Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno IX - n. 2 > Saggi > Pag. 122
 
 
La crisi italiana dell’opinione pubblica
di Gian Luigi Capurso
1. Premessa
Il governo era certamente determinato. Ma come sarebbe mai stato possibile resistere a tanto insulto se la gente avesse chinato il capo, se un’opinione pubblica indomabile non avesse quotidianamente alimentato la resistenza con la stoica sopportazione delle sue sofferenze e la testarda volontà di rivincita, anche nei momenti più bui? Eroi, questa è la parola.

Così ricordava Winston Churchill1 riandando, a ciglio asciutto e a guerra conclusa, ai giorni della battaglia d’Inghilterra. Il 7 settembre del 1940 trecento bombardieri tedeschi sferrarono il primo devasatante attacco su Londra. Fino al 3 novembre, per 57 giorni e 57 notti, non ci fu un attimo di respiro. Poi cominciò il martirio delle V1, mezzi aerei senza pilota, imbottiti con una tonnellata di esplosivo. Ne caddero 2 mila 500 su Londra, oltre 3 mila su altre zone dell’Inghilterra. Finite le V1, cominciarono le V2: oltre mille. Sette milioni di londinesi, all’epoca il più grande agglomerato urbano del mondo, vissero la loro tragedia. «O la loro epopea», aggiunge lo storico Roberto Battaglia. Che rievoca quei momenti: «Una vita assurda e allucinante, le buie giornate invernali scandite dai continui allarmi diurni, le lunghe notti dilatate e rese interminabili dalle profonde esplosioni, dal tremare della terra sconvolta fin nelle viscere dai bombardamenti, illuminate dagli incendi. E all’alba una Londra sempre diversa, interi quartieri spazzati via»2.
Il governo continuò a fare la sua parte, il Parlamento a riunirsi regolarmente, l’amministrazione ad annodare i fili della vita pubblica, la Raf non smise mai di opporre gli Spitfire e gli Hurricane ai Messerschmitt tedeschi. Ma tutto sarebbe stato inutile se milioni di persone ogni mattina non avessero continuato ad andare, con i mezzi di trasporto possibili, nelle fabbriche più o meno colpite, se avessero indebolito la loro testarda volontà di non mollare, se gli immensi e poveri sobborghi privi di protezione antiaerea non avessero tenuto duro.
La bomba caduta a Peckman – racconta Churchill nella sue Memorie – aveva completamente distrutto venti o trenta casette a tre piani e aperto un considerevole spiazzo in quel quartiere di povera gente. Ma già commoventi bandierine britanniche erano state piantate sulle macerie (…) Quando risalimmo in macchina un umore si diffuse tra quella misera folla: rispondiamogli a tono, gridavano, che anche i tedeschi provino queste cose3!
.
E’ efficace, questa descrizione del comportamento dell’opinione pubblica inglese, in quel frangente cruciale. Un’opinione pubblica così salda e potente da poter interagire efficacemente con la classe dirigente, e da contribuire in modo persino determinante ad una vittoria a sua volta decisiva. Perché con la battaglia d’Inghilterra si esaurì la spinta espansiva nazista, in attesa che a Stalingrado se ne determinasse la sconfitta, e in Normandia se ne accelerassero gli esiti.
Trentotto anni dopo, nel 1978, l’Italia attraversava il momento forse più difficile della sua storia post-bellica. C’era stato il periodo delle stragi, da piazza Fontana all’Italicus a piazza della Loggia, e ad esso si era saldato quasi senza soluzione di continuità il periodo del terrorismo brigatista, rosso e nero, che dalle gambizzazioni era passato agli assassinii. In quel ’78 non c’era quasi giorno che non si macchiasse di sangue, di politici e di economisti, di giornalisti e di sindacalisti, di imprenditori e di semplici cittadini, di forze dell’ordine e di docenti universitari.
La situazione economica poi era terribile. Si succedevano le svalutazioni competitive della lira nel tentativo di dare sollievo ad una bilancia dei pagamenti che restava tuttavia in un passivo vicino al crack. In compenso quelle stesse svalutazioni, e più ancora una spesa pubblica che aveva divorato l’avanzo primario per attingere esclusivamente nella voragine del disavanzo scaricato automaticamente sul debito, spingevano l’inflazione al 22 per cento. Il prodotto nazionale lordo aveva segno negativo (meno 4 per cento nel ’76), e solo a prezzo di continui e sempre più pesanti sacrifici riusciva a tornare in positivo. Gli investimenti, già ridotti a zero, si erano trasformati in disinvestimenti. L’autofinanziamento era sotto lo zero, il che vuol dire che si vendevano i mobili di casa per comprare da mangiare. La disoccupazione era al 14 per cento e quella giovanile, considerando anche i ragazzi parcheggiati nelle università per mancanza di sbocchi lavorativi, raggiungeva il 25. Giulio Andreotti ebbe a dire che le riserve valutarie avrebbero consentito allo Stato, se messo alla prova, «non più di un giorno di attività» prima della bancarotta4.
Quanto alla vita politica, le ultime elezioni politiche (20 giugno 1976) avevano visto i tre quarti dei voti divisi tra due partiti, entrambi in crescita: la Dc al 38,7 per cento, il Pci al 34,4. Alla ricerca di una via d’uscita i due leader, Moro e Berlinguer, ebbero parole quasi identiche. «Le cose – sostenne Moro – sono tanto fragili che un’opposizione a fondo, da chiunque condotta, andrebbe al di là della normale dialettica e porterebbe il Paese alla rovina». «Il Paese – gli fece eco Berlinguer – nella sua fase attuale non è in grado di sopportare che uno dei due grandi partiti si schieri all’opposizione. Il quadro democratico si romperebbe»5.
Fu così che si tentò la “solidarietà nazionale”. Ma – e siamo al punto che qui più ci interessa – non si manifestò un’opinione pubblica a sostegno del progetto. Anzi, due “opinioni private”, settoriali, particolari, in conflitto tra loro contribuirono potentemente a provocarne il fallimento. Disse Giorgio Napolitano:
Non ci possiamo nascondere che esistono nelle nostre file, tra i nostri compagni, tra i lavoratori che ci seguono, resistenze pesanti. Esse nascono da residui di una vecchia politica di tipo oppositorio, negativo e protestatario. Se non facciamo i conti con queste resistenze e con questi residui la nostra linea non può andare avanti6.

Quanto alla Dc, Moro ne aveva ricacciato indietro le negatività, ma queste non erano affatto vinte7. Non si trattava tanto di questa o quella corrente, di questo o quel gruppo di pressione. Si trattava della società cattolica che da trent’anni era stata allenata all’opposizione di rottura col Pci, e che su quelle posizioni era tenuta dai propri intimi convincimenti (oltre che persino da Paolo VI, pure sensibile alle necessità “alte” della politica italiana, e oltre che dagli alleati occidentali, primi fra tutti gli Usa8).
Da queste due opinioni private contrapposte, quella che si rifaceva al modello socialista e quella che difendeva il modello cattolico, non riuscì ad enuclearsi un’opinione pubblica favorevole alla solidarietà nazionale (figuriamoci poi al compromesso storico che della solidarietà nazionale stava sullo sfondo).
Ma neppure prese corpo un’opinione pubblica contraria all’operazione.
Il fatto è che non si pronunciò nessuna opinione pubblica, l’accordo Moro-Berlinguer rimase senza riscontro nella società complessiva, e fallì perché due opinioni private agirono separamente, senza interfacciarsi tra loro ma solo con la parte di società politica di cui erano emanazione. Forse, se ci fosse stato un po’ di tempo, forse se si fosse potuto spiegare, forse se si fosse raggiunto qualche primo risultato concreto… Forse. Ma Moro fu ucciso, e Berlinguer rinunciò a fare politica rifugiandosi in un vago, impalpabile solidarismo terzomondista.
Che cos’è dunque questa opinione pubblica in grado di influire così efficacemente nella vita politica e sociale, che con la sua forte presenza sostiene un processo storico, e con la sua assenza contribuisce ad affossare un progetto politico? Che cos’è, come si forma, come agisce? Sociologia e politologia si interrogano da almeno un secolo sulla risposta possibile, e qualche passo avanti, seppure non definitivo, lo hanno compiuto. Sarebbe fuori luogo, in questa sede che ha il dichiarato e circoscritto fine di indagare sulla evoluzione dell’opinione pubblica in Italia, rintracciare le tappe del pensiero scientifico in materia. Ma i punti cardinali vanno chiariti.


2. Le condizioni di partenza

Non c’è opinione pubblica dove non vi sia un regime che autorizzi, meglio ancora che protegga, la libera formazione di gruppi sociali, legati da interessi comuni, materiali o intellettuali. E dove questi gruppi non possano venire a contatto attraverso un libero dibattito. Jurgen Habermas avvertiva: l’opinione pubblica si origina quando si apre nei confronti dello Stato uno spazio discorsivo che opera da «controparte del potere pubblico, cosciente di sé come interlocutrice»9. E’ un concetto pressochè assiomatico, e porta direttamente all’indispensabilità di un regime democratico, o almeno liberale. Naturalmente per essere tale un regime deve assicurare la pubblicità dei suoi atti. In mancanza, notava Immanuel Kant, l’opinione pubblica non ha materia su cui formarsi: «Non esiste opinione pubblica senza pubblicità del potere». Facile il collegamento col “government by discussion” della tradizione liberale inglese.
Nella Bulgaria di Todor Zhivkov i cittadini attribuivano percentuali superiori al 90 per cento al partito unico e al suo leader. Il punto su cui riflettere è che non erano elezioni truccate (o almeno, non troppo), la gente votava davvero in quel modo. Quanto alla società italiana del 1936, i cittadini che guardavano al fascismo con favore sfioravano probabilmente la percentuale bulgara. E quel favore era sincero. Tuttavia, nonostante queste percentuali fossero impressionanti e nonostante rispecchiassero grosso modo i reali convincimenti dei cittadini, non parleremo di opinione pubblica favorevole al primo o al secondo regime, bensì di una massa di cittadini soverchiata da una classe dirigente dominante: non c’era pubblicità degli atti pubblici diversa da quella che i regimi promuovevano per i propri scopi propagandistici, le regole istituzionali non garantivano la libera formazione del pensiero attraverso un dibattito, né attivo né passivo, il giudizio dei cittadini era plasmato con tecniche talvolta coercitive, e assai più spesso grazie all’assenza di contraddittorio. D’altra parte, il grido di allarme era stato lanciato già all’inizio dell’Ottocento, agli albori del liberalismo, da John Stuart Mill e da Alexis de Tocqueville, i quali imputavano al potere la responsabilità di creare una falsa opinione pubblica «fornendo agli individui una quantità di opinioni già fatte»10. Osservazioni che verranno riprese con notevole vis polemica, centocinquant’anni dopo, da Walter Lippmann e da John Dewey11.
Giacchè si è in argomento di consenso elettorale, sarà opportuno un inciso. Niente è più sbagliato – come è stato invece sostenuto per interesse politico dall’amministrazione Bush che enfatizzava l’importanza del voto nell’Iraq occupato – del considerare le elezioni come il mezzo fornito all’opinone pubblica per introdurre, o garantire, o testimoniare la democrazia. Nel 1933 in Germania si è votato tre volte. Nella prima il partito nazista ha avuto una percentuale inferiore al 10 per cento, nella seconda è salito al 20, nella terza ha ottenuto la maggioranza e il governo del paese. Non si può dire che questa procedura elettorale, peraltro sempre formalmente corretta, abbia introdotto la democrazia nella Germania degli anni Trenta. Dunque le elezioni sono quello che sono: né più e né meno che lo strumento per selezionare la classe dirigente deputata al governo del regime in atto, determinato non dalle elezioni stesse bensì da spinte sociali eteronome rispetto alla formalità del suffragio.
Ma torniamo alle condizioni essenziali per la vita di un’opinione pubblica. In stretta connessione logica col primo concetto che lega questa al connotato democratico o liberale di un regime, va aggiunto che lo strumento principale, forse unico nelle società moderne, per inverare la possibilità costituzionale di rendersi conto dell’andamento della cosa pubblica e quindi di esprimersi, è dato dall’esistenza di mezzi di informazione dotati di almeno tre caratteristiche: numerosi, diversificati, ed accessibili. C’è anche una quarta caratteristica, essere economicamente sani.
Da questo punto di vista la situazione dell’Italia è discreta, e non molto diversa da quella degli altri paesi occidentali. Per quanto riguarda la carta stampata, abbondanza, diversificazione e accessibilità appaiono sicuramente sufficienti. Per limitarsi ai quotidiani, ve ne sono 82 (iscritti alla Federazione italiana editori giornali) in tutta la penisola, rivolti ad un mercato di 55 milioni di persone (in Francia 76 per 57 milioni, in Germania 64 per 90 milioni)12.
La pluralità delle tendenze è assicurata da un 40 per cento delle tirature gravitante nel centro-destra e in un 50 gravitante nel centro sinistra. Limitatamente ai 6 quotidiani nazionali maggiori non di partito13, a parte quello sportivo, uno è stabilmente attestato sul centro sinistra, uno lo è con parecchia cautela in più, uno è dichiaratamente della destra (anche dal punto di vista della proprietà), uno espone le posizioni politiche della Conferenza episcopale, e uno quella della Confindustria. Quanto ai giornali di partito, o che esplicitamente si rifanno ad un gruppo politico, sono 10 quelli iscritti alla FIEG14, più 2 non iscritti15, divisi più o meno equamente tra le varie appartenenze.
Oltre a questa diversificazione basata sull’orientamento, c’è quella territoriale: 5 sono i quotidiani interregionali16, 13 quelli regionali17, 41 quelli provinciali o cittadini di cui 20 del Nord, 6 del Centro, 14 del Sud. I restanti sono di difficile collocazione (per esempio «Il Foglio»), o tecnico-economici (per esempio «L’Avvisatore Marittimo», «Italia Oggi»), o sportivi, o di genere vario (per esempio «Daily News Travel»).
Per quanto riguarda poi le tv, l’offerta è bloccata per l’estrema vischiosità del mercato pubblicitario pur abbondante, ma è bloccata su una certa articolazione. Si potrà dire che in Italia l’articolazione esistente si è stabilizzata in favore di un soggetto preminente, ed è vero. Ma, soprattutto se si considera l’insieme dell’offerta informativa stampa-tv, è anche vero che – salvo eccezioni che però si limitano ormai ad un folklore talvolta buffo e talaltra ridicolo – le regole dell’informazione, siano esse determinate da una normativa o autoimposte (art. 21 della Costituzione, legge 69-63 sulla stampa, “Carte” di autodisciplina varie), si stanno dimostrando sufficienti per consentire ad una eventuale opinione pubblica di accedere alla comprensione di quanto accade, e per formarsene un giudizio motivato.
A tutto ciò si aggiunge ora Internet, definito forse ottimisticamente «lo strumento democratico per eccellenza» vista la completa libertà di accesso, sia attivo che passivo. Nel 2005 il 43 per cento delle famiglie italiane disponeva del collegamento. E i consumatori di informazione multimediali, che nel 2002 erano il 46,6 per cento del totale, erano diventati il 53 per cento nel 2006. Che poi i giornali (e ancor più le tv) si crogiolino in pruriginosi fatti di sangue, meglio se con risvolti sessuali, o in deprimenti gossip, e che gli utenti di Internet si mostrino interessati preminentemente a questi stessi argomenti, è cosa vera ma è cosa diversa: attiene all’uso che si fa degli strumenti di informazione, non alle loro potenzialità sempre sfruttabili rispetto alla nascita e alla vita dell’opinione pubblica.
Quanto all’accessibilità, e all’effettivo accesso all’informazione, secondo i dati della Federazione editori l’evoluzione della lettura è caratterizzata da segnali difformi. L’evoluzione delle vendite, ferma da cinquant’anni, nel quinquennio 2001-2006, dopo un buon primo quadriennio, nell’ultimo anno considerato è stata negativa (-2,7 per cento). Invece, nello stesso periodo, i lettori in un giorno medio della settimana sono aumentati visibilmente, da 19 milioni e mezzo a 22 milioni e mezzo. La FIEG spiega questa discordanza: «Il fatto che i consumatori spendano meno per acquistare i giornali non significa che venga meno l’interesse per i loro contenuti. Semmai si rinuncia all’acquisto di qualche testata e si cercano occasioni di lettura nei luoghi dove i giornali vengono messi a disposizione del pubblico».
Quest’ultimo è il dato più interessante ai fini della nostra indagine: non tanto la quantità di copie vendute, ma piuttosto la quantità di lettori. Ovvero la quantità di persone che, avvicinandosi ai mezzi di informazione, possono teoricamente concorrere all’elaborazione di un’opinione pubblica. Allora si può concludere che complessivamente i nostri 22 milioni e mezzo di lettori rappresentano, sì, un dato peggiore di quelli registrati negli altri paesi europei di economia matura (nella scala dei lettori di quotidiani quelli italiani vengono dopo gli inglesi, tedeschi, francesi, olandesi, belgi), e tuttavia rappresentano pur sempre una percentuale sulla popolazione adeguata alla necessità dell’assunzione di informazioni.
Molto più delicata è la questione della buona salute economica delle varie testate, cui è strettamente legata la loro indipendenza, e quindi la loro credibilità davanti all’opinione pubblica. Dai dati FIEG risulta che nel quinquennio 2001-2006 «i conti economici delle imprese editrici di quotidiani hanno fatto registrare risultati deludenti, in rapporto ad una crescita dei ricavi editoriali (+1,9 per cento) molto più contenuta rispetto alla dinamica dei costi operativi (+6,1 per cento)». Gli editori notano che nel 2006 il Mol (Margine operativo lordo, da cui si deduce l’eventuale precarietà della gestione) si è ridotto del 43,8 per cento, mentre l’utile operativo era sceso nel 2005 del 23,3 per cento, mentre gli utili aggregati scendevano del 17,4. C’è una certa tendenza a lamentarsi da parte degli editori, sempre in attesa di agevolazioni e sovvenzioni da parte dello Stato: ma una riduzione dell’utile, per limitarci ad un solo dato, è pur sempre un utile e non un passivo. E questa tendenza al lamento sorvola sistematicamente sul tipo di scelte imprenditoriali: a parte i 6 quotidiani nazionali, non c’è stata una volta in cui, di fronte ad un bilancio in difficoltà e alla scelta se tagliare le spese riducendo le possibilità di espansione, oppure spingere sugli investimenti per tentare di accrescerle, non sia stata preferita la prima opzione. Ma d’altra parte va anche detto che il comportamento delle imprese editoriali è stato perfettamente coerente con quello di tutto il sistema imprenditoriale italiano: nessuno fa più impresa (salvo la Fiat di Sergio Marchionne, svizzero importato dagli Usa dove aveva imparato a gestire e a decidere), nessuno si assume più il classico rischio. Al meglio si fa finanza, e al peggio una deprimente speculazione immobiliare. Tornano i «re fannulloni» avverte Carlo Gambescia. Il problema, aggiunge, è come superarli senza il ricorso ad un Maestro di Palazzo.
Ma queste sono altre questioni. Tenendo presente l’efficacia degli strumenti per la formazione di un’opinione pubblica, bisogna alla fine concludere che la modesta situazione economica delle imprese editoriali rappresenta un fattore negativo, in quanto espone queste a condizionamenti (anche pesanti) da parte del potere politico, siano essi diretti oppure veicolati dalle banche e da altri poteri forti. Mentre appaiono sufficienti la pluralità delle testate, la quantità dei lettori, e le potenzialità dell’articolazione. Ed è decisamente buono il sistema di garanzie costituzionali e legislative.
Insomma, le condizioni irrinunciabili per la formazione di un’opinione pubblica esistono in Italia più o meno (forse un po’ meno che un po’ più) come esistono negli altri paesi occidentali. Esistono le condizioni per la cosa. Ma esiste la cosa?


3. La mancata trasversalità sociale

Opinione pubblica è «un modo di pensare collettivo», ma non è affatto il modo di pensare collettivo «della maggioranza» di cui parlava Jeremy Bentham. Un’opinione collettiva condivisa solo da una parte ben individuabile – sociologicamente o politicamente o economicamente – della società resterà pur sempre un’opinione di settore, per quanto maggioritaria e ampia essa possa essere, destinata a confliggere con altre opinioni ugualmente private. Un carattere essenziale dell’opinione pubblica deve essere la sua "trasversalità". Ovvero, deve essere individuabile un modo di pensare, capace di travalicare almeno parzialmente i confini politici e sociali di ciascun gruppo, che in tanto è collettivo in quanto fa riferimento ad alcuni princìpi fondamentali condivisi, riconosciuti come comuni.
La tesi è che questa trasversalità in Italia, diversamente dagli altri paesi occidentali, è debole. Anzi, un po’ per successive e oggettive ragioni storiche e molto per indefesso lavoro della classe dirigente, la società italiana si è costantemente divisa tra ragioni private contrapposte e impermeabili tra loro, in una separatezza sempre così rigida da non consentire l’individuazione delle ragioni comuni dello stare insieme.
Cavour parlava francese e pensava come un liberale inglese: a lui sarebbe spettato fare del Nord industrializzato (modestamente) e del Sud dove accanto alla generale arretratezza economica agivano tuttavia due delle più brillanti capitali intellettuali d’Europa (Napoli e Palermo), una entità unica, assimilabile ai modelli nazionali francese e inglese cui egli si rifaceva. Non ebbe tempo per tentare. Quanto al suo re, Vittorio Emanuele, una nuova e non irrilevante generazione di storici spinge sull’acceleratore di un concetto già noto, ma a cui si tendeva a mettere la sordina: come egli abbia sempre inteso l’”unità” come annessione di una parte ad opera dell’altra, senza reale fusione sociale. Casa Savoia era tanto culturalmente estranea alla penisola, che Vittorio Emanuele preferì rimanere il II del regno di Sardegna piuttosto che diventare il I del regno d’Italia.
Subito dopo i Mille, l’inviato del re sabaudo Chevalley cerca di convincere il principe di Salina, che aveva appena declinato l’offerta del laticlavio (è un momento decisivo del Gattopardo): «Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo?»18. «Che barbarie! Altro che Italia, questa è Affrica!» scriveva a Cavour nel 1860 il luogotenente del re, mandato a Napoli per un rapporto sui nuovi territori conferiti alla corona dall’impresa garibaldina. E pensare che solo una manciata di anni prima l’anglosassone Orazio Nelson aveva scelto per la sua vita privata la stessa città, giudicandola tra le più civili e godibili d’Europa (a condizione, benintesto, di non mettere il naso fuori dalla cerchia delle sue naturali frequentazioni).
Di quella «Affrica» Nino Bixio guidò il processo di integrazione con lo Stato sabaudo eseguendo in un anno esatto (settembre 1860-agosto 1861) le fucilazioni di 8.964 «banditi», facendone prigionieri 6.112 e arrestando 13.529 persone. Questa media di 24,5 fucilazioni e 53,8 arresti al giorno (al giorno!) davvero non facilitò la permeabilità tra le due componenti della nuova società italiana. Cosicchè nel 1961, celebrando il centenario dell’Unità, gli allora presidenti della Repubblica e del Consiglio, Giovanni Gronchi e Amintore Fanfani, concordarono nel ritenere la separazione tra Nord e Sud come il principale dei problemi irrisolti. Visto il prima, e visto il dopo fino ad oggi, è probabile che il secondo centenario sarà l’occasione per le medesime parole. Forse in tono più drammatico.
A questa separatezza, che non ha consentito al Nord e al Sud di trovare princìpi condivisi dello stare insieme, e quindi non ha consentito la formazione di un’opinione pubblica geograficamente trasversale, se ne aggiunge un’altra, di altra natura.
La reazione di Pio IX alla conquista di Roma del 1970 fu, oltre a dichiarasi prigioniero, la proibizione ai cattolici di occuparsi in qualsiasi modo della cosa pubblica: cattolici e laici, era il concetto, sono due componenti distinte che nulla in comune devono avere l’una con l’altra. Questa è la ricostruzione di Francesco Cossiga nel suo Italiani sono sempre gli altri:
Quando i bersaglieri entrano a Roma si esaurisce il Concilio Vaticano I, che ha proclamato l’infallibilità del papa. Ex cathedra, cioè solo in materia di fede e per esplicita dichiarazione, fu la formula che consentì l’accordo con i vescovi che non si riconoscevano nell’oltranzismo antimoderno di Giovanni Maria Mastai Ferretti, sancito con solennità nel giorno dell’Immacolata del 1864 col famoso e famigerato Sillabo (Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores), un vero e proprio manifesto ideologico con il quale si specificavano ben ottanta deviazioni della cultura moderna: dal liberalismo al positivismo, dall’illuminismo al socialismo, dal razionalismo al comunismo. Non c’è due senza tre: con il Non expedit, terza formula latina che discende idealmente dall’Ex cathedra e dal Syllabus, quattro anni dopo Porta Pia, viene dunque affermata la rottura definitiva e irreversibile con lo Stato laico. Per la precisione: con un decreto emanato dalla Sacra Penitenzieria nel settembre del 1874 si fa divieto a tutti i cattolici italiani di prendere parte alla vita politica del paese sia come votanti che come candidati, "né eletti né elettori" secondo la formula inventata da padre Giacomo Margotti. Si tratta dello stesso sacerdote al quale, nel 1857, Cavour aveva impedito l’ingresso in Parlamento e fatto annullare la regolare elezione per "abuso di armi spirituali". In tal modo Pio IX ha consentito o piuttosto provocato l’esclusione di tutto il popolo cattolico, impedendo la composizione della faglia aperta con la scomunica, ribadita dopo Porta Pia, fra nazione e identità, fra cittadini e Stato19.

Si trattò di una spaccatura netta e rigida della nuova società italiana, che tenne ben separati cattolici e laici non consentendo né agli uni né agli altri di trovare comuni motivi di dialogo, seppure nella diversità. Il furore separatista di Pio IX venne attenuato trent’anni dopo da Pio X con l’enciclica Fermo proposito, provocata in verità non da un salutare ripensamento politico, ma dalla necessità assai pratica di fronteggiare un’ondata anticlericale della cattolica – ma non papista – Francia. Enciclica che ebbe come conseguenza in Italia, nel 1913, il patto tra Giovanni Giolitti e il conte Ottorino Gentiloni, affinchè gli elettori cattolici votassero alcuni candidati “vicini” alla Chiesa, a condizione che si facessero paladini delle ragioni di questa nel Parlamento italiano.
Certo, era un passo piccolo, perché la ricucitura tra l’opinione privata cattolica e l’opinione privata laica si limitava ad essere funzionale alla difesa degli interessi di una delle parti. Ma era un potenziale grande passo perché, una volta ristabilito un contatto, la discussione avrebbe potuto allargarsi ad altri temi. Come infatti avvenne. Senonchè il guaio, grosso guaio, era stato fatto e ancora non si è trovato il rimedio: il processo di delegittimazione reciproca e totalizzante, praticato per 43 ininterrotti anni, era entrato nel modo di pensare degli italiani. Un processo che ha impedito la trasversalità dei princìpi comuni, ha ostacolato la formazione di un’opinione pubblica a vantaggio della sopravvivenza di opinioni private contrapposte senza punti di contatto, e che continua ancora oggi con tanta forza da far accettare ad una parte l’invenzione di un nemico interno – il comunismo – ormai immaginario, ma necessario per prolungare la separatezza.
La polemica tra neutralisti e interventisti, prima e dopo un evento drammaticamente rilevante come la Grande Guerra (si chiamava così, prima che ci fosse la necessità di numerarle), non migliorò le cose, e un più deciso peggioramento fu registrato col fascismo. Gli oppositori del regime non erano inviduati dal regime stesso come avversari politici, liberali o socialisti, democratici o massoni, ma come “antinazionali”. Perciò nemici senza remissione, meritevoli non di una condanna – non parliamo poi di un contatto – ma di un annientamento. Ed essi stessi non poterono autodefinirsi, dunque, che “antifascisti”, in una circolarità di reciproche esclusioni.
A differenza delle precedenti, la successiva divisione della società italiana tra monarchici e repubblicani, per quanto animosa essa sia stata, non era tale da ostacolare di per sé la ricerca di punti di contatto, e dunque la formazione di un’opinione pubblica. C’erano laici autorevoli non ostili alla monarchia (Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando), e monarchici che avrebbero voluto salvare l’istituzione ma non i suoi occupanti (Raffaele cadorna, probabilmente lo stesso Falcone Lucifero). Era lì, in casa, davanti agli occhi di tutti, l’esempio della vittoriosa Gran Bretagna, dove la coesistenza tra l’elemento repubblicano minoritario e quello monarchico, a sua volta diviso tra realisti accesi e realisti tiepidi, non aveva minimamente ostacolato una spinta condivisa e trasversale a sostegno del sistema inglese, da cui era derivata – ultimo effetto – la condivisione della resistenza al nazismo. Lo stesso Stalin non dette grande rilievo alla divisione istituzionale italiana, quando accolse senza obiezioni (o quando impose, sostengono alcuni) la svolta di Salerno, in cui tra le altre notevoli cose cadde anche la pregiudiziale antimonarchica del Pci.
Ma di fatto la divisione, in Italia, sfociò ancora una volta in una reciproca preclusione assoluta di nuovo conio. All’accusa di corresponsabilità almeno passive che gli antifascisti attribuivano – correttamente – alla corona nella tragedia in cui il fascismo aveva precipitato il Paese, si stavano inserendo altre due divisioni coeve a quella istituzionale, profonde e destinate a durare: tra filo-occidentali e filo-sovietici, e tra cattolici e comunisti. Per un momento, la scrittura della Costituzione sembrò andare nel senso opposto. Certo le divisioni erano forti, violente. Chi guardava al mercato e agli Stati Uniti, e chi al socialismo e all’Unione Sovietica; c’era un latifondo assenteista e un bracciantato miserabile; convivevano un apparato industriale semicollassato e bisognoso di un poderoso processo di accumulazione capitalistica, e un proletariato bisognoso – al contrario – di una distribuzione delle risorse a lui favorevole. Ma quando, in quel miracoloso 1947, si è trattato di dar vita alla Costituzione e con essa alle regole cui ogni divisione doveva obbedire, lo si è fatto: e in quest’opera si sono riconosciuti non solo partiti altrimenti contrapposti, ma una vera e propria opinione pubblica. A parte la questione dell’articolo 7 che costituzionalizzava il Concordato secondo gli interessi dei cattolici e che ottenne il consenso del Pci, in essa c’erano i princìpi fondamentali del vivere comune. Quei princìpi furono condivisi dall’intera società italiana, pur articolata secondo le diverse componenti politiche (salvo frange estreme prive di reale influenza): comunista e cattolica, democratico-liberale e socialista. Per una volta tra quelle componenti, e tra i gruppi sociali che vi si riconoscevano, si ebbe un contatto. E con esso un barlume di trasversalità che riuscì a rendere stabile l’individuazione di princìpi comuni, superando finalmente la conflittualità radicale e la tendenza alla delegittimazione reciproca. La Costituzione fu resa possibile e poi sostenuta da una vera opinione pubblica italiana, che riuscì a manifestarsi, che in essa si riconobbe e di cui condivise le direttrici.
Una trasversalità e un rinuncia alla delegittimazione di brevissima durata. Allo spirito da cui nacque la Costituzione si sovrapposero immediatamente, in modo determinante, le spaccature provocate dalla guerra fredda, dalla divisione del mondo in due blocchi. Divisione che la politica riuscì solo parzialmente a mediare, e mantenendo comunque la mediazione al di sotto della percezione sociale: sia il Pci, sia la Dc sapevano che le elezioni del 18 aprile 1948 ammettevano un solo risultato, quello che poi effettivamente ci fu, in virtù della spartizione delle zone di influenza sancita a Yalta. Come sapevano che, fin quando l’intesa raggiunta sulle rive del mar Nero avesse tenuto, e fin quando ci fosse stata la guerra fredda, nessun cambiamento di equilibri sarebbe stato accettabile. Come l’Occidente si astenne dall’intervenire in Polonia e in Cecoslovacchia, toccate alla sfera socialista, così Stalin e dunque Togliatti si guardarono bene dal tentare davvero una strategia che potesse portare il Pci al governo dell’Italia, toccata alla sfera occidentale. Stabilito con chiarezza questo, per dare al sistema italiano un minimo di articolazione interna capace di assorbire le forzature internazionali, si ammise una certa partecipazione del Pci ad un potere laterale. Ma non per caso l’istituzione delle Regioni, che avrebbe accresciuto e reso più visibile tale partecipazione, fu rinviata di un quarto di secolo, fin quando la guerra fredda fece intravedere una attenuazione della sua presa. E l’attribuzione di poteri realmente incisivi a quegli organismi locali dovette ancora attendere, fin quando non si profilò la prospettiva del collasso dell’impero sovietico.
Sfortunatamente per l’avvio di un processo generativo di opinione pubblica, al progressivo “accomodamento” della classe politica non corrispose una diminuzione di tensione nella società: la Dc continuava ad essere vista come preda della «cupidigia di servitù» verso gli occidentali e gli Usa in primo luogo, il Pci continuava ad essere accusato dell’intenzione di «spararci alle spalle quando difenderemo la Patria». Stupidità propagandistiche, certo, ma capaci di far presa. A sanzionare definitivamente l’insormontabilità del muro tra cattolici-filoccidentali e marxisti-atei-filosovietici fu Pio XII. Ogni trasversalità era esclusa. Così ancora una volta il sistema complesso delle esclusioni, delle divisioni, delle reciproche delegittimazioni che agiva nella società italiana rese impossibile il riconoscimento di princìpi condivisi e trasversali, da cui potesse sorgere una vera opinione pubblica.
Un tentativo di mettere a contatto la società separata, sotto la spinta di autentiche emergenze civili ed economiche, fu fatto con la solidarietà nazionale, possibile prologo del compromesso storico. Si è già visto come esso fallì. Non solo. Quando con l’avvento della sedicente Seconda Repubblica Silvio Berlusconi si pose il problema della conquista del potere, pronunciò la parola magica: «minaccia comunista». Comunisti, nel senso di marxisti atei, collettivisti ostili alla proprietà privata, in Italia non ce n’erano più, da tempo. La loro trasformazione era cominciata due decenni prima, quando Berlinguer al congresso dei sindacati sovietici pronunciò il suo discorso nella Sala della colonne sostenendo, davanti alla nomenclatura moscovita di pietra, che «la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre si è esaurita». Per di più, quando il fantasma comunista fu di nuovo evocato da Berlusconi, il sistema sovietico già stava disintegrandosi, a velocità inimmaginabile, liberando intere fasce di società in tutto l’Occidente, e in Italia più che in ogni altro Paese, rendendole disponibili ad incontri di opinione fino a quel momento impossibili.
Ma la «minaccia comunista» funzionò. Un po’ per l’abitudine della società italiana a schierarsi in modo apodittico da una parte o dall’altra, e un po’ per l’abilità di Berlusconi nel riproporre la vecchia, conosciuta, familiare separatezza. Cossiga spiega perfettamente il fenomeno:
Fondamentale per l’identità del berlusconismo è l’invenzione del nemico, nel senso della ricerca e del ritrovamento di uno stereotipo ideale dall’immagine negativa, da attribuire all’avversario reale. E poco importa se, con l’elezione di Giorgio Napolitano al Quirinale, mi sembra si sia chiusa per sempre la questione comunista in Italia. Almeno sul piano storico. Ma Berlusconi, inventando il suo nemico totale, ha proposto sé stesso come unico nemico possibile per tutti gli avversari, attuando il paradosso di una speculare demonizzazione, tipica del carattere italiano20.

Una demonizzazione irrimediabile ed eterna nel tempo: non solo io sono il nemico dei comunisti e i comunisti hanno me come nemico, disse Berlusconi, «ma chi nasce comunista non può che morire comunista». Così come Berlusconi negava legittimità ai suoi avversari, riunendoli nell’odiata categoria, illegittima come forza di governo in un paese occidentale, così i suoi avversari, in realtà assai variegati tra cattolici, ex marxisti, laici, verdi, radicali e movimentisti, gli negarono legittimità ricorrendo in coro ad argomenti eccedenti il dibattito politico, e persino estranei ad esso. Non è legittimo che egli si candidi alla guida del governo, sostennero inizialmente, perché in nessun paese democratico si può essere titolari di mezzi di informazione capaci di influenzare le opinioni dell’elettorato, e contemporaneamente detenere un potere politico che dipende da quelle stesse opinioni. Non è legittimo, affermarono successivamente, che il governo sia guidato da chi è inquisito dalla magistratura. E ancor meno da chi è riuscito ad evitare sentenze trascinandone la durata con tutti mezzi fino alla perscrizione del procedimento. E meno ancora da chi ha patteggiato certe sentenze, perché il patteggiamento presuppone il riconoscimento di colpevolezza, che in effetti c’è stato. Il fondo fu toccato quando si negò all’avversario legittimità morale, in ragione dell’uso della sfera pubblica per sistemare ragazzotte varie disposte a ringraziare a loro modo.
E’ del tutto irrilevante, ai fini della nostra indagine, stabilire dove siano la ragione e il torto. E’ invece rilevante constatare che ancora una volta si è prodotta una separatezza nella società che non ha consentito contatti né dialogo. Si è dunque perpetuato il fenomeno che ha storicamente dominato la società italiana: la sua divisione in opinioni private contrapposte e l’una per l’altra illegittime. Si è continuato a negare ogni contatto, ogni trasversalità sociale e, con ciò, si è impedita la nascita di un’opinione pubblica di tipo europeo.


4. La crisi del ceto medio

La mancanza di trasversalità sociale sta trovando un’aggravante nella crisi del ceto medio italiano, all’interno del quale la trasversalità dovrebbe cominciare ad agire.
Ma prima bisognerà almeno accennare ad una definizione approssimativa. Per lo svizzero Fritz Marbach il ceto medio comprendeva, attorno al 1940, tutti i gruppi attivi professionalmente che non fossero né capitalisti né proletari, che non potevano permettersi lussi ma aspiravano, anche in caso di redditi bassi, a un tenore di vita borghese, e che ritenevano intangibile la proprietà e respingevano la lotta di classe. Dunque secondo Marbach si tratta di un gruppo sociale che in tanto era “gruppo” in quanto la sua forte eterogeneità veniva cucita da valori morali e politici specifici e comuni21. Trasversali, diremmo noi.
L’approccio di Carlo Gambescia è diverso, in quanto distingue tra ceto medio e borghesia (a sua volta da lui distinta in protoborghesia, borghesia, neoborghesia e postborghesia):
Si può parlare correttamente di ceto medio solo per la seconda metà del Novecento. All'interno della storia del capitalismo il ceto medio rappresenta l'eccezione, la borghesia la regola. Storicamente discende da quel ceto di artigiani, piccoli impiegati, funzionari, avvocati, insegnanti formatosi economicamente e politicamente nell'Ottocento, sulla scia delle rivoluzioni industriale e francese. Insomma, il ceto medio nasce come classe recante servizi e come “camera di compensazione” dei conflitti sociali (anche nel senso del concetto filosofico hegeliano di “società civile”). La differenza tra borghesia e ceto medio è costituita dal fatto che borghesia, neoborghesia e postborghesia hanno sempre cercato di contrastare, influire, e oggi perfino sostituire la classe politica, mentre il ceto medio ne ha sempre cercato l'appoggio. Queste tre borghesie (escludendo la protoborghesia, che ha rivestito i caratteri premoderni della dipendenza politica) hanno cercato rispettivamente di competere, addomesticare ed eliminare il politico, mentre il ceto medio, attraverso il patto welfarista, ha sempre cercato di porsi sotto la sua potente ala22.

Proponiamo infine la rifessione di Maurizio Maggiani, intellettuale brillante che, senza definirsi scienziato della politica o della società, ha spesso dedicato grande attenzione al tema della “medietà”:
La classe media non è la borghesia; è il direttore di banca e non il proprietario della banca; è lo scienziato dell'industria farmaceutica e non il suo amministratore delegato; è l'artigiano orafo e non il padrone della miniera di diamanti; è l'insegnante e non la scuola; è il giornalista e non l'editore. Questa classe media si muove tra borghesia e proletariato, negli spazi che non sanno e non possono occupare le classi volta a volta emergenti, senza mai dominare ma ponendo le basi del dominio altrui, perché non possiede mezzi di dominio e perché nella forma mentis della classe media non è compreso il dominio, ma il governo23.

E’ in questo ceto medio che storicamente, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si origina l’opinione pubblica, quando esso dette vita allo strumento capace di difendere e poi di affermare i suoi interessi e il suo ruolo nella trasformazione della società. Nel ceto medio, afferma Habermas, «nasce la moderna forma di opinione pubblica, attiva, e quindi soggetto politico, sociale e comunicativo».
Se è vero che l’opinione pubblica si genera, almeno in prima battuta, all’interno del ceto medio, allora va qui ripreso un concetto cui si è già accennato: come questa sia cosa tutt’affatto diversa dall’opinione della maggioranza, dall’opinione di massa, dall’opinione comune. Il pensiero scientifico comincia ad indagarvi partendo dal Settecento, o tutt’al più dall’invenzione della stampa a caratteri mobili. Ma concediamoci una licenza. Nella Grecia classica, da Pericle a prima dell’Ellenismo, la popolazione di Atene e del contado arrivò a mezzo milione. I cittadini (ateniesi figli di entrambi i genitori ateniesi, lo stagirita Aristotele non godette mai di diritti civili pieni) erano però quindicimila. E quei quindicimila scendevano a cinquemila non considerando i cittadini che vivevano nel contado, a cui era di fatto preclusa la possibilità di occuparsi della cosa pubblica. Ora, in tanto si parla di democrazia, nell’Atene classica, in quanto la classe dirigente, nella sua formazione, selezione e comportamento, sentiva fortemente la pressione di quella “opinione pubblica”, sia consentito di chiamarla così. Ma non era affatto un’opinione maturata in una popolazione di mezzo milione: la pressione non veniva da lì. E neppure dai quindici milioni di cittadini. Si trattava dei cinquemila, tutto qui. E addirittura di quella parte dei cinquemila che si attivava davvero su questo o quel problema pubblico.
Dunque l’opinione pubblica riguarda una sfera non solo individuabile dalla trasversalità sociale di certi valori e convinzioni di fondo, come già si è cercato di dimostrare, ma anche circoscritta a cittadini consapevoli del loro status e dei loro diritti, dotati di coscienza civile e partecipi del dibattito politico in corso. E’ il ceto medio consapevole di sé, che in tanto genera opinione pubblica in quanto constata ed elabora la condivisione, trasversale ai vari gruppi sociali e politici da cui è composto, di alcuni valori essenziali.
La connessione tra ceto medio e opinione pubblica dunque è ben visibile. Si è visto che la preoccupazione della dottrina è di distinguere l’elemento mediano della società dalla borghesia, meglio ancora dalla borghesia imprenditoriale. Operazione semplice quando si parla di dipendenti della pubblica amministrazione. Più difficile quando si passa a considerare gli addetti al terziario. E praticamente impossibile nel caso degli addetti all’industria. A partire dalla seconda rivoluzione industriale, e fino alla fine del Novecento, è impossibile individuare un ceto medio la cui esistenza sia separata da quella del ceto imprenditoriale. Non c’era gestione dell’impresa se non c’era l’impresa, non c’era direttore generale se non c’era l’amministratore delegato che lo nominasse, non c’erano managment né ceto impiegatizio se non c’era la persona giuridica in cui potessero agire. Ceto imprenditoriale e ceto medio generato all’interno del sistema di imprese erano concettualmente distinti, ma le loro esistenze coincidevano.
Questo è stato vero fino all’inizio del terzo millennio, quando la globalizzazione ha provocato una cesura. Si sta scoprendo che nella semplice ottica della massimizzazione mondiale dei profitti e della efficienza su larghissima scala dell’organizzazione del lavoro, tipiche preoccupazioni della nuova imprenditorialità multinazionale, certe fasce di ceto medio che prima vivevano simbioticamente la vita dell’impresa, adesso sono spinte ai margini, e certe altre addirittura non servono più: la ricchezza di un sistema di aziende cresce benissimo anche senza di loro, anzi talvolta cresce di più. Si sta constatando un’esuberanza di “colletti bianchi”, che vengono tagliati via, o convogliati verso sottoutilizzi vari talchè, per sgradevole che sia dirlo, un lavoro appagante sta diventando un privilegio.
Nel loro La fine del ceto medio, Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi scrivono:
Nuovi ricchi che spuntano ovunque e ostentano la loro opulenza, improvvise povertà anche tra i lavoratori (in genere quelli privi di specializzazione) e i pensionati, progressivo assottigliamento dei ceti medi che perdono reddito e sicurezze: la società italiana è nella tempesta. Un fenomeno comune a gran parte delle altre democrazie industriali dell'Occidente, anche se da noi è esasperato dall'impatto di una stagnazione economica più grave e prolungata che altrove e da una diffusione dell'evasione fiscale che rende difficile guardare alle nuove ricchezze come al prodotto di un mercato che magari è sempre più spietato - la ruthless economy teorizzata da Simon Head, direttore della Century Foundation - ma comunque funziona24.

Citiamo ancora da Gaggi e Narduzzi
Questo terremoto – citiamo ancora da Gaggi e Narduzzi – che altera profondamente i meccanismi di distribuzione del reddito, accelera i processi che stanno portando alla sostanziale scomparsa della classe media così come l'abbiamo conosciuta nel XX secolo: un ceto che ha man mano perso i suoi connotati per il venir meno delle condizioni storiche che ne avevano determinato il successo e anche per altri fattori: soprattutto la fine dell'era delle aspettative crescenti, in cui chi non era già baciato dal benessere si sentiva comunque in lista d'attesa e non un escluso, la fine delle certezze occupazionali e anche l'impatto sulla struttura sociale di meccanismi di mercato i cui connotati vengono continuamente modificati dall'evoluzione tecnologica25.

Ma la crisi del ceto medio, e parallelamente la crisi della sua capacità di agire nella cosa pubblica attraverso l’elaborazione di una opinione pubblica “pesante”, più che dalle difficoltà economiche viene dal progressivo abbandono dei princìpi sociali, dei valori morali e politici che lo definivano.
Vediamo. I camionisti protestano, e per sostenere le loro ragioni bloccano le comunicazioni del paese. La qualità delle loro rivendicazioni non è, in questo contesto, rilevante. Ciò che rileva è la filosofia sociale a cui essi si affidano per farle valere. Dicono: poiché fino ad oggi non abbiamo ottenuto ascolto, alziamo il livello della protesta e la regola (in questo caso la legge che proibisce i blocchi stradali) deve cedere alla difesa dei nostri interessi. La settimana dopo i tassisti fanno la stessa cosa, fino ai blocchi stradali. La settimana ancora successiva sono alcuni sindacati del trasporto aereo che minacciano: le nostre rivendicazioni trovino le giuste risposte, o saranno guai per le festività di fine anno, anche in violazione della normativa che regola l’esercizio del diritto di sciopero. In quest’ultimo caso ci si è fermati prima, ma appare ormai accettato come naturale il concetto che l’interesse delle categorie prevale sull’interesse della comunità. Comunità, questo è il punto, di cui le categorie non sentono più di fare parte, perché tra esse non corre alcuna trasversalità di valori comuni riconosciuti.
E’ chiaro che dei blocchi stradali dei camionisti soffrono anche i tassisti e gli addetti al trasporto aereo, dei blocchi dei tassisti risentono anche i camionisti e i controllori di volo, e del blocco dei voli quando questo blocco è proibito risentono anche i camionisti e i tassisti. Ma la riflessione si ferma allo stadio precedente, quello dell’interesse particolare del gruppo ristretto. Poi succeda quel che deve. Naturalmente anche uno sciopero che si svolga secondo le regole provoca sempre disagi collaterali, oltre a quelli diretti: è inevitabile, anzi è proprio questo combinato che fa la sua forza. Ma è un disagio collettivo in vista di un vantaggio collettivo: una categoria che progredisce – senza spezzare il tessuto connettivo sociale in cui si muove – contiene un elemento di progresso dell’intera collettività. Invece la violazione delle regole – stabilite dalla collettività a propria protezione – contiene il principio esattamente opposto: una categoria intende progredire a svantaggio della collettività, di cui non sente più di far parte.
E’ questa la vera e più profonda crisi del ceto medio, frantumato in segmenti di società ben intenzionati a non riconoscere altro che sé stessi. Ed è un formidabile ostacolo alla formazione di una opinione pubblica capace di superare opinioni particolari sempre più ristrette e impermeabili le une alle altre. Habermas ricorda che l’opinione pubblica si origina nella «sfera pubblica borghese», quando si apre nei confronti dello Stato uno spazio discorsivo che porta questa ad operare da «controparte del potere pubblico, cosciente di sé come interlocutrice» e che reclama il dissolversi degli arcana imperii». E’ in crisi proprio questa coscienza di soggetto capace di individuare pensieri, valori e interessi comuni e trasversali tra le coscienze delle categorie.
Non è detto però che la crisi del ceto medio corrisponda sempre e comunque alla crisi della sua capacità di esprimere un’opinione pubblica. In tutto l’Occidente gli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso hanno visto in una prima fase una forte espansione quantitativa del ceto medio, in virtù di un eccezionalmente potente processo di ridistribuzione del reddito che ha risucchiato al suo interno ampie zone di proletariato. Più o meno, seppure in maniera storicamente e sociologicamente meno rilevante, si è trattato dello stesso processo di ridistribuzione dei benefici alla parte meno abbiente della società, successiva alla seconda rivoluzione industriale. Centocinquanta come trent’anni fa, non si trattò di un’opera di filantropia, ma della creazione di un mercato di consumatori di cui l’industria aveva bisogno per radicarsi, mercato ampio per abbattare i costi di produzione, e mercato ben disposto attraverso un maggior tempo disponibile per la riduzione dell’orario di lavoro.
E poi in una seconda fase, anzi in conseguenza di questo processo, gli anni Settanta hanno visto una prima crisi del ceto medio: il tentativo di eliminare le disuguaglianze sistematiche, in parte riuscito attraverso la ridistribuzione del reddito, si è trasformato in un processo di livellamento dell’universo mediano, che a sua volta ha comportato una riduzione – talvolta un annullamento – e comunque una irrilevanza delle opportunità di progresso.
Il ceto medio vive della convinzione che in un ambiente aperto, in cui vi sia la possibilità di farsi valere e di migliorare con i propri sforzi le proprie prospettive di vita, una certa presenza di disuguaglianze non cristallizzate, non insormontabili, possa essere fonte di speranza e di progresso. E’ la sua opinione che, in quanto trasversale alle sue varie componenti e condivisibile anche fuori dai suoi confini sociali, diventa opinione pubblica. Gli anni che stiamo considerando – la fine dei Settanta – hanno rappresentato un colpo a tutto ciò, e il ceto medio è andato in crisi. Ma non per questo ha cessato di esistere e di elaborare un suo pensiero. Anzi ha reagito come soggetto unitario, chiedendo la restaurazione delle condizioni per il suo sviluppo. Così l’azione dei governi occidentali, e in prima fila quello italiano, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta hanno visto – sicuramente travalicando le intenzioni del ceto medio, ma alla fine assicurando il raggiungimento dei suoi fini – il dispiegamento di un forte processo inflattivo che ha ricreato differenze, stavolta interne ad un più largo universo mediano e assai più accettabili delle precedenti in quanto assai meno preclusive. Con questo si è riproposta una gamma di opportunità e di speranze di progresso, effettivamente colte fino alle soglie del nuovo millennio.
Anche oggi la crisi è evidente, ma mentre trent’anni fa nella crisi era contenuto il germe della reazione grazie alla condivisione di certi valori trasversali, condivisione che teneva, oggi il quadro è assai più triste. Le analisi si moltiplicano, impietose. Un rapporto Demos-Eurisko del gennaio di quest’anno, compiuto su un campione in cui il ceto medio è la netta maggioranza, afferma che il 74 per cento degli intervistati giudica peggiorata e in fase di ulteriore peggioramento sia la situazione dell’economia nazionale sia la propria particolare condizione economica, il 59 per cento dà lo stesso giudizio riguardo alla sicurezza, il 65 riguardo alla pressione fiscale, il 59 riguardo alla corruzione.
Ma, questo è il punto, più dell’80 per cento ritiene che la soluzione delle difficoltà stia nel proprio “privato”, dove si può ancora inseguire e raggiungere una certa felicità personale. O dove le infelicità hanno una dimensione affrontabile. Di fronte alla crisi, dunque, il ceto medio rinuncia ad esercitare sulla classe dirigente la pressione dell’opinione pubblica da esso generata, nel momento stesso in cui non pone più la domanda «E noi?», ma si rifugia nella domanda «E io?». In un film di Ettore Scola, al solito cartello con la scritta «Ho moglie e quattro figli da mantenere, sono disoccupato, ho fame» appeso al collo dell’immigrato che chiede soldi ai semafori, una signora al volante risponde inalberando un altro cartello: «Ho cinquant’anni, mio marito mi ha lasciata per una più giovane, ho due figli e una madre a carico, guadagno 800 euro al mese. Come la mettiamo?». E’ la domanda «E io?».
Ci sono le opinioni dei camionisti e della signora col cartello, dei tassisti e dei giovani precari, dei nuovi poveri e di chi difende coi denti e a qualsiasi costo i brandelli di benessere o di privilegio che sopravvivono. Segmenti che enucleano opinioni private, di settore, di categoria, in lotta le une con le altre. L’opinione pubblica motore della democrazia e controllo della politica è morta. In attesa che «multa renascentur quae iam cecidere».



NOTE
1 W. Churchill, La Seconda guerra mondiale, parte II, vol. II, Milano, Mondadori, 1951, pp. 130-177.^
2 R. Battaglia, La seconda guerra mondiale, Roma, Editori Riuniti, 1961, p. 112.^
3 W. Churchill, op. cit.^
4 G. Andreotti, Diari 1976-1979, Milano, Rizzoli, 1981, p. 9. Cfr. ivi, anche i parametri economici citati.^
5 A. Gismondi, Alle soglie del potere, Sugarco, Milano, 1986.^
6 Ibidem.^
7 G. Andreotti, cit., pp. 40, 163, 179.^
8 Relativamente alle pressioni dirette dell’amministrazione USA, e indirette attraverso il cancelliere tedesco Schmidt. Cfr. ivi, pp. 20, 81, 87, 173, 176.^
9 J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971.^
10 A. de Tocqueville, La democrazia in America (1835-40), in Id., Scritti politici, vol. II, Torino, Utet, 1968. Cfr. inoltre Cognitive processes underlying context effects in attitude measurement, in «Psychological Bulletin», 103/1988, pp. 299-314.^
11 W. Lippmann, The phantom public, New York, Harcourt, Brace and Co., 1925; J. Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia, 1971.^
12 Questa, e le successive citazioni relative a tirature, diffusioni, classificazioni e bilanci, in: FIEG, La stampa in Italia dal 2004 al 2006, Roma, 2007.^
13 Il «Corriere della Sera», «la Repubblica», la «Gazzetta dello sport», il «Sole-24ore», «il Giornale», «Avvenire».^
14 Il «Campanile», «il manifesto», «Il Secolo d’Italia», «Avanti!», «L’Opinione», «l’Unità», «La Discussione», «La Padania», «Liberazione», «Rinascita».^
15 «L’Europa», «il Riformista».^
16 «La Stampa», «Il Messaggero», «Quotidiano Nazionale» (parte comune dei giornali regionali del gruppo Monti), «Il Mattino», «La Gazzetta del Mezzogiorno».^
17 «Alto Adige», «Corriere dell’Umbria», «Giornale di Sicilia», «il Gazzettino», «Il Giornale di Calabria», «Il Piccolo», «Il Resto del Carlino», «Il Secolo XIX», «Il Tempo», «La Nazione», «La Nuova Sardegna», «La Sicilia», «L’Unione Sarda».^
18 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1958, p. 215.^
19 F. Cossiga, Gli italiani sono sempre gli altri, Milano, Hoepli, 2007, pp. 20-21.^
20 F. Cossiga, op. cit., p. 223.^
21 F. Marbach, Zur Frage Der Wirtschaftlichen Staatsintervention, Bern, Francke, 1950.^
22 C. Gambescia, Le quattro borghesie e le contraddizioni post-borghesi, in «www.Ariannaeditrice.it», 2006.^
23 M. Maggiani, Non chiamatela classe media, è solo plebe borghese, in «Il Secolo XIX», 15 ottobre 2006.^
24 M. Gaggi, E. Narduzzi, La fine del ceto medio, Torino, Einaudi, 2006, p. X.^
25 Ivi, p. XI.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft