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Aspettando l’Europa
di Maurizio Ambrogi
Nell’arco di pochi anni lo scenario politico europeo è cambiato radicalmente. La Merkel ha sostituito Schroeder alla guida della Germania, con una coalizione di larghe intese. In Gran Bretagna Blair ha lasciato il testimone a Gordon Brown. In Francia Sarkozy ha già cambiato profondamente le linee di politica estera di Chirac, soprattutto per quel che riguarda i rapporti con gli Stati Uniti. E quest’anno, sull’altra sponda dell’Atlantico, finirà anche l’era Bush. Gli effetti di questi cambiamenti sono già visibili: si torna discutere su come rilanciare il processo di integrazione europea. Dopo una fase difficile, che ha visto il fallimento dell’approccio unilateralista ma anche il profondo smarrimento politico dell’Europa, si ricomincia insomma a riflettere politicamente su come uscire dalla crisi.
E’ questo il tema del volume di Adolfo Battaglia, Aspettando l’Europa (Carocci, 2007), che coglie e analizza con precisione il passaggio in corso. Ma l’analisi è a sostegno di una tesi ben precisa: dalla crisi, secondo Battaglia, si esce solo ristabilendo un forte rapporto fra Europa e Stati Uniti. Che si basa su una scelta chiara: l’Europa deve decidere se vuole tornare ad essere «uno dei pilastri su cui poggiare l’influenza di un Occidente più unito» o puntare ad essere «un polo autonomo e separato». L’opzione cui pensa Battaglia è senza alcun dubbio la prima. Per ragioni storiche, per convenienza economica, perché questa è l’unica via che abbia politicamente senso di fronte alle sfide del mondo globalizzato. Ogni altra scelta è preclusa perché l’Europa «arroccata su benessere pace e consumo, divisa in tre parti divergenti tra loro…sembra difettare anche di energia politica» osserva Battaglia. Quella energia che dovrebbe sostenere un ruolo di potenza capace di «prendere decisioni, pagare prezzi, sopportare costi, sacrificare persone». Insomma di assumere responsabilità che «possono essere dolorose».
Non lascia molto spazio alla retorica dell’europeismo del resto l’analisi molto attenta che Battaglia propone su un’Europa divisa in tre parti, diverse per condizione economia e sociale, per spirito pubblico, per impostazione politica. La prima formata dai paesi dell’area centro-meridionale, la seconda formata dalle nazioni del nord, e infine quella formata dai nove paesi dell’est usciti dal comunismo. Come pure non induce all’ottimismo la confusione politica che si nasconde dietro le ricorrenti proposte di un’Unione «a due velocità» o «a geometria variabile». Il fatto è che l’Europa non può avanzare sulla base dello schema del passato: basato su un progressivo allargamento e della contemporanea ricerca di una unità politica. Perché le due spinte entrano in contraddizione. Nessuna unità politica è possibile in realtà se non si inserisce in una strategia che indichi la collocazione e il ruolo che il nuovo soggetto vuole avere nel mondo.
Battaglia insiste molto e argomenta questa convinzione: l’Europa-potenza, l’Europa Terza forza sono pericolose illusioni, dunque l’unica strada per il vecchio continente resta quella di ricostruire su basi nuove il rapporto con gli Stati Uniti: superando le diffidenze e le riluttanze che lo hanno caratterizzato in questi ultimi anni. E le cui responsabilità, per verità, vanno trovate su entrambe le sponde. Non a caso due capitoli sono opportunamente dedicati «all’antiamericanismo europeo» e «all’antieuropeismo americano».
Lo strumento attorno al quale saldare questo rinnovato legame è quello del mercato euro-atlantico. Un progetto di cui ha parlato da ultimo e con forza Angela Merkel, sottolineandone il valore insieme economico e politico: da un lato con la ricucitura della frattura determinata dalla guerra irakena; dall’altro con la creazione di un ambiente favorevole alla promozione di scambi e investimenti, capace di dare a tutta l’area la stessa spinta che il mercato unito ha fornito all’Europa. I vantaggi sono evidenti per i due soggetti. Gli Stati Uniti possono essere aiutati a rovesciare il loro indirizzo unilateralista e, sostenuti al soft power del vecchio continente, recuperare nel mondo autorità e fiducia. L’Europa può ricevere un forte traino sui terreni della ricerca, dell’innovazione, della produttività, sui quali è indietro e subisce l’erosione delle economie più dinamiche, dal sud-est asiatico, all’India, ora alla Cina.
Ma i vantaggi riguardano nel complesso un’area omogenea «in cui si concentra la maggior parte della scienza, della ricerca tecnologica e del capitale cognitivo divenuto centrale nell’età della globalizzazione». Per questo, la comunità atlantica rappresenta
una struttura di cultura critica che risulta fondamentale non solo per i suoi popoli ma per ogni nazione. E’ la struttura, in definitiva, che è all’avanguardia della modernità democratica. E che, per stare nella vita internazionale, deve possedere tutti gli strumenti, compreso quello della forza, senza i quali una politica internazionale non esiste.

L’analisi di Battaglia si inquadra con coerenza nello schema che è stato vincente nel dopoguerra e che oggi, lungi dall’essere superato, resta l’unico forte ancoraggio per resistere sia alla competizione che arriva dalle economie emergenti, sia agli attacchi portati da una parte del mondo islamico. Lo schema che si basa appunto sulla comunità atlantica: l’unico che può ristabilire un equilibrio e quindi la possibilità di una governance mondiale, superando il trauma dell’11 settembre. L’America “imperiale”, come dimostra l’esperienza di questi anni, da sola non ce la fa e rischia l’isolamento. L’Europa, che peraltro non ha una linea politica comune, mostra tutta l’impotenza di un ruolo di moral suasion o di mediazione che non ha armi per imporsi.
La distanza fra le due sponde dell’Atlantico riflette una diversità di vedute e di impostazione culturale che Robert Kagan ha semplificato nella famosa formula che descrive l’America seguace di Marte e l’Europa assimilata a Venere. Una “provocazione” su cui riflette anche Vittorio Maria Parsi - nel libro che non a caso si intitola L’alleanza inevitabile... (Milano, Università Bocconi Editore, 2006) - per giungere a conclusioni simili a quelle di Battaglia. La distanza fra le due sponde dell’Atlantico, che a volte diventa polemica, è frutto di ragioni complesse e di incomprensioni reciproche. Il mancato decollo di una politica estera e di sicurezza europea, osserva Parsi, deriva anche alla «facile diffusione di una versione troppo illusoria e letterale dell’Europa “potenza civile”, come se si potesse aspirare ad avere un ruolo internazionale solo grazie ad accordi di cooperazione e associazione, di aiuti allo sviluppo o di integrazione (Parsi, p. 276)». Sull’altra sponda la vocazione guerriera non è semplicemente il frutto di una difesa di interessi, quanto piuttosto della congiunzione «dell’impegno morale, di quello politico e di quello militare», l’idea cioè che la politica sia un impegno del bene contro il male, una «suprema arte creatrice», una visione «eroica» che l’Europa rifiuta avendo sperimentato nella sua storia «quello che alcuni hanno chiamato la forma massima di politicità fuori controllo: il totalitarismo (Parsi, pp. 240-1)».
Il risultato di questa differenza di impostazione è che gli Stati Uniti «in questi anni subiscono la tentazione di sopravvalutare l’uso della forza» mentre «l’Europa troppo spesso sembra pericolosamente sottovalutarlo, come se volesse fuggire la realtà tragica della politica internazionale, per cui talvolta, per promuovere e difendere il bene, è necessario resistere al male, anche combattendo». E’ qui che bisogna dunque lavorare per recuperare le basi dell’alleanza «inevitabile» superando da un lato (quello americano) l’unilateralismo e l’idea che i problemi internazionali si risolvano con coalizioni ad hoc, dall’altro (quello europeo) prendendo atto che si tratta di fronteggiare una minaccia comune (Parsi, p. 279).
Sullo sfondo resta il problema forse più importante: quello che potremmo definire «dell’identità». In che modo l’Europa intende riconoscere e assolvere ai compiti che derivano dalla propria identità occidentale. Questo è il nodo che, dietro i forti motivi economici e politici, sottende tutto il ragionamento di Battaglia. Punto delicato, perché Occidente è diventato bene rifugio, declamazione di superiorità o arma contundente. In nessun caso intendendone il valore propulsivo che è tale in sé, non per confronto o competizione con altre culture. E’ il valore propulsivo della modernità, che trae alimento dalla rivoluzione industriale, da quella scientifica, e che si esprime politicamente a partire dai principi affermati dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese. Quando si fanno inutili discussioni sulle radici dell’Europa, si trascura quella che è l’unica vera. Ma soprattutto l’unica veramente vitale e che sotto questo punto di vista merita un grado di “superiorità”. «Non si forzano le convinzioni di nessuno – osserva su questo punto Battaglia – se si pretende che siano riconosciuti tali dati di fatto. E ci si richiama solo al senso grande che deve presiedere alle scelte politiche fondamentali, se si conclude sottovoce che il contribuire a dirigere l’Occidente invece che a dividerlo rappresenta per l’Europa il maggiore compito che politicamente e storicamente abbia senso».
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