’anacronismo è stato oscurato dall’irrompere del tema del rivivere la storia alla ricerca dell’esperienza autentica, della simpateticità con gli uomini e le donne del passato (una visita alla reggia sabauda della Venaria reale è istruttiva in questo senso). Una tendenza che chiaramente trascura il bisogno di significato a favore della ricreazione di un io plurale che annulla i limiti del tempo, oltre a trovare angusti i limiti dello spazio. Il pendolo tra significato del passato per noi e rivivere il passato nel presente oscilla ora quindi visibilmente verso questo secondo polo. È urgente rendersene pienamente conto e prevenire l’annullamento della questione del significato e della temporalità del passato e del nostro rapporto intellettuale e non solo emotivo con il passato. Questa reazione preventiva deve avvenire nel panorama degli studi e della comunicazione storica. Le riflessioni sulle forme della storia, sulla presenza e/o sul significato della storia, sulle metafore e le metonimie diventano infatti inevitabilmente riflessioni sugli esseri umani, da una parte chi studia e scrive di storia professionalmente, dall’altra (ma le sovrapposizioni sono numerose) chi si interessa esistenzialmente e quindi legge e compra merci legati alla produzione di significato e/o presenza del passato nel presente, dai biglietti dei musei ai libri. Insomma, l’anonimo frequentatore del Festivalstoria saluzzese, profugo istriano, deve poter conservare il suo rapporto viscerale e intenso con Napoleone senza essere colpevolizzato: ha diritto a cercare in Napoleone e nella storia che ne è seguita l’assenza che ha segnato la sua esistenza. Ha altresì diritto ad avere gli strumenti necessari a colmare il vuoto di quest’assenza con una storia, necessariamente realistica e metaforica, con un intreccio validabile o invalidabile attraverso le fonti che sono sopravvissute, perché mantenere vivo anche l’aspetto razionalista che si è faticosamente sedimentato nel modo moderno di fare storiografia è un’esigenza generale delle società contemporanee.




NOTE
1 Cfr. per una prima informazione rispettivamente http://www.napoleoneabinasco.it/pagine/relaziopro.html e http://www.identitaeuropea.org/archivio/articoli/agnoli_processo.html.^
2 Volker Sellin, Die geraubte Revolution. Der Sturz Napoleons und die Restauration in Europa, Goettingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 2001.^
3 E. Runia, Presence, in «History and Theory», 45 (2006), 1-2. In italiano cfr. E. Runia, Storia ufficiale e liquidazione del passato, in «Storiografia», 8 (2004), 103-130. Cfr. ora anche il suo Burying the Dead, Creating the Past, in «History and Theory», 46 (2007), pp. 313-325.^
4 Cfr. il numero di «History and Theory» di ottobre 2006, On Presence, a cura di E. Runia e E.J. Brouwer, che contiene i seguenti saggi: E. Runia, Spots of Time, pp. 305-316, H.U. Gumbrecht, Presence Achieved in Language (With Special Attention Given to the Presence of the Past), pp. 317-327; F.R. Ankersmit, “Presence” and Myth, pp. 32-336; E. Domanska, The Material Presence of the Past, pp. 337-348; M. Bentley, Past and “Presence”: Revisiting Historical Ontology, pp. 349-361, R. Peters, Actes de présence: Presence in Fascist Political Culture, pp. 362-374.^
5 Runia cita la Scienza Nuova da una traduzione inglese. Runia si riferisce alla “Sezione quarta. Del Metodo” nel primo libro e in particolare al passo in cui si dice che «i grandi frantumi dell’antichità, inutili finor alla scienza perché erano giaciuti squallidi, tronchi e slogati, arrecano de’ grandi lumi, tersi, composti ed allogati ne’ luoghi loro».^
6 F. Ankersmit, Sublime Historical Experience, Stanford, Stanford University Press, 2005; H. White, Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, a cura di E. Tortarolo, Roma, Carocci, 2006.^
7 I luoghi della memoria. Simboli e miti dell'Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Laterza 1998.^
8 Cfr. E. Domanska, “Let the Dead Bury the Living”. Daniel Libeskind’s Monumental Counterhistory, in The Many Faces of Clio. Cross-cultural Approaches to Historiography, edited by Q.E. Wang and F.L. Fillafer, New York, Berghahn, 2007, pp. 437-453; D. Simpson, 9/11, The Culture of Commemoration, Chicago, Chicago University Press, 2005.^
9 F. Venturi, Il populismo russo, Torino, Einaudi, 1952 ed edizioni seguenti; V. Serge, Memorie di un rivoluzionario, Firenze, La Nuova Italia, 1956 ed edizioni seguenti.^
10 Chronotypes: the construction of time, edited by J. Bender and D.E. Wellbery, Stanford, Stanford University Press, 1991.^
11 F. Hartog, Régimes d'historicité. Présentisme et expériences du temps, Paris, Seuil, 2003 (trad. it. Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo. Introduzione di A. Buttitta, Palermo, Sellerio, 2007).^
12 A. Grafton, What was history, Oxford, Oxford University Press, 2007.^
13 E. Gentile, Fascismo di pietra, Bari, Laterza, 2007.^
14 S. Luzzatto, Il corpo del duce: un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino, Einaudi, 1998; La mummia della repubblica: storia di Mazzini imbalsamato, 1872-1946, Milano, Rizzoli, 2001.^
15 M. Bentley, The Liberal Mind, 1914-1929, Oxford, Oxford University Press, 1977; The Climax of Liberal Politics. British Liberalism in Theory and Practice, 1868-1918, London, Arnold, 1987; Politics Without Democracy, 1815-1914. Perception and preoccupation in British poveramente, Oxford, Blackwell, 1989; Modernizing England’s Past. English historiography in the age of modernism, 1870-1970, Cambridge, Cambridge University Press, 2005.^
16 In particolare il suo Landscape and Memory, London, HarperCollins, 1995 (Paesaggio e memoria, Milano, Mondadori, 1997).^
17 A. Momigliano, La retorica della storia e la storia della retorica: sui tropi di Hayden White (1981), Sui fondamenti della storia antica, Torino, Einaudi, 1984; E. Tortarolo, Postfazione. Hayden White per gli storici, in H. White, Forme di storia, pp. 193-199.^
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