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La storia e la comunicazione*
di Giuseppe Laterza
Ringrazio l’Istituto Suor Orsola Benincasa, Giuseppe Galasso e Vittoria Fiorelli per avermi invitato a partecipare a questa tavola rotonda. Il tema che ci si propone di trattare è molto ampio ed è difficile affrontarlo in maniera rigorosa e al tempo stesso sintetica. Non avendo io le competenze specialistiche degli altri relatori, immagino di essere chiamato a parlare del modo in cui la storia può essere comunicata, e in particolare del modo in cui questo accade attraverso la forma libro.
Vorrei partire dalla introduzione di Vittoria Fiorelli e dal cenno che si è fatto al rischio cui si espone la storia nel momento in cui si dedica una «attenzione esasperata al consumatore-lettore».
Comprendo questa preoccupazione, ma dal mio punto di vista di editore librario credo che qualche rischio, per così dire, la storia abbia convenienza a correrlo.
Il compito di un editore è certamente quello di pubblicare i migliori risultati della ricerca storica, ma tuttavia esso non può limitarsi a questo. Parte essenziale del nostro lavoro è portare quei risultati a conoscenza di un pubblico più ampio possibile. In termini concreti, significa cooperare con l’autore affinché la sua ricerca si trasformi in una conoscenza pubblica e condivisa.
Che il bisogno di storia ci sia e investa un pubblico assai ampio lo testimoniano la grande diffusione non solo dei libri di storia (per non parlare dei romanzi storici o dei film di carattere storico), ma anche il successo di eventi che vedono coinvolti gli storici, come è accaduto in occasione delle "lezioni di storia" tenute all’Auditorium di Roma. Molti dei relatori delle lezioni che abbiamo organizzato sono rimasti molto (e piacevolmente) stupiti nel vedere migliaia di persone mettersi in fila dalle ore 7 della domenica mattina per conquistarsi il posto in sala.
E’ mia convinzione che esista un notevole divario tra il bisogno di storia oggi in Italia (comunque lo si misuri) e la volontà e la capacità degli storici di dare a questo bisogno risposte adeguate. Gli storici di professione non possono naturalmente rispondere da soli a questo bisogno. Ma possono tenerne conto nel loro lavoro. Non farlo significa lasciare vuoto uno spazio che sarà occupato da altre figure professionali, ad esempio dai giornalisti, capaci di raccontare la storia in maniera accattivante e di affrontare temi controversi in maniera non paludata, anche se spesso non rigorosa e raramente problematica e approfondita.
Quando alcuni storici lamentano che i libri recentemente pubblicati da Giampaolo Pansa abbiano avuto così grande fortuna nonostante gli episodi di cui trattano fossero già noti, dimenticano di specificare a chi e a quanti fossero noti quegli episodi. Il punto è che Pansa costruisce i suoi libri per comunicare qualcosa al grande pubblico e, da questo punto di vista, raggiunge il suo scopo.
Che parte ha il lettore non professionista nella costruzione di un libro di uno storico? Quanto la qualità della sua scrittura si modifica per risuonare nella mente del lettore?
La mia esperienza mi dice che il lettore non specialista è del tutto assente dall’orizzonte dello storico nella maggior parte dei casi. Lo stile, la costruzione del testo sono spesso faticosi, entrambi tarati sulle esigenze dei colleghi e adatti a riviste specialistiche. Non è strano perciò che i libri di storia così concepiti (con pochissime eccezioni) vendano un decimo - se va bene - dei corrispettivi scritti da giornalisti. Questo dato potrebbe anche lasciarci indifferenti se non avesse come ricaduta il fatto che la stragrande maggioranza dei nostri concittadini adulti rischia di avvicinarsi alla storia del nostro paese e del mondo senza aver appreso il metodo della lettura critica propria dello storico.
Come è evidente, non stiamo disquisendo di una mera questione editoriale, ma di qualcosa che ha una rilevanza civile in quanto investe le basi su cui l’Italia di oggi e di domani costruisce la sua memoria e la sua comprensione delle cose del mondo.
Assai spesso sento obiettare che la divulgazione espone il lavoro dello storico alla strumentalizzazione dei media, i quali enfatizzano, radicalizzano le sue idee e danno vita a polemiche artificiose. Succede alle volte. Ma nella maggior parte dei casi si ha un sostanziale rispetto del pensiero dell’autore.
Certo ogni strumento ha le sue peculiarità: non si può chiedere a un quotidiano (e men che meno a un programma televisivo) di restituire, nello spazio di cui dispone, tutta la complessità del libro. I mass media si rivolgono a un pubblico molto ampio, dieci o magari cento volte più numeroso di quello dei lettori di un libro di storia, e questo pone limiti severi sia al giornalista sia al recensore. In alcuni casi - ad esempio su alcuni grandi giornali popolari europei - la questione viene risolta a monte non discutendo proprio libri a carattere scientifico. Da noi, per fortuna, questo non avviene. Anzi, accade di persino che grandi quotidiani nazionali recensiscano con grande rilievo anche opere di giovani ricercatori.
Recentemente, per fare solo qualche esempio tratto dal nostro catalogo, “la Repubblica” ha dedicato la copertina delle pagine della cultura a un volume sulla marcia su Roma scritto da Giulia Albanese e altrettanto ha fatto “Il Corriere della Sera” con il libro di Eva Cecchinato sui garibaldini. Si tratta di un risultato essenziale per la diffusione della ricerca, ma non scontato. Esso ha richiesto un gran lavoro di cooperazione dell’autore con ogni settore della casa editrice, affinché non fosse trascurato alcun elemento importante ai fini di una buona comunicazione: la struttura del libro e la sua qualità di scrittura, il titolo, l’immagine di copertina e la bandella, il prezzo e la scelta della collana. Infine, la presentazione dell’opera ai media. Non è semplice comunicare l’informazione sull’originalità del libro e l’attrattiva dal punto di vista dei lettori del giornale (o - se vogliamo - di chi fa il giornale, che a sua volta ha i suoi gusti, le sue preferenze, le sue idiosincrasie). Altrettanto, e forse più difficile, è restituire tutto questo in un articolo.
Compito dell’editore è proprio quello di trovare con il giornale il punto di equilibrio tra la necessità di rendere il libro attraente e il dovere di non tradirne i contenuti.
Non sempre ci si riesce e tuttavia se la comunicazione comporta per la storia un rischio, io credo che questo sia da correre a vantaggio della storia stessa, degli storici e dei cittadini-lettori. Credo sia un rischio da correre se non vogliamo che il sapere storico resti confinato nei circuiti ristretti dello specialismo, fuori dal dibattito pubblico. Che, come si sa, è un ingrediente essenziale della democrazia.
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