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Un’etnopsichiatria critica storicamente fondata
di Annamaria Fantauzzi
Roberto Beneduce, psichiatria e antropologo africanista, in un libro recente (Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, Roma, Carrocci editore, 2007) offre con questo libro un altro importante contributo alla comprensione e alla formazione dell’etnopsichiatria, disciplina che, come sostiene l’autore, deve essere strumento di riflessione sulla costituzione/decostruzione tanto della cultura degli altri quanto della nostra. Viene delineata, in tal modo, un’etnopsichiatria in cui il prefisso etno- non si riferisce soltanto alle «psichiatrie degli altri» ma anche a quelle categorie diagnostiche della psichiatria occidentale che vengono qui discusse e rivalutate, soprattutto alla luce di un’attenta analisi storico-antropologica: «una disciplina che ha per oggetto le situazioni di cambiamento e di transizione psicoculturale, l’angoscia e le incertezze che spesso le accompagnano, la “divisione culturale” – senza alcun dubbio comune a tutti - più che la mera “differenza culturale”» (p. 19). L’etnopsichiatria delineata dall’autore è, prima di tutto, una “disciplina di confine”, «eterologa», capace di dialogare con diverse sfere del sapere e di scoprire in questo dialogo la sua ricchezza e completezza.
La trattazione si snoda attraverso tre assi epistemologici che rispecchiano le tre parti in cui il libro è diviso: il profilo storico-diacronico della disciplina, la costruzione della stessa come etnoscienza, la questione dell’immigrazione. Il primo, l’asse storico, descrive gli albori della disciplina, inserita in quelle «scienze coloniali» subordinate al dominio imperialistico occidentale, a partire dalla psichiatria coloniale e dalla «rappresentazione che essa diede dell’Altro colonizzato, dei suoi deliri e delle sue credenze, della sua mente “primitiva”» (che l'aggiunta di un vasto e ben commentato apparato fotografico abilmente descrive), fino alla costituzione delle categorie epistemologiche e diagnostiche che tuttora caratterizzano la disciplina.
Con acribia e attenzione storica, l’autore passa in rassegna le esperienze di psichiatri, medici, antropologi ed etnologi (Porot e la scuola di Algeri; Levet; Donnadieu; Octave Cannoni, per citarne alcuni) che, grazie anche all’impiego di metodi parascientifici (come i test diagnostici TAT e QI), orientati a valutare, giudicare e “reificare l’alterità”, dalla fine del XIX secolo, hanno contributo alla formazione della disciplina e alla costituzione di differenti orientamenti epistemologici: la primordiale psichiatria transculturale, intesa come «studio comparativo di malattie o sindromi o strategie terapeutiche in culture diverse» (p. 48), con Emil Kraepelin e Gilles de la Tourette; l’orientamento comparativo applicato in ricerche successive (Meilhon, Van Brero, de Rey, Muñoz) che segnò una decisiva svolta nella clinica neurologica, dedita ad analizzare lo stretto rapporto tra sintomi psicopatologici e contesto culturale del paziente, attraverso l’osservazione di quelle «sindromi determinate dalla cultura», oggi definite cultural bound sindrome (come l’amok e il latah, cui è riservata una documentazione etnografica peculiare e precisa, nella seconda parte del libro). L’orientamento comparativo venne meno nella formazione della vera e propria etnopsichiatria, orientata a rintracciare le «connessioni fra cultura, malattia e cura all’interno di un particolare contesto culturale, sociale e religioso» che, dapprima con Franz Fanon e poi, soprattutto, con George Devereux, trovò la sua completa caratterizzazione. L’autore riserva loro due capitoli interi in cui, oltre ad offrirne un’accurata biografia e a delinearne la formazione culturale ed intellettuale, traccia l’origine e lo sviluppo delle categorie epistemologiche dell’etnopsichiatria contemporanea, da cui tanta parte della psichiatria occidentale venne messa in discussione.
Di Frantz Fanon (alla cui memoria l’autore ha dedicato l’omonimo centro da lui fondato a Torino nel 1997 e da lui tuttora diretto, a sostegno dei disagi psicologici delle comunità immigrate) mette in rilievo alcuni principi fondamentali, fondanti l’attuale orientamento della disciplina e, in particolar modo, di quella clinica delle migrazioni, in cui stretta deve essere la relazione tra cultura, psicopatologia e cura, all’interno di particolari rapporti di forza. La necessità di indagare l’individu actionnel nel suo contesto storico e sociale, praticando quella «diagnosi situazionale» capace di cogliere la totalità del fenomeno e del soggetto analizzato contribuisce alla costituzione di un’etnopsichiatria critica (del tutto lontana dalla psichiatria coloniale e transculturale, divenute più rigorose soprattutto con i processi di decolonizzazione ed ulteriormente decostruite nell’opera del coevo tunisino Albert Memmi), «autenticamente autoriflessiva (rivolta cioè a considerare non solo i modelli di malattia e di cura in altre società, o l’influenza della cultura sul comportamento, ma le categorie della psichiatria occidentale, l’ideologia che nutre i suoi modelli e le sue pratiche)» (p. 113, corsivo dell’autore).
Il capitolo “Le basi epistemologiche dell’etnopsichiatria contemporanea: Georges Devereux” riveste una posizione di centralità tanto nella storia degli studi quanto nel ragionato impianto di tutto il libro, aprendone la seconda parte. Dialogando con autori quali Nathan, Lévi-Strauss, Balandier, Bastide e, più recenti, Zempléni e Roudinesco, Beneduce fa emergere la dimensione di primo piano del poliedrico etnologo psicoanalista nell’aver conferito autonomia ad un’etnopsichiatria interdisciplinare, anticulturalista (contro un ingenuo relativismo e determinismo culturale e a difesa dell’importanza dell’ambiente culturale, con il quale il paziente attivamente interagisce), complementarista più precisamente, un'etnopsicoanalisi complementarista (omonimo titolo di un volume che Devereux dedica a Lévi-Strauss, omaggio di un debito teorico e non solo addizionale, come, nel contempo, aveva proposto Bastide. Beneduce sottolinea l’originalità dell’opera di Devereux soprattutto nell’impostazione metodologica conferita alla disciplina intraculturale, di cui Tobie Nathan sarà designato fondatore: la «proiezione retroattiva», le dinamiche inconsce e le rimozioni psicologiche (euristica la formulazione del concetto di “inconscio etnico”); il discernimento tra oggettività e soggettività da parte tanto dello psichiatra quanto dell’etnologo, a contatto con l’alterità; la neutralità culturale, necessaria in un’indagine metaculturale e metaetnografica; il primato della psicoanalisi su altri modelli di cura e sulle terapie tradizionali (sebbene gran parte degli scritti di Devereux riflettano sulla natura e sull’efficacia delle cure sciamaniche, all’interno del dibattito tra anormalità e normalità).
Dall’opera degli iniziatori della disciplina, nei due capitoli successivi, concepiti secondo un impianto monografico e ricchi sia nell’impostazione teorica che nell’esemplificazione etnografica, l’autore analizza i principali sviluppi della stessa, concentrandosi, in una prima parte construens, sulle esperienze di ricerca e di pratica clinica dei nigeriani “villaggi terapeutici” fondati da Adeoye Lambo e sulle attività della scuola di Fann-Dakar, guidata da Henry Collomb, espressioni di un rinnovato approccio etnopsichiatrico, volto a «comprendere la genealogia della sofferenza mentale, la logica della cura e la natura dell’efficacia terapeutica a partire dall’intreccio delle psicologie locali (le antropologie della persona e del Soggetto) con le specifiche organizzazioni familiari e sociali, non meno che dallo studio delle dinamiche del cambiamento culturale e delle tecniche terapeutiche» (p. 179).
Nella seconda parte, destruens, l’attenzione si focalizza su determinate categorie nosologiche, classificatorie (come black depression) e sulla nozione di culture-bound sindrome (CBS), per metterne in luce debolezze ed incongruenze, proprie della pretesa di assoluta validità della psichiatria occidentale.
Il discorso si concentra, dunque, su alcuni concetti-chiave caratterizzanti l’approccio etnopsichiatrico: il rapporto tra pratiche mediche tradizionali e medicina ufficiale, la validità dei saperi locali di cura e dell’efficacia dell’operato dei guaritori, emersa soprattutto dal progetto di Collomb, volto a costruire l’interazione tra psicoterapie occidentali e pratiche locali, con l’innovativa constatazione della socializzazione della malattia soprattutto in contesti africani, cui si associa la centralità del concetto di “sociosomatica”; la collaborazione tra psicoanalisi e etnologia e l’approccio critico, storicamente fondato, alla lettura delle categorie diagnostiche e nosologiche e degli assi classificatori, ammettendo la pluralità delle culture e della loro eterogeneità.
L’ultimo capitolo della seconda parte è riservato ai pionieri della disciplina in Italia, che l’autore rintraccia, prima di tutto, in Ernesto de Martino, poi in Alfonso Maria Di Nola e Michele Risso. Come per i maestri presentati nella prima parte, Beneduce non si sottrae dall’offrire al lettore il quadro culturale e scientifico in cui i tre operarono, mettendone in luce le appartenenze culturali, le attività di ricerca ma soprattutto l’originalità di alcune posizioni vicine all’ambito etnopsichiatrico. De Martino riconosce il limite della psicoanalisi nell’aver misconosciuto il ruolo nevralgico della cultura come cura, capace di generare forme di riscatto di fronte al rischio della crisi di ogni situazione. Attribuito questo compito alla cultura, de Martino ne indaga, soprattutto nell’opera postuma (La fine del mondo, 1971), il rapporto-opposizione con lo psichismo, la malattia mentale, la natura, ponendosi in tal modo, per parafrasare le parole di Beneduce, esattamente all’interno del paradigma etnopsichiatrico. Di Alfonso Maria Di Nola, allievo di de Martino, l’autore sottolinea l’approccio complementarista (à la Devereux) di un’antropologia nutrita dall’indagine storiografica, in continuo dialogo con altre discipline, soffermandosi poi sul lavoro clinico di Michele Risso con gli immigrati italiani a Berna, con il quale ribadisce la necessità di sottolineare le differenze culturali dei contesti analizzati, l’efficacia e i limiti del simbolismo terapeutico magico-rituale e la centralità di una comunicazione preverbale tra medico e paziente.
E’ da qui che, nella terza parte del libro, dedicata alla clinica delle migrazioni, da storico ed antropologo, Beneduce diventa lo psichiatra, a contatto con i molteplici, sofferenti e sofferti casi non solo del Centro Frantz Fanon, a sostegno della popolazione immigrata, dei richiedenti asilo, delle vittime di guerre e di torture, agiti da quella «violenza strutturale» (Farmer), che determina politicamente le forme della soggettività e della percezione della salute e della malattia. Interconnessa ad un discorso più ampio sulla visione dell’alterità, a fronte delle nuove dinamiche sociali e politiche (globalizzazione, meticciamento, ibridazione, interconnessioni), la clinica della migrazione, recente ambito dell’etnopsichiatria, è, in primis, una “clinica dell’ambivalenza”, dato il carattere ambiguo e dicotomico proprio dello statuto stesso del migrante, come anche della società di accoglienza e di origine, in cui egli si trova a vivere. Denotato dal dolore del ritorno (nostalgia, di cui l’autore propone le differenti accezioni ed interpretazioni psicoanalitiche), l’immigrato vive in un vuoto culturale, in una condizione di liminalità e di «“tempo sotto assedio” (Beneduce aveva parlato di questo concetto già in Poteri di morte. Violenza, memoria e tanatopolitiche nelle vicende dei rigufiati e delle vittime di tortura, in «Studi Tanatologici», 2, 2006, pp. 165-199), scandito da fantasmi persecutori, dalla paura che assale quando si è in strada, dagli incubi sulla sorte di propri familiari, dal dubbio relativo al proprio futuro statuto giuridico […] ma meglio sarebbe dire, al proprio destino» (p.350, corsivo dell’autore).
Beneduce tende a ribadire, qui, come in tutto il libro, lo stretto ed inevitabile rapporto che unisce Soggetto-Politica-Storia (come il titolo sembra parafrasare), ancora meglio evidente nella figura dell’emigrante che esprime, nel suo ruolo, una frattura all’interno della «grammatica dello Stato-nazione», espressione di una crisi marchiata da una vera e propria «ossessione nosografia», immagine stereotipata del deviante, del delinquente e, più recentemente, del terrorista o, meglio, del trickster ingannatore. La nuova comunità etichetta l’immigrato, attraverso quella gestione dei corpi che il termine foucaultiano di «biopolitica» ben riassume; a partire da essa, «l’etnopsichiatria della migrazione è chiamata a esplorare l’intero orizzonte dei processi storici, economici e sociali fra i quali emerge la sofferenza e si sviluppano i conflitti psicologici degli immigrati» (p. 263), attraverso quella «strategia diagnostica situazionale», tanto cara a Fanon.
E’ qui che la speculazione epistemologica diventa prassi, è qui che il teorico diventa terapeuta. Chiare, dunque, emergono le caratteristiche che l’autore attribuisce ad una saggia etnopsichiatria rivolta alla cura di immigrati, rifugiati, vittime di torture (da cui il richiamo ad una clinica del trauma e della memoria): il concetto di «leva culturale» (Devereux, Nathan), accanto alla nozione (che accosta la pratica clinica del Centre Devereux al Centro Frantz Fanon) di «attaccamento agli oggetti». «Mai interpretare psicoanaliticamente il materiale culturale» (come sostiene Nathan) ma saper evocare «le logiche dell’invisibile», i ricordi soppressi o rimossi, i nessi eziologici che «l’ambiguità esistenziale» dell’immigrato trattiene (di qui il chiaro debito che Beneduce esprime nei confronti della teoria clinica di Zempléni); saper ascoltare e trattenere la parola detta, saper tradurre nelle parole dell’Altro, abitando, come suggerisce ancora Nathan, «la sua lingua per poter costruire una relazione propriamente terapeutica» (p. 278); procedere al dispositivo della mediazione linguistico-culturale applicata in ambito etnoclinico, in cui il mediatore (la dimensione della terzietà) non ha soltanto competenze linguistiche ma un ruolo attivo di riformulazione e negoziazione di sensi e di significati. Una buona etnopsichiatria, così delineata, mette sotto accusa l’assoluta validità di alcune categorie diagnostiche, proprie della psichiatria occidentale (Post Traumatic Stress Disorder -PTSD- o Eyes Movement Desensitization Reprocessing -EMDR) e riflette sulle “nostre” concezioni di trauma e di memoria, come nei casi clinici che, infine, presenta. Bisogna saper interrogare la Storia, la cultura e le istanze politiche che le hanno determinate, Beneduce sembra dire, nel tentativo di costituire e praticare un’etnopsichiatria che sia critica, autoriflessiva e storicamente fondata.
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