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Un commento a Galasso: in tema di “progetto silenzioso” per il Mezzogiorno
di Fabrizio Barca
Si mescolano, nel ragionamento che intendo svolgere, profili teorici, profili applicati e profili politici. Ci sono diversi punti di contatto fra la mia posizione e quella che il professor Galasso ha ora esposto, come se si camminasse insieme per alcuni tratti di strada; ma d’un tratto, in questo cammino di confronto, ci si allontanasse improvvisamente. I punti su cui mi soffermerò sono quelli di allontanamento, che segnalano una difficoltà di comunicazione sul piano culturale. Se da un lato, infatti, emerge, nelle analisi di Galasso, comprensibile, il fastidio per il “nuovismo”, come segno dell’assenza di spessore storico, ossia della mancata consapevolezza che si stanno utilizzando strumenti, affrontando situazioni, simili a quelli del passato; dall’altro emergono anche tracce di uno scoramento nuovo, come se nel ragionamento fossero venuti a mancare i rampini, i chiodi a cui attaccare la possibilità di un cambiamento. Di questo voglio ragionare.
Parto da un punto analitico. C’è o non c’è il dualismo? C’è certamente arretratezza che domina in tutta l’area e rintuzza e costringe a nicchia anche qualche pezzo di territorio vivace e lo isola. C’è il permanere nell’intera area del Mezzogiorno di alcuni tratti legati al funzionamento dello Stato e dei mercati del capitalismo che la distinguono dal resto del paese. E tuttavia, la definizione di arretratezza non ci dà i chiodi per contrattaccare, perché il contrattacco implica, richiede articolazione. Prendiamo un esempio, di cui ci ha parlato il professore Galasso: la scuola.
Il nord del paese, in termini di capacità e di livello di apprendimento degli studenti, sta sui livelli internazionali più elevati, circa 20 punti (nella scala impiegata dall’indagine Pisa dell’OCSE) sopra il Centro e 70 punti sopra il Mezzogiorno. L’analisi economica ci dice che 40 di questi punti di distacco del Mezzogiorno sono dovuti alle differenze del contesto socio-economico generale delle due realtà, insomma il frutto di un circuito vizioso (che va dalla società alla scuola, dalla scuola alla società); ma 20 punti, che sono uguali a quelli del Centro, sono dovuti al peggior funzionamento della scuola. (Si veda il Quaderno bianco sulla scuola predisposto dai Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Economia e Finanze nel settembre 2007). Insomma, per dirla in modo schematico, se un intero complesso scolastico meridionale del Sud fosse trapiantato in un’area del Settentrione il suo cattivo funzionamento e il dislivello di apprendimento permarrebbero, per quella parte (20 punti), anche nella nuova condizione. Questa constatazione comincia a darci i rampini per agire. I 40 punti sembrano inattaccabili perché sono legati al contesto socio-economico e al circolo vizioso. I 20 punti costituiscono i rampini a cui attaccarsi per agire e cambiare le cose: si può, insomma, partire (anche) dalla scuola perché ci sono 20 punti da guadagnare.
Ma c’è altro. I problemi di arretratezza del Mezzogiorno sono anche i problemi di arretratezza dello Stato italiano nel suo complesso: i problemi della scarsità di concorrenza, della mediocrità del settore terziario, della insufficienza della ricerca scientifica. Ma aggravati da peculiari circostanze storiche, anche recenti.
Io condivido la periodizzazione a cui ha fatto riferimento Galasso per quanto riguarda la politica dell’intervento speciale. Fino alla fine degli anni ’50, il periodo che ho definito altrove del “compromesso straordinario”, la Cassa dà un contributo decisivo al Sud. E poi l’Italia ha l’ENI, l’IRI, si dota di un sistema autostradale, di una rete telematica e il sistema delle imprese private si modernizza. È un’Italia che procede a marcia piena. Anche se i problemi finanziari non vengono risolti alla radice, vengono trovate soluzioni in larga misura legate alla natura e alle caratteristiche degli enti pubblici: la Cassa, appunto, l’ENI, l’IRI. Con il centro-sinistra dell’inizio degli anni ’60 si tenta di dare una base più duratura al capitalismo italiano, ma nel tentativo di riformare si commettono errori. Si inverano così gli incubi di Sturzo, di intrusione della politica all’interno degli enti pubblici: il tentativo di trovare una soluzione al problema del rapporto tra management e proprietà pubblica determina soluzioni che aprono alla degenerazione di questi stessi enti. Il mancato esito della programmazione, anche per il forte e astuto fronte che contro di essa si mobilita, e l’esaurirsi di una convinta aspirazione a riformare la pubblica amministrazione fanno il resto.
Attenzione. Io non sto parlando di Mezzogiorno; in questo momento, sto parlando dell’Italia. I problemi che si aprono in quel momento significheranno cattivi servizi per tutta l’Italia, evasione fiscale per tutta l’Italia, debito pubblico per l’intero paese, ritardo della costruzione del welfare, incapacità di accompagnare la nascita del welfare con un aumento delle imposte. Sono problemi dell’Italia tutta. Ci saranno negli anni successivi due momenti straordinari, il 1976/79 con il partito comunista e 1980/85 con il partito socialista dove si tenterà di porre rimedio in modi diversi a questo stato di cose, ma la situazione resterà sostanzialmente immutata, anzi degenererà, precipitando lentamente verso la crisi del 1992. Per alcune ore l’Italia rasenterà allora la crisi finanziaria. Sull’orlo della crisi finanziaria partirà il disegno normativo di riforma dello Stato e dell’amministrazione pubblica, degli ordinamenti, del mercato finanziario, del mercato del lavoro che ha segnato gli ultimi quindici anni.
Questa è storia dell’Italia tutta, ma il Mezzogiorno ne soffre in misura amplificata. Diverse sono le ragioni di questo fatto.
In primo luogo, pesano sul Sud le condizioni di partenza: quando la fase propulsiva dello sviluppo prende ad esaurirsi negli anni ’60 il Sud è ancora in uno stato che precede lo sviluppo endogeno. E poi, la degenerazione progressiva degli enti pubblici è proprio nel Sud che pesa più che altrove, perché è qui che l’azione si fa coatta, che la forzatura di investimenti IRI non più guidati da logica di profitto è intensa, che il rafforzamento degli enti locali è bloccato dalla Cassa. L’analisi e i dati su ciò che è avvenuto ci dicono che quel modo di intervenire, quello dell’industrializzazione forzata, ha spiazzato, non avvicinato la piccola impresa. Sebastiano Brusco ha mostrato questo spiazzamento. Anche quando il progetto c’era, quando dall’alto, con intelligenza, l’avvio di grandi impianti era stato pensato come l’attivatore di un processo di trasformazione locale, ciò non è avvenuto. O perlomeno, è avvenuto di rado.
Il terzo punto riguarda le alterazioni introdotte dal sistema degli incentivi. Non solo questo sistema infiacchisce quel ceto medio del Sud che Salvemini aveva ben descritto, ma anche la classe operaia – il non molto che c’è – diventa cointeressata a mantenere la situazione esistente, o perlomeno non è sospinta a modificarla. Si diffonde in questa area del paese l’idea che lo Stato è lì per “aiutarti” dandoti lavoro, non è lì per darti servizi decenti. Le aspettative sulla qualità dei servizi si abbassano ulteriormente.
Infine, la mancanza di concorrenza ha qui riflessi particolarmente pesanti, perché in quest’area del paese il sistema terziario ha maggiore peso. E inoltre la scarsa concorrenza nel settore del libero professionismo si combina con l’incapacità dell’amministrazione pubblica nello scrivere bandi e nel selezionare i privati.
In questo contesto interviene, con l’esplodere della crisi del 1992, la discontinuità della chiusura della Cassa. Per quattro-cinque anni non c’è più politica di intervento nel Mezzogiorno. In questo periodo si producono quattro fratture importanti. La prima è la chiusura dell’intervento e dei sussidi; la seconda, il rafforzamento della legge sul pentitismo; la terza, l’elezione diretta dei sindaci; la quarta, l’irrigidimento del cambio legato al processo di unificazione monetaria e quindi la consapevolezza che per crescere l’Italia, e non solo il Sud, ha bisogno di crescere in altro modo.
Queste fratture aprono finestre per il Mezzogiorno, tanto che negli anni 1997-99 ci si spinge a vedere il Sud come opportunità, come riserva di crescita nazionale. La classe dirigente nazionale sembra convincersi che per rispondere alle esigenze dei cittadini che avevano fatto forti sacrifici per entrare nell’Unione monetaria, si debba cercare un ritorno la dove c’è potenziale inutilizzato. E l’analisi empirica delle tendenze in atto suggerisce che l’aspettativa sia fondata. Lo mostrano con chiarezza, in un bel libro Giorgio Bodo e Gianfranco Viesti: un aumento del tasso di natalità imprenditoriale, imprese che si innovano, rafforzamento dell’associazionismo, segnali dall’export. Brusco studia in quegli stessi anni le mappe dei distretti di tutto il paese, fin dal dopoguerra, e scopre che in alcuni luoghi del Sud, dove nel 1951 si profilavano agglomerazioni industriali, successivamente scomparse, nel 1991 si presentava già qualche segnale di riemersione. Si osserva, infine, che i centri urbani stanno cambiando grazie alle nomine dirette dei sindaci.
Nasce da tutto ciò la strategia nel Ministero dell’Economia, una strategia fondata su quattro gambe:
1. la rilegittimazione dello Stato come produttore di servizi pubblici di qualità;
2. un ruolo di coordinamento di alcuni centri di competenza nazionale, nel Ministero dell’Economia, e nei Ministeri di settore necessari per le competenze sul piano tecnico;
3. una modernizzazione della pubblica amministrazione per riavviare le basi di un buon governo fondato su pratiche istituzionali normali e sul rispetto trasparente di regole;
4. l’ancoraggio alle regole comunitarie. (Le regole comunitarie servono anche per la mancanza di credibilità delle regole nazionali, dello Stato nazionale. Stiglizt ricorda che gli Stati nazionali hanno spesso bisogno, per progetti di sviluppo di forte spessore, di un soggetto esterno, superiore, che faccia da garante e renda credibile la non rinegoziabilità delle regole. Bisogna inoltre ricordare che la politica di coesione europea è anche il modo in cui il Centro-Nord del paese finanzia il Sud, senza che ciò sia palese e fonte di rinnovate tensioni all’interno del paese).
A questo punto Galasso, facendo riferimento al dibattito storico interno al meridionalismo, potrebbe far notare che questa strategia è molto nittiana – progetti, molta buona amministrazione, molta tecnica – ma dove sono gli interessi? Dove sono i conflitti sociali? Chi appoggia, insomma, questa politica? Dove sono i ragionamenti sul blocco sociale di riferimento, sulle forze sociali, dei Salvemini, dei Gramsci, degli Sturzo? Alle condizioni di fattibilità politico-sociale si dà, insomma, sufficiente attenzione?
Io mi sono chiesto successivamente quanto ci fossimo o non ci fossimo posti queste domande. E mi sono provvisoriamente risposto che un ragionamento ci fu. Ma che qualche errore deve essere stato pure commesso visto che le cose non hanno funzionato affatto come avrebbero dovuto. (L’alternativa è che l’intera strategia fosse sbagliata o che essa avesse incontrato seri problemi di attuazione. Respingo la prima tesi e accolgo in parte la seconda nel libretto Italia Frenata).
Vediamo rapidamente nemici e amici di quella politica; quale fosse il blocco favorevole e quale il blocco di opposizione.
Fra i nemici spicca chiaramente il blocco della rendita e il ceto medio parassitario. Sono decine di migliaia di soggetti, robusti e spesso influenti, che erano prosperati nei trent’anni degenerativi dell’intervento pubblico: avvocati, commercialisti, trafficanti di terreni, beneficiari delle funzioni di mediazione affidate loro da uno Stato debole; piccoli imprenditori locali, cattivi albergatori, tenuti in vita da sussidi; e anche alcuni rilevanti industriali del Nord che avevano trovato fondi per andare al Sud, trattato come “vacca da mungere”, dove costruire impianti e poi esercitare il ricatto occupazionale.
A questo blocco – relativamente coeso al proprio interno, dotato di rappresentanti nel mondo politico – si aggiunge una parte significativa del ceto (non tutto!) impiegatizio pubblico: parti significative della dirigenza pubblica centrale e regionale che vedevano nella eliminazione o nella riduzione di discrezionalità incontrollata e nell’introduzione di sistemi meritocratici, una minaccia grave al proprio potere; e quelle fasce, annidate, di perdigiorno dell’amministrazione pubblica che ricattano il sindacato del pubblico impiego.
Infine, per non dimenticare la lezione di Benedetto Croce, del blocco contrario faceva parte un gruppo di intellettuali, ristretto ma agguerrito, tecnicamente dotato, in via di rafforzamento (e oggi più robusto), che ama definirsi neoliberista, dando – ne ho scritto altrove – una lettura assolutamente distorta del liberismo americano: tesi di questo gruppo è che il rinnovamento dello Stato nel Sud è impossibile nel breve e medio termine; bisogna attendere che le imprese, attratte da incentivi automatici (la mitica fiscalità di vantaggio) si consolidino e maturino la scelta e la capacità di rinnovare lo Stato (non comprendendo essi dall’esperienza degli ultimi cinquanta anni di politica di sussidi che le imprese che scendono per sussidi premono sullo Stato… solo per altri sussidi).
Quanto agli alleati, la più grossa categoria potenziale era quella dei beneficiari dei servizi, consumatori e imprese. Ma tutti? No, solo coloro per i quali l’erogazione di un servizio collettivo è l’unico modo per avere i servizi, perché non hanno i mezzi finanziari opportuni, politici e amministrativi per procurarseli comunque; si tratti di collegamenti di trasporto, di acqua, di sanità, di istruzione, ecc.
Ma chi organizza questi interessi diffusi? Qual è la voce di questi potenziali, numerosi alleati? Allora, nel 1998 la consapevolezza della debolezza della loro voce indusse a promuoverla: nel Patto di Natale del dicembre ’98, predisposto dalla Presidenza del Consiglio, si diede a tutte le organizzazioni del “terzo settore”, rappresentative di interessi legati alla qualità del vivere, la possibilità di affiancare la loro pressione a quella delle forze rappresentative di interessi di lavoro e dell’impresa, attraverso un Forum. Non funzionò. Le associazioni, pure quelle attive nel territorio o capaci di intercettare la disponibilità all’azione sociale di molti cittadini, non credettero a quel canale, non ci misero i loro quadri migliori. E quella voce è arrivata così, in questi anni, solo attraverso l’azione di alcuni quadri, anche di gran valore, del sindacato o delle organizzazioni imprenditoriali. Ma senza influenzare in modo strategico, se non in alcuni momenti, l’azione di quelle strutture, troppo influenzate dal blocco di opposizione.
Il secondo gruppo favorevole è quello del ceto medio innovatore. Si tratta a volte di fasce specifiche, innovative appunto, di imprenditorialità locale; altre volte di soggetti che in potenza potevano “giocare” a fare sia i rentier, sia gli innovatori e, dopo aver ponderato il rischio derivante dalla nuova carta, avevano deciso di giocarla.
Tra gli alleati di questa politica c’è, infine, una terza e ultima categoria: gli intellettuali innovatori. Che fossero meridionalisti o meno, essi si convinsero che si era aperta una finestra, ritennero di avere idee, e si impegnarono ad appoggiare l’operazione.
È evidente che, se si mettono su una bilancia alleati e nemici, la bilancia è nettamente squilibrata. Provando a ragionare sulla falsariga di Galasso – questo è il senso di questo incontro – che cosa ha consentito, allora, nonostante tale equilibrio, a quella operazione di partire? Questa è la prima domanda da porsi.
La spiegazione sta nel fatto che il ceto politico nazionale, la classe dirigente allora al governo, pure avvertendo che nelle piazze, nei salotti e nel voto non c’era un consenso dominante per il nuovo progetto – tutt’altro! – ritenne che il consenso sarebbe potuto venire. Ritenne che il progetto avanzato dallo sesso statista che aveva creduto al “progetto impossibile” dell’Unione monetaria, dimostrandone la realizzabilità, potesse diventare credibile. Fu così che si determinò un appoggio forte al progetto, che ebbe nella realizzazione dell’evento di Catania, nel dicembre 1998, un momento topico. In quella occasione, infatti, con una forte accelerazione, furono approvati una nuova strategia – servizi pubblici anziché incentivi – e un nuovo metodo – trasferimenti condizionati, accordi fra livelli di governo e valutazione – che chiamammo “nuova programmazione”.
Ma quell’appoggio era fragile perché in parte costruito su un equivoco. L’equivoco stava nel pensare che i risultati sarebbero arrivati in tempi brevi. Cosa non possibile per un’operazione volta alla costruzione e al miglioramento dei servizi pubblici, attraverso una modernizzazione amministrativa. Quando, già durante il 1999, ci si accorge che non ci sono “ancora” i risultati, l’appoggio diventa immediatamente più dubbioso. Si va smorzando ancor di più di fronte alla necessità di risultati rapidi avvertita per l’approssimarsi delle scadenze elettorali.
Bisogna allora tornare a chiedersi: come sia possibile che questa politica abbia retto ancora? E poi abbia retto attraverso due successive legislature e innumerevoli governi? Per di più, in un paese dove altissima è la discontinuità delle strategie.
Ha pesato qui certamente il rampino comunitario, che riduce le possibilità, le tentazioni, di rinegoziazione. Ha pesato la relativa robustezza dei quadri, del circuito tecnico-amministrativo promosso dal progetto, e che della politica è divenuto sostenitore e garante. Ma ha pesato anche in modo decisivo la debolezza della politica. La stessa debolezza della politica che ha tolto forza al progetto ha anche impedito alla politica stessa di avanzare altre idee, di proporre un aggiustamento della strada intrapresa o un’altra strada. E così la politica, la classe dirigente al comando del governo, si è tenuta il guscio della nuova programmazione senza dargli animo e contenuto.
Il progetto è così diventato, come dissi in un confronto di alcuni anni fa proprio con Galasso, un “progetto silenzioso” dove dei risultati, positivi o negativi che fossero, degli esiti delle valutazioni diffusi pubblicamente… non si dibatteva. Il silenzio assordante del dibattito culturale e politico sulle cose, sui fatti che questa strategia ha prodotto, ha avuto conseguenze pesanti. Tre in particolare:
1. ha minato la credibilità della politica, togliendo agli innovatori potenziali la spinta a essere effettivamente innovatori anziché giocare la vecchia partita: il rischio dell’innovazione è apparso assai più alto, perché il premio a bene operare è apparso incerto. Il messaggio, implicito o esplicito, della politica è stato: «i soldi sono molti e speriamo di riuscirli a usare bene… ma non ne siamo così certi» e questo messaggio pavido ha scoraggiato e mortificato gli innovatori.
2. non ha scavato terra sotto ai piedi dei rent-seekers che, abili come sempre, si esercitavano in pratiche da camaleonte: cambiare pelle, cambiare linguaggio per non cambiare nulla. Si parla di progetti integrati e loro montano “progetti integrati”; si parla di “progetti territoriali” e loro montano “progetti territoriali”; bisogna usare la parola bonus fiscale e loro la usano. L’adattamento di linguaggio è stato straordinario, e questo era prevedibile, ma per smascherarli occorreva attenzione e dibattito culturale e politico sui risultati. Che non c’è stato.
3. ha consolidato la rinunzia a trattare la Questione Sud come questione strategica nazionale, e ciò ha impedito anche di discutere le debolezze, gli errori che il circuito tecnico-amministrativo andava compiendo.
I risultati della politica di questi anni, della “nuova programmazione” e delle azioni che avrebbero dovuto accompagnarla – liberalizzazione del mercato dei servizi e più stretto legame di salari e retribuzioni ai risultati aziendali (come il documento di avvio della nuova programmazione chiedeva) – sono certamente inferiori a quelli auspicati e ritenuti possibili nel 1998. In termini macroeconomici assai inferiori. (Rinvio di nuovo a Italia frenata per un quadro). Ma il fatto stesso che oggi lo si possa dire – non solo con riguardo a un dato aggregato, di crescita, ma con riferimento articolato alla qualità di singoli servizi e all’efficienza dell’amministrazione – dipende dalla novità assoluta di quel progetto: il metodo di fissare obiettivi, anche relativi ai risultati finali (le cosiddette “variabili di rottura”), di monitorarne e renderne pubblica la realizzazione o mancata realizzazione, di dare conto degli esiti e, in alcuni casi, di sanzionare o premiare i comportamenti.
Proprio il fatto di non aver saputo sfruttare a livello politico questa novità, ha contribuito in modo rilevante ai mancati risultati.
L’amarezza maggiore – sì, ce ne sono state – di questi anni l’ho provata quando abbiamo misurato un risultato, lo abbiamo con fatica “messo sul tavolo” – anche e soprattutto quando il risultato era negativo – ma nessuno lo ha usato. Non lo hanno usato l’opposizione, il Parlamento, la stampa.
Si pensi, ad esempio, al primo progetto avviato nel 1998, quello cosiddetto dei «completamenti».
L’allora Ministro del Tesoro suggerì che, prima di fare nuove opere, si completassero quelle incomplete esistenti, di cui il Sud era pieno. Individuammo allora circa 1.000 opere da completare, le mettemmo in gara, ne selezionammo, se ricordo, circa 300, sulla base di una valutazione ex ante che esaminava l’attualità del servizio che ne sarebbe disceso, il costo dell’opera già realizzata (in relazione alla spesa per il suo completamento), etc. Bene, non solo, come è doveroso – come è il minimo che si debba fare ma non è spesso fatto nel nostro paese – ne sono state monitorate l’attuazione, i tempi, l’effettiva realizzazione, ma nel 2006 si è esaminato se i servizi che quei completamenti dovevano dare (l’erogazione dell’acqua, l’istruzione di qualità, il trasporto, etc.) fossero effettivamente erogati a seguito del completamento. L’esito della verifica è stato di grande interesse. È risultato che attorno al 95 per cento dei fondi effettivamente spesi – alcune opere di completamento si erano rivelate non realizzabili e i fondi erano stati stornati – aveva prodotto, in termini di servizio, il risultato programmato; ma che in alcuni casi, ben individuati, ciò non era avvenuto. L’esito è stato reso pubblico (lo è ancora, sul sito web del Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione) e le Amministrazioni responsabili dei casi di insuccesso sono state sanzionate dal Cipe con un taglio finanziario nelle erogazioni successive. Misurazione, sanzioni, pubblicità… ma nulla è successo sul terreno del confronto politico. Di quei casi non si è parlato. I politici incapaci non hanno pagato – sul mercato politico – il costo dei propri errori.
E si pensi, ancora, a livello macroeconomico, al fatto che a metà del periodo di programmazione 2000-2006 l’Italia ha formalmente chiesto all’Unione europea di rivedere al ribasso la misura in cui i trasferimenti comunitari concorrevano effettivamente a incrementare la spesa in conto capitale, non meramente a sostituire fondi nazionali lasciando l’ammontare di spesa in conto capitale invariato. E ha chiesto di farlo a causa dei vincoli di bilancio. Tutto noto, misurato, scritto in atti formali… ma che mai ha investito il dibattito politico e culturale. Dove si è continuato a parlare – ignorando i dati – di «troppe risorse finanziarie al Sud»! Quando invece negli anni di attuazione della politica la quota della spesa in conto capitale destinata al Sud è rimasta invariata e – complice l’entità di fondi destinata a incentivi alle imprese, ridotta, ma non quanto ci si era prefissi – per ogni cittadino del Sud si spende ancora ogni anno in investimenti pubblici meno di quanto si spenda nello stesso anno per ogni cittadino del Centro-Nord.
Il messaggio di tutto ciò pare a me chiaro e univoco. Solo da una ripresa di un confronto politico e culturale fondato sui dati e sulle informazioni che abbiamo; solo da un coinvolgimento dei cittadini, territorio per territorio, nel giudizio sui propri amministratori fondato sugli esiti (ora misurati!) del loro operato in termini di qualità dei servizi; solo da una “gara positiva fra territori” misurata sulla qualità dei beni pubblici locali prodotti: solo da ciò può tornare una spinta al cambiamento. Gli strumenti esistono. Gli “obiettivi di servizio” sono stati fissati, ossia i meccanismi di premio/sanzione sono stati estesi al conseguimento di dati livelli di servizio (in termini di competenza degli studenti, di tasso di frequenza della scuola di infanzia, di raccolta differenziata dei rifiuti, etc.). Altri cambiamenti sono stati introdotti per adattare la politica di “nuova programmazione” alle lezioni apprese. Si tratta di dare loro visione politica; di mobilitare attorno a essi gli innovatori contro i rentier. Vedremo se se ne avrà la forza e il coraggio.
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