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Un napoletano a Caracas
di Aurelio Musi
1. Sono un napoletano di ritorno da Caracas, alla ricerca di una sua definizione in una sola battuta. Città capitale di contrasti? Si fa presto a dirlo. Troppo facile e troppo generica. Non è forse anche Napoli città di contrasti? Non lo sono, ognuna ovviamente con le sue peculiarità, tutte le capitali? Ma Napoli non ha barrios e favelas e bidonville, con quelle casupole fatte di mattoni rossi e lamiere che si insinuano fin nel centro di Caracas, e ville superlusso nei quartieri di collina con muri di cinta alti oltre cinquanta metri. Queste si potrebbero definire “castelli postmoderni”. Del castello hanno l’esibizione della forza, di tutte quelle barriere e difese-offese che devono incutere paura e rispetto ad ogni potenziale nemico. Del castello conservano il monopolio privato della violenza, con un esercito di guardie armate che accompagna e protegge il signore e i suoi familiari sia all’esterno sia all’interno del palazzo. Ma del castello non hanno la condotta di vita comunitaria: perché quel poco che resta dell’élite coloniale carachegna e quel tanto che forma la folta schiera dei nuovi ricchi si asserragliano nelle ville miliardarie nel più totale isolamento per sfuggire alla sindrome dell’assalto dei morti di fame, una condizione assai efficacemente descritta da Zygmunt Bauman nella metafora del “mondo liquido”. Qui a Caracas tocchi con mano il passaggio dalla fase “solida” a quella “liquida” della modernità:
vale a dire a una condizione nella quale le forme sociali (le strutture che delimitano le scelte individuali, le istituzioni che si rendono garanti della continuità delle abitudini, i modelli di comportamento accettabili) non riescono più (né nessuno se lo aspetta) a conservare a lungo la loro forma, perché si scompongono e si sciolgono più in fretta del tempo necessario a fargliene assumere una e, una volta assunta, a prendere il posto assegnato loro1.

Qui tutto è flessibile: sia nel senso di “approssimativo”, sia ancora nel senso baumaniano che
la virtù che viene proclamata più utile per servire al meglio gli interessi dell’individuo non è la conformità alle norme (che sono ad ogni buon conto rare e scarse, e spesso reciprocamente contraddittorie), ma la flessibilità: la prontezza a cambiare tattiche e stile a breve scadenza, ad abbandonare impegni e realtà senza rimpianti e a cogliere le opportunità a seconda delle disponibilità del momento, piuttosto che seguire le preferenze consolidate nel tempo2.


2. È molto strano questo “socialismo bolivariano” del presidente Hugo Chavez. O, per lo meno, tale appare ad uno straniero del mondo europeo occidentale. Ha garantito alcuni servizi essenziali. Ha portato luce ed acqua nelle baracche. Ha nazionalizzato tutto quello che poteva. Ha ridistribuito la rendita petrolifera. Ha reso praticamente simbolico il prezzo della benzina: in Venezuela si fa il pieno con meno di un euro, praticamente l’equivalente di una bottiglietta d’acqua minerale. Ha imposto al paese l’ideologia della rivoluzione permanente contro il nemico numero uno, l’impero del male degli Stati Uniti. Ma i costi di tutto questo appaiono elevatissimi. Il tessuto di medie e piccole aziende, abbastanza fiorente fino ad una decina di anni fa, oggi è in ginocchio. Basta volgere lo sguardo alla periferia industriale di Valencia, una città di circa due milioni di abitanti a due ore da Caracas: fabbricati e capannoni industriali sono come scheletri, fantasmi di un paesaggio d’altri tempi. Il traffico a Caracas, per la sua caotica follia, fa apparire Napoli tranquilla e ordinata. L’ideologia della rivoluzione permanente, che è lo sfondo della riforma costituzionale discussa all’Assemblea Nazionale, sottoposta a referendum il 2 dicembre 2007 e respinta, stava scardinando i pilastri della divisione dei poteri, sconvolgendo le basi su cui faticosamente si era costruito il Venezuela moderno: con la possibilità per il presidente di vedersi rinnovare il mandato senza scadenza; con l’affermazione della legittimità delle interferenze dell’esecutivo sul potere giurisdizionale; con la nazionalizzazione del Banco Central. Una pratica di governo politico che, per molti versi, è più simile ad un populismo autoritario che ad una democrazia, stava per dotarsi di nuove sanzioni formali. L’opposizione appare non consistente. La sua rappresentazione politica non riesce a tradurre con efficacia un’opposizione sociale che – almeno a me sembra – pure è presente e assai diffusa sul territorio, come dimostrato dall’esito del referendum, su cui si tornerà più avanti.
Val la pena riflettere meglio sui cardini della riforma costituzionale. Tutti i suoi critici mettono in evidenza che essa avrebbe rafforzato la tendenza impressa dal presidente Chavez al processo politico venezuelano dal 2004 ad oggi. In sintesi queste le caratteristiche della tendenza:
- uno Stato centralizzato fortemente, sotto controllo diretto del potere esecutivo, nelle mani del presidente; esso interviene nell’economia attraverso la rendita petrolifera;
- il preponderante ruolo delle forze armate nel disegno e nell’esecuzione delle principali politiche pubbliche, con una struttura che favorisce il controllo diretto del comandante in capo, presidente della repubblica: un regime, dunque, che dissolve la divisione tra potere civile e potere militare e converte l’organizzazione militare in centro dell’amministrazione pubblica e modello delle organizzazioni della società civile tanto per la partecipazione elettorale e politica come per la produzione, a cui si estende attraverso la creazione di numerose “riserve” militari;
- conversione della democrazia in plebiscitarismo, in cui il popolo si mobilita per sostenere il leader, le sue idee e le sue proposte.
Entro tale tendenza la riforma costituzionale interveniva in particolare sul presidenzialismo, sul federalismo e la divisione territoriale del potere, sulla natura stessa del potere. La proposta di riforma costituzionale, presentata dal presidente Chavez, era stata approvata all’Assemblea Nazionale in alcuni articoli nevralgici. Era allungato il periodo presidenziale da 6 a 7 anni e permessa la rielezione illimitata del presidente. Inoltre aumentavano significativamente le sue facoltà e competenze dirette in materia di governo, organi consultivi, creazione e nomina delle autorità federali, comando militare, pianificazione nazionale e monetaria. Diminuivano i controlli di altri poteri su tali materie. Risultava preoccupante l’incremento delle funzioni di polizia attribuite alle forze armate. Nella costituzione del 1999, si attribuiva ad esse la funzione della «cooperazione nel mantenimento dell’ordine interno»; nella proposta di riforma si stabiliva invece la «loro partecipazione permanente nel mantenimento della sicurezza urbana e nella conservazione dell’ordine interno». Inoltre, «la forza armata bolivariana potrà esercitare le attività di polizia amministrativa e di investigazione penale che le attribuisce la legge». Era la risposta militare all’insicurezza che oggi investe la società venezuelana, con un aumento vertiginoso della criminalità comune e organizzata negli ultimi due anni. Veniva anche prevista l’istituzionalizzazione della milizia popolare e eliminato il divieto di militanza politica per i militari.
Scrive il costituzionalista Carlos Ayala Corao:
Abbiamo bisogno di presidenti che governano in maniera efficiente ma trasparente, razionale, partecipativa e rispettosa. Che siano presidenti di tutti i venezuelani e non solo di quelli che li eleggono; che i loro atti siano oggetto di controllo per evitare e correggere gli abusi, la corruzione; che siano dotati delle attribuzioni necessarie per governare democraticamente e non per abusarne”3.

Non è possibile soffermarsi qui su altri aspetti della proposta di riforma costituzionale. Ma mi pare assai illuminante un’intervista rilasciata dall’economista Luis Pedro Espaňa, direttore dell’Istituto de Investigaciones Economicas y Sociales di Caracas. Egli sostiene che il potere personale del presidente giunge al punto estremo con la nuova costituzione. L’effetto più pericoloso non è tanto costituito dal fatto che
il presidente prescinda dal settore privato, quanto dall’esclusione dell’intera società, perché si crede che lo Stato possa fare qualsiasi cosa. Se un’impresa, scuola o clinica funziona male, la nazionalizziamo. Si tratta di occupar tutti gli spazi, spiazzando non solo il settore privato ma l’intera società. Il risultato sarà l’impoverimento.

Espana ritiene non convincente l’analogia con Cuba. «Cuba non ha conosciuto la modernità urbana, il Venezuela sì. Il progetto di Chavez avrebbe potuto ottenere un qualche risultato nel Venezuela degli anni Cinquanta o della lotta armata».
Il risultato del referendum del 2 dicembre 2007 ha comunque sconfitto l’intero impianto della riforma. Le ragioni della sconfitta sono molteplici come si rileva sia dai commenti della stampa venezuelana, sia dalle prime analisi svolte da studiosi carachegni e analisti politici. Era stato rilevato in passato come gravassero molti dubbi sulla trasparenza dei risultati ottenuti nelle precedenti consultazioni elettorali. Che cosa è cambiato questa volta? Sono tre gli aspetti più frequentemente identificati. Il primo è costituito dal fatto che, con la riforma, Chavez si è spinto troppo oltre verso il modello di pianificazione. La forma mentis del popolo venezuelano – ed è il secondo elemento – è assai lontana dal modello della pianificazione: un individualismo assai spinto induce gruppi e ceti a perseguire l’obiettivo della mobilità sociale ascendente. Questo motivo ha determinato il no alla riforma persino da parte di fedeli del regime che hanno voltato le spalle a Chavez: come tutti, essi vedono il fine ultimo della loro esistenza nel miglioramento delle condizioni economiche e sociali. Infine nella cultura sociale del paese non esistono spazi per pretese di dominio quasi assoluto come quelle contenute nella riforma.
Dunque il risultato del referendum suona come un campanello d’allarme per una struttura di potere che, come è stato scritto, sul “personalismo carismatico”, fonda la sua forza. Come è stato notato nei primi commenti venezuelani a caldo, i capi che basano il loro potere sull’invulnerabilità della loro forza non possono permettersi sconfitte. E sembra, altresì, che qui non siano state gradite le attestazioni di democraticità riconosciute a Chavez da buona parte dell’informazione occidentale. Per molti venezuelani, il contenuto del discorso del presidente dopo la sconfitta di democratico aveva solo il tono: Chavez avrebbe ribadito la sua ferrea volontà di affermare a tutti i costi il nuovo regime4.
In effetti il leggero scarto di voti che ha causato la sconfitta del presidente dimostra che il consenso al suo regime è ancora consistente.

3. Su che cosa si fonda il consenso a Chavez?
Una risposta possibile è data dai risultati della mia esperienza condotta in due settimane tra Caracas e Valencia. La facoltà di Scienze Politiche e il Dipartimento di Teoria e Storia delle Istituzioni dell’Università di Salerno coordinano presso l’Università latino-americana e del Caribe un master in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e dell’Integrazione. Gran parte degli allievi sono funzionari o dirigenti statali, avvocati, segretari d’ambasciata: ricoprono insomma incarichi centrali o periferici dello stato venezuelano. Guadagnano tra i due e i tre milioni di bolivares al mese: al mercato nero non più di sette-ottocento euro. Alle mie lezioni sono venuti con suv, fuoristrada e macchine eleganti dal costo oscillante tra i trenta e i cinquantamila euro. Come se lo possono permettere? Praticando quella che qui viene chiamata l’economia informal: sommerso, doppio o triplo lavoro, altre attività border line, ecc. Chavez ha incentivato tutto questo. Ma, soprattutto, il presidente venezuelano ha creato un sistema di consenso grazie all’indotto della politica. Ho selezionato gli allievi per il master dell’anno venturo. Alla mia domanda: «Che cosa ti spinge ad iscriverti», tutti indistintamente mi hanno risposto: «La politica». Insomma l’attrazione della politica come sbocco professionale e incentivo a prospettive di carriera rende appetibile un master internazionale, gradino verso più consistenti successi e possibilità di monetizzarli. Anche qui, insomma, si vive di politica, non per la politica.




NOTE
1 Z. Baumann, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. V.^
2 Ivi, p. VIII.^
3 C. Ayala Corao, El presidencialismo, in AA.VV., La Reforma Constitucional a debate: preguntas y propuestas, Caracas, Centro Gumilla 2007, p. 6.^
4 Per i commenti suesposti mi sono avvalso del sito www.limes.espresso.repubblica.it/2007/12/04/la sconfitta di Chavez.^
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