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Storie “chiuse” e storie “aperte”. Appunti per una discussione
di Massimo Mastrogregori
Anch’io esordisco con dei ringraziamenti non rituali, perché noto che intorno a questa tavola rotonda si è creata un’atmosfera molto simpatica. Questo è sicuramente merito degli organizzatori, del professor Galasso e di Vittoria Fiorelli. Inoltre, ringrazio anche perché mi sembra che questa sia una vera discussione, cosa rarissima. Ci sono temi della relazione di Vittoria Fiorelli che sono stati ripresi da Edoardo Tortarolo, a mia volta riprenderò alcuni temi delle loro relazioni e, quindi, c’è da discutere: allora discutiamo.
La prima cosa su cui richiamerei la vostra attenzione è una situazione, apparentemente paradossale, che si è creata. Nella locandina che presenta questa iniziativa si legge che “la storia sta attraversando un periodo di grande difficoltà”. Questa è una cosa che ciascuno di noi sente, ma dov’è il paradosso? È nel fatto che noi siamo inondati di scritti di storia. Se avessimo detto le stesse cose, che la storia è in difficoltà, al tempo di Gregorio di Tours, non ci sarebbe stato niente di strano: saremmo stati immediatamente tutti d’accordo. Ma dire che oggi c’è una crisi, che la storia è in grande difficoltà, - quando poi osservate il gran lavoro che si svolge, se entrate in una biblioteca, aprite una bibliografia, contate il numero delle riviste storiche e le aprite, anche solo i sommari, - dire questo, significa dover spiegare la strana sensazione che abbiamo, la percezione di un momento di crisi, a fronte di un lavoro enorme che viene fatto e di centinaia, di migliaia di persone che lavorano nel campo storico.
Voglio ricordare anche un'esperienza personale. Dirigo una redazione di circa venti persone che ogni anno deve riunire in un grosso volume verde, stampato dall’editore de Gruyter di Berlino, i migliori lavori di storia, - che vengono pubblicati ogni anno, in tutte le lingue, in tutti i luoghi, - di tutti i paesi e tutti i periodi storici (è la International bibliography of historical sciences, il primo volume è uscito nel 1930, la redazione da me diretta se ne occupa dal 1998). Un lavoro micidiale. Da questo osservatorio, di fronte a una quantità stimabile in settanta, ottanta mila tra libri e testi vari, dobbiamo trarne settemila, come se compilassimo una classifica. Voi capite che quando sento dire che la storia sta incontrando delle difficoltà, penso: meno male, perché chissà altrimenti che cosa succederebbe!
Cerchiamo, però, di riflettere un po’ su questo paradosso. C’è molta storia, ma c’è la percezione che non ce ne sia proprio, che quella che c’è, non sia veramente quello che dovrebbe essere. Esiste un ideale della storia: abbiamo, di fronte agli occhi e nella mente, un ideale di storia e sono i maestri che ce lo hanno insegnato. Grandi maestri lontani, come Croce, o come Bloch. Croce, ad esempio, ne La storia come pensiero e come azione, sostiene che la maggior parte delle storie che si trovano nelle biblioteche non sono vere storie, ma storie di partito, tendenziose, a tesi. Bloch scrive più di mille recensioni di libri e, alla fine, qual è il senso che si può trarre dal corpus dei suoi lavori critici: “guardate che questa non è storia, ci vorrebbe dell’altro!”. Allora ci dobbiamo fermare un momento su questo sentire comune, su questa lezione dei maestri lontani. Tutti chiediamo qualcos’altro alla storia. Tutti vorremmo qualche altra cosa, tutti siamo esigenti su questo punto. E che cosa vorremmo, in fondo? Per rispondere a questa domanda ci avviciniamo a quel regno delle cose ultime o penultime (come nel libro di Siegfried Kracauer, Prima delle cose ultime).
Il regno della storia è quello delle cose penultime. I nostri maestri ci hanno insegnato che bisogna essere così esigenti, perché vorremmo la storia come modello di comportamento, di conoscenza, nel quale si ragiona, si esita, si sperimentano le fonti, si guarda il documento, si riflette, si pongono problemi, si è sobri e si cerca sempre, si continua a cercare. Noi vorremmo che questo modello dilagasse nella società. In fondo, questo è quello che vorremmo. Vittoria Fiorelli parlava poco fa di vocazione civile della ricerca: noi vorremmo che l’atteggiamento proprio dello storico, rispettoso di ciò che è altro distante e estraneo, e insieme appassionato, interessato - vorremmo che questo diventasse lo stile democratico, perché, in fondo, la democrazia dovrebbe essere questo. Poi, però, ci guardiamo intorno e vediamo che la battaglia politica è sempre già in atto e, quindi, quello che possiamo osservare è tutt’altro da quello che vorremmo.
Lo spazio storico e lo spazio politico, se possiamo definire così questi due “ambienti”, - l’uno creato dallo stile “dialogante” della storia, l’altro dalle necessità di una lotta senza esclusione di colpi - restano diversi, irriducibilmente. Lo spazio politico non diventa praticamente mai spazio storico, in questo senso.
Lo spazio politico, quello in cui si lotta per il potere, e dove lo si esercita, una volta conquistato: di cosa c’è bisogno in questo spazio? Dell'informazione emotiva. A questo proposito, ho trovato alcune schede, nel mio piccolo archivio personale: c’è un intervista di Eugenio Scalfari, di anni fa, con Minoli, in cui dice: “Berlusconi ed io abbiamo in comune questo, che l’informazione deve essere per noi emotiva”. Forse questo si può chiamare anche propaganda.
Di cosa c’è bisogno in questo spazio? C’è bisogno di un giornalismo che sappia orientare le notizie, c’è bisogno di un linguaggio fittizio, artificioso, di simboli ripetuti, di opere-simbolo, di parole-simbolo: in breve, c’è bisogno di persuasione, di illusionismo. C’è bisogno di storie “chiuse”: le storie non confutabili di cui parlava, poco fa, Vittoria Fiorelli.
Arriviamo a una conclusione quasi ovvia, qualcosa che si sa da molto tempo. La logica dello spazio politico e quella dello spazio storico sono diverse. La logica della storia “chiusa” non interessa tanto gli storici. Però tutto ciò ci costringe a pensare e a chiederci quale sia la logica, allora, dello spazio storico. I nostri maestri, per tornare a Croce, credevano di saperlo bene, in effetti lo sapevano. Croce, quando scrive nel 1938 La storia come pensiero e come azione è sicuro di che cos’è la storia: è il giudizio, è il pensiero del reale. Però esclude tutto ciò che dal giudizio e dal pensiero poi va alla società, si disinteressa della comunicazione e della dimensione sociale. Il pensatore resta isolato, è come una luce isolata nel buio circostante. Questa luce, poi, magari a distanza di secoli, verrà ripresa, diffusa. È una luce di verità. Come definisce Croce il libro di storia? “Oro avvolto in iscorie”, pensiero rozzo e trasandato, povero nell’informazione, cosparso di leggende e di favole, “freddo, difficile, faticoso o anche...noioso”. Vedete, tutto ciò che è attraente, ciò che potrebbe comunicare il passato, è lasciato nell’ombra, in questa dimensione in cui domina il pensiero del reale.
Su questa diversità radicale, molto fondata, tra lo spazio politico e quello storico, si potrebbe chiudere il discorso e noi ce ne potremmo andare tutti: sciogliere questa riunione. Però, la realtà che osserviamo, guardandoci intorno, è quella di una continua confusione dei piani. I due spazi si sovrappongono, si confondono e quindi è ancora presto per chiudere questo discorso. Dobbiamo cercare ancora.
Nell’archivio privato, di cui parlavo prima, ho trovato anche una discussione che mi sembra piuttosto pertinente. È una discussione tra uno storico accademico e un giornalista, entrambi torinesi, Brunello Mantelli e Alberto Papuzzi. Nel 2001, sulle pagine della “Stampa”, si cominciò a parlare con enfasi, come si fa di solito sui giornali, di Cefalonia e degli internati militari, degli eventi tragici dell’otto settembre e del seguito, della memoria della resistenza militare. Papuzzi scrive un articolo in cui parla di pagine bianche della nostra storia, pagine inesplorate; Mantelli scrive allora un messaggio di posta elettronica (il colloquio epistolare tra i due fu reso pubblico sulla lista della società di storici contemporaneisti, la Sissco). Dice Mantelli: no, un momento, guardate che su Cefalonia e gli internati, gli internati militari italiani, c’è un sacco di bibliografia. Noi storici abbiamo studiato le fonti. Queste cose si sanno. Siete voi giornalisti che non le sapete. Non potete dire pagine inesplorate. Papuzzi, allora, risponde a stretto giro, siamo nel marzo 2001: il punto di vista giornalistico – dice chiaro e tondo – è politico: il giornalismo è specchio della società, va a rimorchio di ciò che accade nella società. Queste “pagine” su Cefalonia e sugli internati, che siano le cose o gli scritti sulle cose, sono pagine dimenticate, non ci sono nella memoria collettiva. Mantelli replica che no, sono i politici e la grande stampa che le ignorano.
La discussione poi prosegue, arrivando a questo punto: Papuzzi sostiene che i giornalisti sono “a rimorchio” di ciò che accade nella società. Nella società non accade che il tema di Cefalonia sia sollevato quando lo sollevano gli storici. Nella società accade che il tema di Cefalonia sia sollevato quando lo sollevano i politici e i giornalisti vanno a rimorchio. Semmai – aggiunge Papuzzi – la colpa è di quegli storici che scrivono sui giornali, i quali non sanno o non vogliono sollevare i temi e le cose, che sono a loro conoscenza e di cui registrano l’assenza nella memoria collettiva e nelle discussioni del presente.
Tanto la recriminazione di Mantelli (voi giornalisti siete ignoranti e i politici che vi ispirano sono in malafede), quanto la difesa/accusa di Papuzzi (siete voi storici che quando scrivete sui giornali, come intellettuali esperti, queste cose non le sapete o non le volete raccontare), entrambe le considerazioni presuppongono la confusione dei piani, cioè che lo spazio storico possa “invadere” beneficamente quello politico, che gli storici possano entrare nello spazio politico, e che i politici possano mettersi a discutere con equilibrio, come se fossero storici. Insomma i due “spazi” non sarebbero cose incompatibili.
Esiste una saldatura di fatto tra la comunicazione politica e la storia. Torniamo, così, al problema su cui ci eravamo fermati, che stavamo sviscerando. Vanno considerati almeno due aspetti. C’è una dimensione profonda, essenziale, legata alla natura della storiografia e c’è una dimensione operativa, organizzativa degli studi e del comportamento degli studiosi. Adesso mi fermo sulla prima, mentre parlerò alla fine della seconda.
Qual è la difficoltà legata alla natura della storiografia? Ho l’impressione che, su questo punto, resista la definizione che ne diede Benedetto Croce nel 1893, un sacco di tempo fa: “la storia è rappresentazione del reale”. Che sia in libri e articoli eruditi, in lezioni all’auditorium, in immagini o in articoli di giornali, la storia rappresenta il reale. Le cose che accadono, o sono accadute, diventano cose che si scrivono, che si mettono in scena o che si fanno vedere; diventano, insomma, cose che si rappresentano. Qui è il passaggio, su cui vi invitavo a riflettere, tra la storia pensata e la storia comunicata. Ecco che nella dimensione della rappresentazione c’è la riflessione su questo aspetto del “mettere in scena”. Tali rappresentazioni non sono tutte uguali. La differenza sta nel rapporto -, che può essere molto diverso, nelle diverse forme di rappresentazione, - con le cose accadute al di là delle parole; e a questo proposito vedrei almeno due possibilità.
Ci sono le storie “chiuse”: per farvi capire cosa intendo, quali siano le storie chiuse, voglio leggervi un brano, tratto da un bel libro del 2001, Senior service, scritto da Carlo Feltrinelli sulla vita di suo padre Giangiacomo, l’editore. Per noi Feltrinelli è una libreria, un posto dove si comunica il sapere laico, ma Feltrinelli era anche una persona che, oltre ad aver dato vita a questa industria di diffusione del sapere, era anche un militante politico, che a un certo momento entrò in clandestinità per un progetto rivoluzionario e morì cercando di minare un traliccio. Le circostanze di questa morte non sono chiare e allora ascoltate il discorso delle storie chiuse. Scrive Carlo Feltrinelli, alla fine del libro:
Il padre è il padre e io sono il figlio. Quello che è rimasto è rimasto. Mi ha avvertito che il crepacuore scandisce la vita senza preavviso, ma non l’ho visto invecchiare con il “compromesso storico” o una cataratta bilaterale. L’esplosione avvenne per un movimento brusco in cima alla trave, la tela della tasca che preme sulla calotta dell’orologio, il perno che fa contatto? Oppure qualcuno preparò il timer con i minuti al posto delle ore?
La risposta servirebbe a chiudere la storia. Non vale a stabilire ciò che conta veramente.

Le storie chiuse sono quelle in cui il racconto è ordinato, è bloccato, è predeterminato, non è reversibile, non è scomponibile. Naturalmente, quindi, le strade chiuse sono quelle che nutrono la propaganda, la pubblicità, l’intrattenimento, la conquista dell’attenzione momentanea. Per conquistare quell'attenzione, ci vuole la storia chiusa. Naturalmente le storie chiuse non si presentano come tali, ma si presentano come storie “aperte”, mentre, a volte, a quelle aperte si rimprovera di essere chiuse. Quando leggiamo, sul “Foglio” del 15 novembre 2007, della polemica sulle lezioni di storia all’auditorium di Roma, con Massimo Teodori che parla di “spartito scontato” e cioè di un programma orientato per quelle lezioni, la replica degli organizzatori e dell’editore Laterza, qui presente, è proprio quella di dire “no! il nostro programma non è chiuso. Il nostro è un programma storico, aperto” (“Corriere della sera”, 16 novembre 2007).
Per capire meglio che cosa effettivamente sia una storia chiusa vorrei aggiungere un altro aspetto della questione. Nella storia chiusa, il passato si presenta come puro linguaggio. Le cose sono scomparse. Ci sono immagini, ci sono simboli, ci sono icone. Il linguaggio è utilizzato in modo autarchico. Autarchico: avrete visto, forse, il film Fascisti su Marte, di Corrado Guzzanti. E’ una presa in giro del fascismo, è una caricatura continua. Al di là dello scherzo, c’è un contenuto più succoso, forse: il passato caricaturale dei fascisti finiti su Marte, “pianeta rosso, bolscevico e traditor”, che diventa puro linguaggio. Il fascismo non c’è più, c’è il fascistese, c’è una lingua. In questa lingua, vediamo un esempio concreto, i numeri romani, il segno che sta per ottavo, non è più un numerale ordinale, non rappresenta un certo ordine delle cose, perché le cose non ci sono: è solo un suono, infatti lo leggono “viii”. L’espressione “siamo da capo a dodici”, con il dodici numero romano, diventa “siamo da capo a “icsii”. Il fascismo è scomparso, c’è solo il fascistese. Il film è una riflessione, se non mi sbaglio, su questa sottrazione delle cose, sulla sottrazione del passato, che lascia il posto al linguaggio.
Per tornare sulla distinzione tra storie chiuse e aperte, se la storia fosse teatro, per farvi capire, la storia chiusa sarebbe uno spettacolo che si può solo guardare. La storia aperta, invece, è uno spettacolo in cui tu devi salire sul palcoscenico, e sul palcoscenico provare le battute, discutere con gli attori, rivedere il copione e devi assistere per molto tempo alle prove: in un certo senso, devi partecipare. Forse è questo quello che Croce intendeva quando diceva che il lettore deve “rivivere in sé” la storia. Purtroppo la storia non si rivive davvero in modo momentaneo, come un’emozione. È qualcosa di un po’ diverso dallo stare a guardare uno spettacolo. Il problema di fondo, quindi, è quello della rappresentazione, delle possibilità di rappresentazione e del rivivere la rappresentazione. Una cosa è ascoltare un pezzo musicale: un’altra cosa è leggere una partitura, un’altra ancora eseguire la partitura, suonare. La storia aperta è una partitura che ci si dovrebbe sforzare di suonare, o almeno di leggere sullo spartito: non è una cosa che si può ascoltare passivamente. È molto diverso: molto più impegnativo.
Affronto un momento, per concludere, l’altro problema cui accennavo, quello organizzativo e operativo. Di fronte a questo panorama, mentre lo spazio politico e quello storico si confondono inestricabilmente, cosa fanno gli storici? Se si può semplificare e generalizzare – che sono cose un po' rischiose, vi prego di perdonarmi! –, gli storici resistono a forme di organizzazione dei loro discorsi in questo ambito. Gli storici non fanno molto per organizzare la fruizione delle storie aperte, come se fossero spettacoli di teatro in cui si va sul palcoscenico, o almeno si cerca di assistere alle prove. C’è una certa anarchia su questo punto e c’è anche quell'enorme produzione di scritti di storia, che non facilita le cose per i lettori. Si scrive molto, ma si legge difficilmente, anche per il semplice fatto che si scrive molto. Il problema però non è l’abbondanza di scritti di storia, ma il modo in cui ci si pone di solito di fronte ad essi, il tempo che si è disposti a dedicare a una rappresentazione, che l’autore ha composto in lunghi mesi o anni di lavoro.
Quindi, per tornare, in conclusione, sul paradosso iniziale: perché c’è molto, nel campo della storia, e ci sembra che non ci sia l’essenziale? Perché c’è molto e ci sembra che non ci sia la storia vera? Perché se è vero che ci sono storie solo “chiuse”, - e spero di esser riuscito a suggerirvi di che si tratta, - forse è anche vero che non ci sono storie solo "aperte" e che c’è una dialettica reale di apertura e di chiusura, un rapporto delle cose, con il linguaggio in cui si rappresentano le cose. Questa dialettica reale agita dall’interno il nostro lavoro, mentre sullo sfondo, o davanti a noi come un orizzonte, c’è una storia ideale, sempre “aperta”, sempre in discussione, sempre compresa e rivissuta dai lettori.
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