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Storia e scrittura alla prova della comunicazione*
di Vittoria Fiorelli
Che cosa è la storia? «È un modo di essere della realtà o è un nostro modo di pensare la realtà?» È con questa domanda da lui stesso definita ingenua che Giuseppe Galasso apriva una sua riflessione pubblicata nel volume eloquentemente intitolato Nient’altro che storia. Un inizio volutamente piano, ma utile a dimostrare che qualsiasi indagine su questo antico tema debba innanzitutto interrogarsi sul ruolo della storia nella società e sul rapporto che ad essa si deve riconoscere con l’uomo e con la realtà oggettiva, in una parola con la verità.
Non è certo questo il luogo per affrontare un problema tanto delicato e così a lungo e profondamente dibattuto nella storia del pensiero europeo. Lo spunto di riflessione che si voleva sottoporre all’attenzione della comunità scientifica era piuttosto quello della trasmissibilità delle discipline storiche e del ruolo al quale esse debbano aspirare negli spazi rinnovati della comunicazione. Una analisi rivolta alla doppia prospettiva che ogni testo deve comunque contemplare: modi e forme della sua produzione, ambiti e formule della sua diffusione.
Una volta la forma della comunicazione di ogni ricerca storica dipendeva in massima parte dalla linea storiografica alla quale lo studioso sentiva di appartenere e dunque essa era strettamente connessa alla componente metastorica del suo lavoro. Oggi invece essa deve fare i conti in maniera quasi imperativa con la valutazione del pubblico e con la possibilità di ampliare i confini della fruibilità di un testo che, sempre più spesso, sceglie di non presentarsi come saggio meramente specialistico, ma ambisce ad un più ampio riscontro di lettura.
La domanda che ci si deve porre è dunque se e quanto sia cambiata la scrittura specialistica, ma anche quanto la diffusione divulgativa senta il dovere di conservare, accanto ad una veste argomentativa dal profilo scientifico, il rigore della ricerca e la necessità del fondamento oggettivo delle narrazioni che restano gli elementi epistemologici propri della disciplina. Insomma, lo storico, come ogni scienziato, sa di dover essere convincente, ma bisogna chiedersi se gli ambiti di riferimento del suo discorso restano ancora quelli della comunità scientifica, oppure se editoria, mercato e sistema culturale non lo spingano in modo pressante verso un pubblico che lo costringe a sfumare i tratti metodologici della sua ricerca.
Non è scontato per uno storico valutare quali siano le motivazioni teoriche delle scelte metodologiche che sono alla base del suo lavoro scientifico. Questa fatica ad interrogarsi sullo statuto epistemologico e sulla struttura disciplinare della materia della quale ci si occupa contribuisce ad abbandonare i problemi della ricerca e quelli relativi alla sua diffusione ad ambiti distanti dalla pratica storiografica. Per questo molti storici di spessore hanno riservato alla riflessione concettuale uno spazio non secondario della loro attività1.
Il percorso teorico finalizzato a riallacciare il legame tra storia e verità, suggerito da Galasso nelle pagine che abbiamo appena ricordato, andava nella direzione del superamento della progressiva dissoluzione del concetto di realtà oggettiva operata dall’idealismo, ma anche dal positivismo, dal realismo e infine dalla riflessione interna allo stesso mondo delle scienze cosiddette esatte. Egli, evidenziando l’unicità del tipo logico dell’intelligenza umana, concludeva il suo ragionamento sostenendo che il pensiero dell’uomo si articola esclusivamente attraverso i giudizi storici. Una prospettiva capace di trasformare la riflessione sulla metodologia storiografica nell’analisi del significato e dei limiti della ricerca della verità, ma anche di attualizzare la saldatura, propria della tradizione classica, delle discipline storiche con la retorica e l’oratoria2. Una scelta che si connette inevitabilmente con la concezione etica della storia e con la sua vocazione all’argomentazione e alla persuasione che oggi sono immensamente amplificate dalle potenzialità del sistema mediatico.
In questo quadro il vero tema diventa dunque quello di dare forma ad un pensiero che sia anche principio intellettuale di vita civile. Una storia intesa come il luogo di costruzione della convivenza di un popolo e tra i popoli non potrà certamente prescindere dal problema della verità e quindi dalla questione della trasmissione di un sapere la cui valenza epistemologica è innanzitutto legata alla comunicazione e alla diffusione di giudizi di valore rintracciati nel passato o attraverso di esso e proposti come fondamento dell’oggi e del domani.
Oltre che del gravoso compito di difesa dei ricordi, poi, la storia è stata caricata della responsabilità della costruzione della memoria collettiva. Un percorso che alcune correnti di pensiero hanno creduto di dovere collegare alle strutture stesse del linguaggio e dunque a quelle della narrazione e dell’intreccio, fino ad arrivare a negare nella storia lo spazio per la realtà a favore di una lettura, per dirla con Roland Barthes, di “effetto di realtà”3.
Qualsiasi sia la posizione teorica che si scelga di assumere, quello che resta comunque fondamentale nella riflessione metastorica è la necessità per gli studiosi di trovare una forma adeguata alla loro ricerca, un linguaggio solidale alla concettualità impiegata nella costruzione del dato storico. Un problema che, una volta accettato il nesso tra storia e verità, non riguarda solo l’aspetto della comunicazione e della divulgazione dei risultati di un percorso di lavoro, ma investe le radici stesse della disciplina. Il carattere selettivo e non oggettivo della scrittura storiografica, quel paradigma interpretativo della ‘verità’ storica, che in quanto interpretativo è sempre un trasferimento di senso, almeno nella sfera della cultura,comporta infatti che nel processo di oggettivazione degli esiti dell’indagine venga racchiuso un giudizio che, di fatto, partecipando di un incremento di realtà, non può che essere anche morale ed etico.
In questo quadro teorico, nel giudizio storico in quanto espresso, e dunque consegnato al linguaggio, avviene una saldatura tra ricerca e diffusione. Gli avvenimenti diventano gli elementi ai quali lo studioso deve dare una forma che è ermeneutica e concettuale, ma anche comunicativa e narrativa, e che serve ad oggettivare la chiave di lettura sovrapposta alle fonti rinvenute nel corso del lavoro. Questa operazione, capace di proiettare i fatti verso gli ambiti che compongono le nostre categorie intellettuali, costringe gli storici a fare i conti con i problemi connessi alla metodologia della ricerca, ma anche con i principi formali della verità e dell’attendibilità che vanno necessariamente posti alla base di qualsiasi ricostruzione dei fatti.
Tralasciando la discussione sulla tipologia e l’utilizzo delle fonti, che pure meriterebbe un suo spazio di confronto, in questa sede si è detto di volere analizzare uno degli elementi strutturali della scrittura storiografica costituito dal necessario slittamento, proprio del suo taglio argomentativo, dai testi, intesi come tracce concrete di fatti e persone, alle storie4.
Sebbene si tratti di un aspetto fondante di questa disciplina, infatti, la ricerca di notizie e di eventi non esaurisce certo l’impegno degli studiosi che, consapevoli della profonda differenza esistente tra la storia e la ricerca erudita e antiquaria, sono naturalmente interessati a riempire di senso i risultati del loro lavoro di indagine.
Una solida tradizione di studi, prodotta soprattutto nei paesi anglosassoni, sostiene da tempo l’esistenza di un nesso profondo e necessario tra storia e letteratura. La costruzione di strutture di intreccio diventa in questa ottica lo strumento necessario per integrare la cronaca del passato nelle categorie culturali del presente, favorendo così un processo di riappropriazione degli eventi trascorsi attraverso il lettore contemporaneo alla narrazione. Il racconto degli eventi diventa quindi il luogo di incontro tra le esigenze delle singole persone e le aspettative delle comunità, in un percorso che si carica di significati nuovi nelle dinamiche comunicative della nostra cultura che dipende in massima parte dalla capacità dimostrata da temi e argomenti di conquistare una loro visibilità comunicativa.
Uno dei pericoli del potenziamento della valenza letteraria della storia, però, è costituito dalla possibilità che la responsabilità dello storico rispetto alla dimostrazione dell’attendibilità delle sue interpretazioni si attenui nella progressiva sovrapposizione di storiografia e racconto. La narrazione della storia assume il ruolo di mediazione tra eventi e strutture di intreccio attraverso un percorso che allontana sempre di più le ricostruzioni del passato dalla verifica sperimentale propria delle discipline scientifiche per proiettarle verso una non confutabilità tipica del ruolo dei classici della scrittura di qualsiasi genere5.
Si tratta in definitiva della vecchia questione del confine tra vero e verosimile che aveva animato il dibattito ottocentesco sul romanzo storico. Un confronto caratterizzato dal fatto che, fino alla metà del secolo scorso, la letteratura era stata il medium privilegiato e prestigioso per accreditare immagini, miti e convinzioni che contribuivano a fondare le memorie condivise. Sono queste ultime che in definitiva condizionano la scelta delle linee di ricerca, ma anche le forme storiografiche privilegiate dagli studiosi i quali hanno a disposizione un ventaglio ricchissimo di possibilità narrative per compenetrare le fonti al racconto6.
Questa accentuazione del ruolo di interposizione e di semantizzazione delle dinamiche culturali del contesto espone lo storico al rischio di un sovradimensionamento della propria appartenenza intellettuale. Una posizione la cui conseguenza è l’inclinazione a costruire delle narrazioni capaci di provocare nel lettore un senso di condivisione delle categorie concettuali utilizzate per interpretare i fatti, facendo passare in secondo piano la preoccupazione per il rigore nella metodologia della ricerca. Con il pericolo costante di slittare dalla sollecitazione del processo di identificazione tra scrittore e pubblico ad una manipolazione delle valutazioni attraverso la preminenza della forma sul contenuto, della narrazione sull’interpretazione, preoccupandosi di fare salva solo l’attendibilità formale della documentazione garante della “scientificità” del testo.
Al di là di queste valutazioni però, una volta messe insieme le fonti, lo storico che abbia delineato una chiave di lettura conforme alla linea interpretativa prescelta, deve necessariamente affrontare il problema della comunicazione dei risultati della ricerca. Questa, sempre meno debitrice delle scelte teoriche, rischia di diventare ostaggio della valutazione dei lettori e della conseguente possibilità di ampliare i confini della fruibilità di testi che sempre di più aspirano a proiettarsi oltre il pubblico meramente specialistico.
Dunque, il problema non sembra più essere soltanto se e quanto la scrittura scientifica si sia modificata, ma anche se gli scritti divulgativi, nell’ambiguità dei confini delle formule editoriali, non siano costretti ad adeguarsi ad una veste argomentativa dal profilo scientifico per intercettare un pubblico che richiede trattazioni discorsive, che però utilizzino fonti e strumenti di indagine propri della scienza storica. Bisogna pertanto domandarsi se e quanto questa deriva incida sui linguaggi utilizzati dagli storici, contribuendo a rinnovare in modo visibile il prodotto del loro lavoro, ma anche se questo orizzonte comunicativo non possa condizionare ambiti che vadano ben al di là della scrittura, per invadere il campo della scelta dei temi e dei tagli metodologici utilizzati dalla storiografia.
Il rischio dei libri di storia diventa dunque quello di una attenzione esasperata al consumatore-lettore, insieme al tentativo di insediarsi in spazi di mercato dal lato del suo potenziale di ricezione dell’argomentazione scientifica. Questo può sottrarre alla divulgazione della ricerca uno dei tratti propri di ogni vera ricerca e di ogni vera divulgazione di ricerca: l’ampliamento degli orizzonti di senso della realtà che è la vera vocazione disciplinare della storiografia.
Sembra dunque che la saldatura tra storia e letteratura, che in passato aveva costituito la garanzia della qualità etica e formale della produzione storiografica, debba essere radicalmente ripensata. La rielaborazione testuale dei risultati della ricerca e la scelta di un linguaggio inteso come formula comunicativa, ma anche e soprattutto come tramite del giudizio e del pensiero dell’uomo, espone infatti la ricerca al rischio della perdita di un livello soddisfacente di scientificità consegnandola, nella migliore delle ipotesi, alla sfera dell’arte e della creatività.
Al difficile traguardo dell’arte, però, si affianca il rischio di soggiacere alle richieste di un mercato della comunicazione governato da esigenze divulgative che proiettano la narrazione storica entro dinamiche indipendenti dalla sua vocazione disciplinare, trasformandola in mero strumento del consumo culturale.
Per ritornare al punto di partenza del nostro ragionamento, c’è un ultimo aspetto della funzione storiografica che va necessariamente rivisto. Anche accettando la dilatazione della vocazione culturale della ricerca storica, infatti, è pur vero che senza una domanda e un interesse originario nessuna storia verrebbe indagata e quindi narrata. È il presupposto chiaramente delineato dagli storici che sono consapevoli del fatto che la loro curiosità nasce dal presente ed è pertanto pienamente debitrice del mondo contemporaneo.
Questo comporta che in una cultura come la nostra, governata dalla velocità della comunicazione, si verifichi una continua accelerazione della presa di distanza da eventi e situazioni. La storia, che non è certo immune dalle trasformazioni del dibattito contemporaneo, tende quindi ad occuparsi non solo della conoscenza e dell’interpretazione del passato, ma va progressivamente dilatando i confini dei propri interessi fino ad includere temi e prospettive ancora pienamente radicate nel presente. Essa, relegata in una posizione di marcata subalternità, si è orientata verso un presentismo che ha progressivamente emarginato la ricaduta civile che la tradizione occidentale aveva a lungo riconosciuto alla riflessione storiografica.
In questo quadro la memoria tende a prendere il sopravvento sulla storia, rinnegando quel processo di storicizzazione che, consegnati i fatti alla distanza interpretativa, si realizza grazie alla riflessione ermeneutica e alla costruzione di un metalinguaggio capace di consentire, attraverso il rigore scientifico della ricerca, la trasmissibilità delle conclusioni dell’indagine7.
Questa deriva contemporaneista, spesso esasperata nel senso dell’adesione alla cronaca, espone al rischio della mancata applicazione delle categorie di valutazione, necessarie alla costruzione di una qualsivoglia metodologia storiografica funzionale ad oggettivare l’interpretazione dei fatti. L’urgenza di proiettare la storia nel quotidiano può provocare una distorsione del resoconto del lavoro di studio, capace di insidiare la corretta rielaborazione testuale delle vicende del passato molto di più di quanto non indebolisca la storicizzazione del presente. Con la conseguenza di consegnare, almeno nella percezione comune, la produzione dei testi “storici” a scrittori estranei non solo al mondo dell’accademia, ma molto spesso anche al problema della metodologia della ricerca e alla procedura di ricostruzione critica di un quadro storico possibile.
La richiesta di raccontare il passato trova infatti sempre più spesso la disponibilità di giornalisti e opinionisti i quali, più che utilizzare modelli letterari per divulgare i risultati di un impegno scientifico, utilizzano i meccanismi della comunicazione senza preoccuparsi di salvaguardare il rigore dell’analisi8. Progressivamente fagocitata dal circo mediatico, insomma, la storia divulgata si allontana dallo statuto epistemologico della disciplina e perde di legittimità senza guadagnare in letterarietà.
Con questo non si vuole comunque sostenere che sia un dovere degli storici quello di rispondere alla domanda di storia che proviene dalla società. Si tratterebbe però in questo caso di fare una scelta che porta con sé una scarsa attenzione alle esigenze di un più vasto pubblico di lettori ed uno slittamento verso un taglio argomentativo proprio della pura ricerca. Con la conseguenza di ignorare il problema della responsabilità dell’educazione alla domanda e alla fruizione che è parte integrante della costruzione culturale.
Questa tendenza a rincorrere i gusti del pubblico, oltre a provocare la perdita del controllo della comunicazione storica da parte degli storici di professione, ha avuto come ulteriore conseguenza la progressiva marginalizzazione di alcuni settori della storiografia.
Il pericolo dello svilimento cronachistico legato all’eccessivo orientamento alle dinamiche del presente strumentale che emerge nell’utilizzo della storia, investe soprattutto il campo di indagine dei contemporaneisti. Gli argomenti relativi al passato meno prossimo, invece, corrono il rischio costante di essere confinati negli opposti domini del confronto specialistico o della spettacolarizzazione9.
Detto questo, però, non c’è dubbio che la storia non possa rinunciare a trovare una strada per uscire dalla dimensione specialistica e cimentarsi con le nuove forme di diffusione e di confronto proprie delle dinamiche intellettuali, integrate nel panorama contemporaneo. Una ricerca che deve necessariamente rivedere i parametri tradizionali della divulgazione o della storia romanzata per fare i conti con gli spazi ripensati dalla cultura della comunicazione.
Non si tratta dunque soltanto di vigilare sulla qualità e sulla quantità dell’utilizzo degli argomenti storici nell’ambito della produzione letteraria o televisiva. Un tema scottante che contempla senza dubbio il problema del rapporto della storia con la realtà e con la verità, ma che oggi deve fare soprattutto i conti con il diffuso cinismo culturale, che ha portato troppo spesso ad abdicare alle esigenze dell’intrattenimento a svantaggio della preoccupazione qualitativa connessa alle funzioni che anche il linguaggio comunicativo per eccellenza, quale è oramai diventata la televisione, dovrebbe comunque mantenere.
Non è certo in discussione la potenzialità creativa del mezzo televisivo al quale spetta oramai la responsabilità di costruire l’universo semantico di riferimento della società. Le strutture simboliche e narrative che esprimono oggi la chiave antropologica delle nostre comunità assomigliano sempre di più all’ossatura di una fiction e questo rischia di influenzare in modo incontrollabile i processi di recupero del passato, a prescindere dal livello di scientificità del percorso della ricerca.
È oramai trascorso qualche decennio da quando Natalie Zemon Davies sentiva la necessità, da studiosa della storia, di chiarire i termini della sua collaborazione alla sceneggiatura del film su Martin Guerre ambientato nella Francia del Cinquecento10. Nelle pagine pubblicate nel 1984 ella sottolineava il fatto che la narrazione cinematografica non le aveva consentito di avvalersi degli strumenti della costruzione testuale che lo storico utilizza per sfumare la descrizione del passato sovrapponendo ad essa la sua chiave di lettura. Il linguaggio delle immagini appariva all’autrice privo delle infinite potenzialità della parola scritta e dunque confinato in una resa del racconto necessariamente rigida e parziale. Una difficoltà certamente accentuata dalla velocità necessaria alla produzione televisiva che contribuisce a scavare un solco tra storiografia e comunicazione visiva.
Se l’abitudine all’immediatezza della trasmissione impoverisce sempre di più i linguaggi, la distanza tra il mutato contesto della circolazione del discorso storiografico e le nuove forme della narrazione rischia oggi di consegnare definitivamente alla trattazione giornalistica i resoconti che la struttura epistemologica della disciplina storica possono rendere inadatti alla comunicazione di massa11.
Un problema alla cui soluzione gli storici devono dare il loro contributo per attualizzare le prospettive teoriche e formali della scrittura storiografica senza svilire la scientificità della ricerca.




NOTE
* Questo testo e quello di Edoardo Tortarolo riportato di seguito, riproducono le relazioni lette nel corso della giornata di studio Forme di storia forme del tempo. Storia contemporaneità e scrittura alla prova della comunicazione tenutasi a Napoli presso l'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa il 14 dicembre 2007.^
1 Non credo che valga la pena di ricordare testi che sono diventati dei veri e propri classici moderni come M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, trad. it. Torino, Einaudi 1969; F. Braudel, Scritti sulla storia, trad. it. Milano, Mondadori, 1976; E.H. Carr, Sei lezioni sulla storia, trad. it. Torino, Einaudi, 1966 o F. Chabod, Lezioni di metodo storico, ed. Roma-Bari, Laterza, 1985, E. Le Roy Ladurie, Le frontiere dello storico, Roma-Bari, Laterza, 1976.^
2 Si veda a questo proposito G. Galasso, Storia e storicismo, in Idem, Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 13-163.^
3 Cfr. per esempio la raccolta di contributi di H. White, Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, Roma, Carocci, 2006; R. Barthes, Le discours de l’histoire, in «Information sur les sciences sociales», n. 4 (1995), pp. 65-75; ma anche A. D’Orsi, Alla ricerca della storia. Teoria, metodo e storiografia, Torino, Paravia 1996 e le interessanti considerazioni nella traduzione italiana di G. Spiegel, Il passato come testo. Teoria e pratica della storiografia medioevale, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici, 1998.^
4 Su questo: H. White, Il testo storico come artefatto letterario, in Forme di storia cit., pp. 15-35.^
5 Una separazione tra la narrazione storica e il lavoro di ricerca delle fonti era stata suggerita da Croce già nei suoi scritti giovanili. Si veda per esempio La storia ridotta sotto concetto dell’arte (1895) discussa da H. White, Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, Baltimora, 1973 (trad. it. Retorica e storia, Napoli, Guida, 1978).^
6 Su questi temi si è spesso soffermato Carlo Ginzburg. Si vedano per esempio i saggi recentemente raccolti in Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli, 2006.^
7 A questo proposito ci si limita a segnalare il recentissimo A. Margalit, L’etica della memoria, Bologna, Il Mulino, 2007, ma anche C. Ginzburg, Memoria e globalizzazione, in «Quaderni Storici», n. 120 (2005/3), pp. 657-669.^
8 Cfr.: G. de Luna, La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo, Milano, Bruno Mondadori, 2004; S. Pivato, Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Roma-Bari, Laterza, 2007.^
9 E’ recente la formulazione della categoria del “presente permanente” in E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 14-15. Ma già Croce, dalla prospettiva dello storico, aveva «[…] teorizzato la storia come sempre “storia contemporanea”, mossa dagli interessi spirituali vivi e pungenti, e perciò in lui presenti […]». B. Croce, Storia e autobiografia, in «La Critica», XXVI/IV (1928), p. 232. Sul nesso crociano tra autobiografia e racconto storico è ritornata di recente E. Giammattei, Croce, Oxford 1930, in «Intersezioni», agosto 2007, pp. 193-214.^
10 N. Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento, 1984 sulla quale si veda la Postfazione di Ginzburg oggi in Il filo e le tracce cit., pp. 295-315. Si veda anche: P. Iaccio, Cinema e storia. Percorsi immagini testimonianze Napoli, Liguori, 1998.^
11 A. Tonelli, Sull’incapacità di comunicare degli storici, in «Storia e problemi contemporanei», n. 29 (2002), pp. 27-33.^
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