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I Dico difficili da dire. Un’occasione a sinistra per ripensare a politica e valori.
di Eugenio Mazzarella
«Il governo ha esaurito il suo compito. Si tratta di un tema delicato in cui si deve lasciare un doveroso margine alla libertà di coscienza». Con questo passaggio del suo discorso al Senato del 28 febbraio in sede di richiesta di fiducia, dopo il rinvio alle Camere del suo governo, Prodi ha congedato i Dico – la versione dei Pacs cui avevano lavorato con una travagliata mediazione i ministri Rosy Bindi e Barbara Pollastrini – dall’agenda di governo, non comprendendoli tra i 12 punti su cui impegnava sé stesso e l’Unione ad un serrate le fila nell’azione dell’Esecutivo. Ed ha affidato il destino del disegno di legge all’agenda parlamentare, dove a tutta evidenza il provvedimento non ha la maggioranza. Il destino del governo non poteva essere più appeso – oltre che a questioni di politica economica, di politica estera e di legge elettorale – anche ad un provvedimento sulle unioni civili, che certo era nel programma di governo, ma che ad una più meditata riflessione non è apparso essere tra le priorità condivise del Paese, come ha confermato qualche giorno dopo Marina Sereni: «I Dico non sono una priorità. Ne riconosco l’importanza simbolica, ma il Paese ci chiede di affrontare anche altri temi, dall’economia al lavoro alle famiglie. Poi ci sono anche i Dico» (il «Corriere della Sera» del 2 marzo ’07).
E sì che la Sereni, come vicecapogruppo dell’Ulivo, era stata la promotrice della raccolta di firme per la presentazione di una mozione unitaria del gruppo in materia quando i Dico erano ancora chiamati Pacs. Per quanto sempre il 2 marzo, in un’intervista al «Corriere della Sera», il ministro Barbara Pollastrini abbia dichiarato che «con questo disegno di legge noi non vogliamo levare nulla alla famiglia; non vogliamo equiparare altre forme di convivenza al matrimonio», l’impasse del governo indica bene quanto sia difficile tradurre in diritto positivo, in leggi, orientamenti e comportamenti sociali che hanno eminente rilevanza etica, far diventare “negozio giuridico” un “commercio innanzi tutto umano”, credere di volere, come si è espressa la Pollastrini «soltanto allargare i diritti e i doveri di ogni persona che investe in affetto, amore, solidarietà». Non solo difficile, ma forse anche improprio, chiedere allo Stato di diritto di sorvegliare eticamente, oltre un certo limite, gli investimenti affettivi delle persone.
Di un approccio di questo tipo sono rimasti vittime i Dico. Il che ancora una volta conferma il fatto che, per quanto confuso possa essere, in un bipolarismo politico appena decente, ed il bipolarismo italiano non sembra ancora essere giunto neanche a questo livello, le “questioni eticamente sensibili” sono uno degli ambiti, e non certo il solo, in cui dovrebbe essere sempre cercato un minimo comune denominatore condiviso tra le contingenti maggioranze e opposizioni, ad evitare anche il rischio di un’etica di governo tutelata dalla legge, o di opposizione, quando questa poi, l’opposizione, si rifacesse alle successive elezioni. Le risposte che queste questioni attendono non possono venire dall’aritmetica delle urne, o essere a queste orientate, ma solo da un confronto senza pregiudizi delle coscienze in Parlamento e nella società, per accertare quanto può essere giuridificato, farsi norma, dei valori che orientano le relazioni tra persone. Questo non solo per l’intrinseca difficoltà di questo accertamento, stante l’oggettiva differenza di convincimenti morali e religiosi sui temi in gioco, ma anche per evitare quanto più possibile il rischio della distorsione politica in senso deteriore, cui ogni verifica di questo tipo è esposta a motivo che le questioni di principio si prestano meglio di altre a logiche identitarie di contrapposizione all’interno della coalizione, e tra coalizioni, per strappare un più o meno cospicuo dividendo di visibilità politica a danno dei partners o dei competitors; il che si traduce nel fatto che su questa strada anche presunte autosufficienze parlamentari di una coalizione inciampano presto. Un sentire condiviso su questo terreno, da costruire il più ampio possibile in Parlamento e nella società, non solo è necessario, dunque, ma anche giusto.
Di questa distorsione, cui questi temi sono sempre esposti, si era già avuto un corposo assaggio nel caso Welby, con la forte strumentalizzazione politica operata dai radicali, cui aveva risposto una non meno agitata strumentalizzazione di segno opposto dell’autocostituita filiale italiana dei teo-con. Poi anche questa querelle – ampiamente mescidata di idealità e valori, e pregiudizi e prese di posizione politiche spesso viziate da interessi di identità di parte e di consenso presso il proprio vero o presunto elettorato – grazie all’assunzione di responsabilità di un privato cittadino, il dott. Mario Riccio, l’anestesista che ha risolto il caso nel modo più opportuno in scienza e coscienza, si è stemperata nella vischiosa melassa dell’agenda politica italiana. Il che forse porterà almeno il vantaggio sull’etica e la medicina di fine vita di una legislazione che dovrebbe essere sì ormai d’urgenza, giusto il richiamo del Presidente Napolitano, ma non di emergenza – dove il rispetto dovuto alla vita è anche rispetto dei modi come la vita muore, perché è la vita, che piaccia o non piaccia, a prevedere la morte: un assioma che dovrebbe essere sempre tenuto presente contro ogni accanimento terapeutico e insieme contro ogni mentalità eutanasica, che faccia della vita una privata disponibilità dell’individualismo proprietario di questo passaggio di millennio.
La stessa interessata confusione di piani tra istanze e attese degli individui e della società, valori e convincimenti morali, sollecitazioni giuridiche e religiose, orientamenti programmatici e agende politiche degli attori in gioco appesantite oltre ogni limite di tollerabilità da contingenti esigenze di tattica politica e identitarie tra partners dello stesso schieramento e tra coalizioni, si è purtroppo vista all’opera anche sulla vicenda dei Dico, il disegno di legge sui Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi, in cui si è tradotto alla fine la tormentata vicenda dei Pacs. Un esito che ha visto un irrigidimento non solo di principio, ma ampiamente veicolato nella società e nel dibattito politico, delle gerarchie vaticane, fino a suscitare appelli e raccolte di firme contrapposte in ambito cattolico tra chi ha difeso l’opportunità del disegno di legge del governo e chi si è allineato alle posizioni più intransigenti espresse dalla CEI.
Benché nel discorso del 17 febbraio ai nunzii apostolici dei Paesi latino americani in vista del prossimo viaggio in Brasile, discorso che ha avuto ampio risalto sulla stampa, Benedetto XVI abbia ricordato che «non spetta agli ecclesiastici capeggiare aggregazioni politiche ma ai laici cristianamente maturi e professionalmente preparati», la sua denuncia che «la famiglia mostra segni di cedimento sotto la pressione di lobby che hanno la capacità di incidere sui processi legislativi» è apparsa chiaramente una presa di posizione molto netta sul punto, e di fatto ha avallato il contenuto, se non la forma, delle prese di posizione della CEI di Ruini contro i Dico.
Ci si è subito impegnati (il «Corriere della Sera» del 18 febbraio) a notare le differenze tra Curia Romana e CEI, da un lato, e Chiesa cattolica di rito ambrosiano, dall’altro, con il Cardinale di Milano Tettamanzi ed il suo predecessore Martini, più attenti, a parere di molti osservatori, ad una promozione attiva della famiglia, che ad una difesa ad oltranza del suo status quo giuridico («La famiglia va difesa e promossa, promossa più che difesa», Martini), invitando ad un’azione pastorale verso i conviventi; terreno su cui la Chiesa può e deve agire in prima persona, facendosi «più vicini» alle coppie di fatto (Tettamanzi).
L’antitesi tra Curia romana e rito ambrosiano è troppo facile per essere vera, e difatti non è vera. Sulle unioni civili, il no al riconoscimento di uno “status giuridico analogo a quello della famiglia” del Cardinale Tettamanzi è altrettanto netto. Al di là della differenza di toni tra Ratzinger, Ruini, Martini e Tettamanzi, e dei tentativi pur in essere di far approdare oltre Tevere le divisioni presenti sul tema nello stesso mondo cattolico italiano e nella sua rappresentanza politica, è più utile per la prospettiva stessa del tema, tenere bene in vista questo limite ecclesiale condiviso proposto ai «laici cristianamente maturi» alla loro adesione ad una legislazione sulle unioni civili. Tenere a mente quest’unità in radice, per l’essenziale, sulla visione della famiglia della Chiesa aiuta ad inquadrare la vera posta in gioco tra gli orientamenti politico-sociali del Magistero cattolico e quelli dei laici laicisti, se ci è concesso dirla così per farci intendere; orientamenti che si sono puntualmente espressi nelle prese di posizione del deputato diessino Franco Grillini. Che cioè i Dico non siano un punto di arrivo, ancora per altro da affinare, per riconoscere diritti alle persone stabilmente conviventi, una messa in cornice di tutele individuali già presenti nell’ordinamento, magari da implementare su questo o quello aspetto patrimoniale o morale (diritti successori, ad esempio, o legato fiduciario in caso di testamento biologico), ma un punto di partenza che comincia finalmente a tutelare i conviventi anche dello stesso sesso per un futuro riconoscimento della “famiglia” omosessuale.
Questa propedeuticità ad altri riconoscimenti dell’ordinamento per la “famiglia omosessuale” dei Dico, ampiamente presente nelle aspettative dell’associazionismo gay, e non solo, che vede in questi diritti “familiari” dei gay, da collocare nell’ordinamento, un’acquisizione che porterebbe l’Italia al livello dei paesi europei più avanti sul tema, e perciò più avanzati, il che già è in sé un giudizio di disvalore di quanto fin qui sarebbe acquisibile con i Dico, questa propedeuticità è proprio l’effettiva preoccupazione della gerarchia, che non appare mossa da volontà punitive per chi vive fuori dei dettami della Chiesa, ma vede nei Dico, più che un riconoscimento di diritti dei singoli che convivono messo in una cornice unitaria, proprio l’avvio di un processo legislativo che porterà all’accoglienza nel nostro ordinamento di nuove forme di famiglia, compresa quella fondata su unioni omosessuali. Insomma Ratzinger e Grillini vedono per i Dico, da posizioni completamente opposte, la stessa cosa – un primo passo – e lo stesso futuro. Questo già basta a spiegare, perché per la Chiesa essi siano diventati una trincea di resistenza ad oltranza all’influenza laicista sulla società e sulla giurisdizione sulla famiglia. D’altro canto questo scenario è molto meno ipotetico di quanto possa apparire, giacché proprio la generica destinazione dei Dico – che per aggirare il problema vero, lo status in prospettiva nella giurisprudenza italiana delle unioni omosessuali, ha preferito declassificare a vincolo affettivo la specificità dell’orientamento sessuale dei conviventi – lo rende plausibile. Con questa elusione della specificità dell’orientamento sessuale della convivenza, i Dico hanno sommato scontentezze più che risolto problemi, non decidendo con nettezza su ciò che le coppie omosessuali possono attendersi dalla legislazione, e con ciò alimentando da un lato frustrazioni che sperano di rifarsi in prospettiva, dall’altro timori che, per iniziative nelle aule di giustizia di coppie che vi siano interessate, il legislatore sia costretto a riconoscere il diritto all’adozione, ad esempio, prima in capo a conviventi eterosessuali, la cui stabilità di coppia sia sancita dai Dico, e poi per analogia a conviventi omosessuali, la cui stabilità affettiva chieda di essere equiparata a quella delle coppie eterosessuali, e sancita per altro dal ricorso allo stesso strumento giuridico; riducendo, così, a problemi di stabilità di coppia più controverse questioni sull’identità di genere e sul ruolo che queste identità giocano nelle dinamiche della psicologia infantile e nei diritti dei minori.
Insomma, in quel misto di buona volontà di venirsi incontro e di ipocrisia con cui è stato possibile farli nascere, i Dico sono un testo ora reticente, ora confuso, che oscilla tra la tutela delle legittime aspettative delle coppie omosessuali e questioni di tutela di diritti individuali che sono più materia di un welfare ampiamente solidale che di diritto della famiglia intesa come istituto sociale orientato alla procreazione, che è il nucleo duro ontologico, irriducibile ai sofismi, della cosiddetta “famiglia naturale”, anche quando per avventura, come può essere, si pensi all’Islam, non è legata a strutture di coppia monogamica. Il punto è importante, perché al di là della tradizione culturale e valoriale, religiosamente consolidata, cui si rifà la Chiesa cattolica («la roccia dell’amore coniugale, fedele e stabile, tra un uomo e una donna», su cui solo «si può edificare una comunità degna dell’essere umano», di cui è tornato a parlare Ratzinger), non è facile diluire il concetto di famiglia naturale orientata alla procreazione nella famiglia allargata, aperta, ripensata, e magari nella “famigliona” proposta come allegra estensione del serioso lessico familiare del passato. La famiglia orientata alla procreazione resta la cellula germinale di ogni forma sociale pensabile senza risibili peana ai “nuovi stili di vita”, che pure si sentono dai rotocalchi, perché alla società, come che poi voglia conformarsi, fornisce gli individui, le persone, le unità relazionali di base del suo stesso poter essere; individui che come elementi atomici che possano disporre totalmente di se stessi sono solo un’astrazione “liberale”, e di un cattivo liberalesimo per giunta.
L’elusione della questione, che è quella vera, che si è riproposta nei Dico, era già nel programma dell’Unione, lì dove si affermava che l’Unione avrebbe proposto «il riconoscimento giuridico dei diritti, prerogative e facoltà alle persone che fanno parte delle unioni di fatto», e che «al fine di definire natura e qualità di una unione di fatto non è dirimente il genere dei conviventi né il loro orientamento sessuale, e va considerato piuttosto quale criterio qualificante il sistema di relazioni sentimentali, assistenziali e di solidarietà da loro stabilito e condiviso». Un’enunciazione programmatica, che a posteriori, visto ciò che si è poi scritto nei Dico, sembra già orientata a servirsi di una nozione allargata di affettività relazionale per non misurarsi con la presenza dell’orientamento sessuale esercitato nell’affettività di un’unione, che solo fa di un’unione tra persone, che può avere infiniti scopi, una conjunctio carnale, con tutto ciò che questo significa sul piano dell’affettività solidale e sentimentale di due persone, e che solo procura ai soggetti così relazionati il loro sentire di “coppia”; che è per altro ciò che vogliono coerentemente molti di loro sentirsi riconoscere e tutelare dalla società. Sul piano della logica e del sentire comune le “unioni di fatto”, le “coppie” si fanno e si disfanno, come ben si sa, in questa conjunctio. Ed è inutile fingere, con eccesso di spiritualismo affettivo, contrabbandando l’eros per agape, che il punto non sia questo.
Se si torna a porre senza “pruderie”, o anticipate pseudomediazioni valoriali affidate alla confusione concettuale, l’orientamento sessuale della coppia che chiede tutela giuridica alla società al centro del discorso, si fa insieme un’operazione di verità, e forse qualcosa di meglio dei Dico, che è bene che siano affidati, per quello che vogliono normare, alla libera dialettica parlamentare. Si potrebbe così con sincerità ammettere, che per una coppia eterosessuale i Dico, i Pacs, o quello che si voglia, in presenza di un matrimonio civile che può avere fine in tempi ragionevoli con il divorzio, sono effettivamente un matrimonio di serie B. In linea di principio i Dico, i Pacs, o qualsiasi fattispecie giuridica analoga, hanno un’evidenza di rilevanza sociale solo per coppie omosessuali; una coppia eterosessuale, che voglia innanzi tutto essa stessa al suo interno avere quell’atteggiamento solidale che si chiede alla società di garantire, ha davanti a sé il matrimonio civile; qualsiasi ipotesi surrogata o offre tutele equivalenti, ed allora non si capisce (se non per polemica identitaria o per fumus ideologico) il bisogno che essa venga offerta sul piano giuridico; oppure offre tutele più deboli, e quindi sarebbe un modo di secondare da parte del legislatore atteggiamenti finto solidali interni alla coppia, a scapito soprattutto del partner più debole, accontentato con un Dico, per non accedere magari alla richiesta di un matrimonio civile; ed in linea di principio qualsiasi convivenza può fornirsi da un notaio di specifiche tutele dell’uno verso l’altro, se la coppia lo desidera.
Da questo punto di vista sarebbe meglio che i Dico mettano in cornice unitaria, implementadoli per ciò che serve, diritti dei singoli che convivano stabilmente su base affettiva, e questo nell’ambito della riscrittura delle regole del welfare italiano alla luce delle nuove emergenze sociali e valoriali. Ciò aiuterebbe a concentrarsi nel dibattito etico, politico e giuridico, sull’effettività concreta di altri sistemi di relazioni sentimentali, nel loro ineludibile orientamento sessuale che li struttura come “coppia”, e che per definizione non sono famiglia naturale orientata alla procreazione. Queste coppie, quelle omosessuali, possono e devono ben trovare nel codice tutele sufficienti a venire incontro ad una giusta esigenza di solidarietà e tutela sociale dei partners più deboli. Ma tutto questo non può far dimenticare un’ovvietà del senso comune: che la famiglia naturale riceve il suo privilegio di tutela preferenziale da parte della società perché ne è la cellula germinale; anche di quei sistemi di relazioni sentimentali la cui indubbia ricchezza umana si conclude in se stessa, non essendovi almeno implicito il terzo, il figlio, che è il vero oggetto di tutela dell’istituto familiare. Ciò che il “diritto naturale” della famiglia naturale richiede al senso comune non è la tutela dell’affettività in generale in gioco in un incontro tra persone, ma l’orientamento procreativo di questo incontro, paradossalmente il “materialissimo” accoppiamento procreativo, e il maternage di coppia che ne discende per il nato; e non la coppia in sé, come una diffusa sensibilità ora romantica ora edonistica delle società contemporanee tende a privilegiare. Coppia e famiglia sono due concetti, e due enti, diversi. È solo la famiglia che genera una comunità dove anche la coppia trovi il suo spazio morale e i suoi diritti. Il legislatore e la buona fede nel dibattito non possono e non devono dimenticare quest’assioma.
Assumere che le per coppie omosessuali possa esserci un riconoscimento giuridico a richiesta congiunta giuridicamente “esclusivo” per queste coppie, può a mio avviso sgombrare il campo da surrettizie equiparazioni, raggiunte poi per contenzioso giudiziario, tra aspettative di diritto per le coppie omosessuali e quelle eterosessuali, soprattutto in riferimento all’adottabilità di minori, che è un punto nevralgico. La legge non può prevedere di venir meno al diritto dei minori a figure genitoriali tradizionali, come tutta l’evidenza dell’esperienza sociale e delle conoscenze sull’affettività e sullo sviluppo psicologico dei minori suggeriscono. Argomenti surrettizi – che l’adozione possa essere consentita a singoli, che omosessuali hanno o possano avere figli fuori della loro affettività o sessualità prevalente o elettiva, che le coppie eterosessuali possano essere esse stesse incubatori di disagio per i figli – non reggono all’esigenza logica che la legge favorisca normativamente la previsione migliore per un minore, di avere cioè una famiglia stabile con figure genitoriali complementari. Se davvero si vuole favorire l’adozione, si attui una politica di forte sostegno economico diretto e indiretto alle famiglie che adottano, e non ci si limiti ad allargare semplicemente il mercato degli utenti, col rischio di secondare non bisogni psicologicamente sostenibili da tutti i soggetti coinvolti (aspiranti genitori ed adottandi), ma fantasmi di desiderio unilaterali, come le mamme-nonne; già questa una deviazione penalizzante il figlio del desiderio eterosessuale quando si astrae dalle possibilità fisiologiche della “famiglia naturale”.
Per altro Pacs, o una normativa analoga, rivolti solo alle coppie omosessuali favorirebbero l’individuazione delle tutele specifiche per questa fattispecie affettivo-relazionale, dove l’obiettiva difficoltà sociale dell’espressione dell’affettività può immettere nelle dinamiche di coppia distorsioni strumentali nella relazione, a scapito del soggetto psicologicamente o economicamente più debole. La società non può premiare scorciatoie fai-da-te e furbizie per accedere a tutele dello stato sociale, né può mettersi a computare quanti anni o mesi siano necessari a maturare diritti e doveri reciproci in una relazione di coppia, e quante annualità di tutela spettino in base alla durata del rapporto, equiparando questa durata ai versamenti di un’assicurazione sulla vita. È giusto che due persone omossessuali se decidono di dirsi sì sappiano che si impegnano reciprocamente almeno quanto in un matrimonio civile, ma sappiano altresì senza ipocrisie dalla legge che la loro unione matrimonio non è, perché non è un’unione orientata alla procreazione, e non può quindi aspettarsi dalla società tutele giuridiche proprie della famiglia naturale come cellula germinale della società.
In generale, deve essere chiaro, ad esempio, che in situazione di scarsità di risorse la relazionalità eterosessuale volta alla procreazione, la cosiddetta famiglia naturale, è la naturale destinataria della maggior cura della società, perché ne è la cellula germinale e riproduttiva; la spesa di solidarietà di una società deve essere innanzi tutta rivolta al suo futuro, cioè ai nuovi nati e a quelli che devono nascere, a quelli che non votano; questo può essere per taluni poco interessante al botteghino della politica, ma è decisivo per una politica degna di questo nome, che abbia davanti agli occhi il futuro di chi rappresenta e non il proprio impiego rappresentativo da difendere, ancorandosi a questo o a quello interesse o aspettativa sociale che vota.
Insomma non c’è bisogno di Papa Ratzinger per una politica responsabile per proporsi la più convinta promozione e difesa della «la struttura naturale della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna». E più in generale è tempo – sui temi eticamente sensibili che riguardano famiglia, religione, morale – che la sinistra esca ancora più decisamente da una pigrizia ideologica conservativa dei propri stilemi e delle proprie idiosincrasie, che non solo è ad alto rischio di consenso (come si poneva già in evidenza nel rapporto ISPO, Le questioni eticamente sensibili; le opinioni degli italiani illustrato da Renato Mannheimer nel 2005 a Orvieto all’assemblea annuale di “libertà Eguale”, il che sarebbe il meno, ma è anche incapace di rispondere ai problemi veri e diffusi – su questi temi – degli italiani.
I temi in questioni sono e saranno temi di lungo periodo per i decenni a venire delle nostre società, e proprio per questo è necessario che una sinistra riformista adotti un ripensamento strategico, senza furbizie tattiche ad alto rischio di credibilità. Insomma è tempo che si cominci a riflettere sul fatto che “la famiglia naturale”, la “sacralità della vita”, almeno della propria, il bisogno di un’identità collettiva veicolata dal sentimento religioso o quanto meno dal sentire tradizionale, hanno una “naturale” maggioranza nel sentire comune. Non è necessariamente dire “una cosa di sinistra” o “progressista” porsi a priori in modo minoritario rispetto al sentire comune; e non è detto che i “luoghi comuni” del sentire collettivo, i proverbia ethica siano di per sé erronei; e richiedano sempre una smentita da parte di una pedagogia politica modellata su gruppi sociali ideologicamente “forti” ancorché minoritari. Una tutela meramente sommatoria di minoranze, ognuna in sé degna di rispetto, non fa necessariamente un sentire comune condiviso da offrire al corpo sociale, soprattutto nei momenti di transito politico e sociale più segnati dall’insicurezza. Insomma, etiche “locali” individuano e strutturano certamente gruppi sociali degnissimi di tutela e di rispetto, ma un’etica pubblica non può risolversi nella mera recezione della loro somma, perché un’etica pubblica, per quanto di queste etiche si alimenti e debba alimentarsi nella “discussione”, poi però un punto di equilibrio “identitario”, che coinvolga la maggioranza lo deve trovare, se non vuole ridursi sic et simpliciter ad un semplice esercizio di discussione di etica pubblica. Essere di sinistra, liberale e democratica quanto si vuole, non significa cavalcare ogni “dialetto sociale” che viene parlato, e ancor meno ogni “gergo sociale” che si affermi pro tempore.
Nella costruzione di un’etica pubblica condivisa, si dovrebbe sempre stare attenti a congedarsi troppo facilmente dall’“immaginario” che si raccoglie nelle sempre risorgenti istanze, nella nostre società, di “diritto naturale”, quasi una parolaccia neocon o clericale, la cui morte in tanta cultura laica sembra un’ovvietà e una parola d’ordine – ma che tanto ovvia non sarebbe se alla voce “diritto naturale” si leggessero non venerabili e passate concezioni giusnaturalistiche, ma il loro senso “discorsivo”, cioè la funzione di trovare all’agire un direzionamento da fonti normative che non sono in ultima istanza solo la cultura o le culture del presente, più o meno urbanamente rappresentate nel dibattito pubblico, ma anche le “cose stesse”, intese almeno come i fatti – le cose divenute – di lungo periodo che incontriamo nell’osservazione scientifica come dato biologico e culturale circa l’uomo. Nel discernimento richiesto alla nostra responsabilità, oggi, tra bisogni e desideri, che la tecnica ci promette di soddisfare in gran copia, la nostra responsabilità può ben far conto sull’enorme riserva di sperimentazione e di ricerca assolte, su lassi di tempo per noi inimmaginabili, dalla “natura” in noi e fuori e di noi e dalla società, dalla lunghissima durata dell’ominizzazione biologica e culturale. Il che ha una qualche rilevanza proprio per un’etica dell’immanenza, che non abbia altri orientamenti di senso che l’esperienza di sé che può osservare; per un’etica che continui a vedere il radicamento, aiutato dalla tecnica, della specie umana nella sua “forma di vita” che è sempre già integrata biologicamente e storicamente, e non l’astrazione per via tecnica, e per irriflesse sperimentazioni sociali, da questo radicamento; per un’etica che sappia vedere che l’homo cultura è sempre anche una “tradizione” e non solo il luogo dell’“innovazione”.
C’è sempre più bisogno, e la vicenda dei Dico ne è una conferma, di una politica che sappia presidiare il mainstream dei convincimenti pubblici; solo così avrà più possibilità di veicolare temi più complessi, di proporre soluzioni avanzate in termini di equità e di solidarietà anche a questioni eticamente sensibili avvertite come meno centrali dall’opinione pubblica. È il caso del dibattito che si è aperto prima sui Pacs, sui patti civili di solidarietà, e sui Ccs, sui contratti di convivenza solidale e di diritto privato, e poi sui Dico. Sono cose diverse, anche se possono servire allo stesso scopo di solidarietà sociale, purché ci sia un’onesta comunicazione sulla questione, sgombrando il campo da finzioni ideologiche. È chiaro che si tratta – elettivamente – di venire incontro all’esigenza di offrire forma di tutela sociale e giuridica a coppie omosessuali conviventi, stabili. Per le coppie eterossessuali, ormai anche la Chiesa segue il buon senso comune, consigliando – magari difensivamente, come male minore, dal suo punto di vista – di rivolgersi almeno al matrimonio civile, per la tutela della famiglia. Dirlo con franchezza, e trovare soluzioni solidali alle questioni in gioco, senza spingere troppo in là l’analogia tra la famiglia naturale orientata alla procreazione e all’educazione dei figli e la “famiglia” omosessuale per il tramite di un’interpretazione persino provocatoria del “matrimonio”, è possibile, purché ci si sottragga al solito gioco di individuare un mero target elettorale di riferimento cui ci si vuole rivolgere nella comunicazione politica. Ed è tanto più possibile se la legislazione segua i problemi e i bisogni dei soggetti coinvolti e non lo scivoloso territorio del “desiderio”.
Questo ci aiuterà a non fare dei Pacs o dei Dico la bandiera della politica “di sinistra” della famiglia. Facessimo così, non faremmo un buon servizio all’Unione, e nemmeno alla verità delle cose. La sinistra non può lasciarsi avvolgere da questa bandiera, proprio perché sulla sua bandiera – che deve restare la tutela dei valori del mainstream sociale, a cominciare della “famiglia naturale” (normata religiosamente o civilmente) sancita dall’art. 29 della Costituzione – questa questione possa starci con dignità ed efficacia. Sono per altro convinto che sarebbe più facile proporre tutela sociale e giuridica in Italia alle coppie omosessuali stabili, se in Italia si riscontrassero gli standard europei di tutela della famiglia come nucleo portante della società. Non a caso, la patria dei Pacs, la Francia, spende tre volte più di noi sul Pil a sostegno della famiglia. In Italia, mi sembra diffusa l’idea che sia la famiglia con figli la vera minoranza, nel senso che ha meno diritti di quanto dovrebbe. Basta dare uno sguardo ad alcune delle ultime elaborazioni Eurispes sui dati Eurostat, per verificare l’effetto di depressione demografica di questa minore tutela. Meno aiuti è uguale a meno figli: il numero di bambini per donna in Italia è 1,2, in Francia 1,9; la media UE è 1,5 – l’investimento a sostegno della famiglia sul Pil in Italia è allo 0,9%, in Francia al 3,0%; la media UE è al 2,3%.
Se il sostegno alla famiglia fosse sul 3% (la Svezia arriva al 3,5) o almeno il 2,3 media UE, forse sarebbe più facile anche comunicare meglio, quando la coperta delle risorse è stretta, la sostenibilità morale di Pacs e dei Dico.
In generale, ritengo sbagliato dare la sensazione che per difendere l’albero dei diritti dell’individuo, dell’individualità sociale, siamo disposti a perdere la foresta, la comunità riprodotta e da riprodurre, presidiata dalla famiglia naturale e dalla natalità, che solo consente ogni forma di umana relazionalità sociale – anche di quelle forme che non hanno in sé o non possono avere alcuna vocazione alla produzione e riproduzione – si sarebbe detto una volta – della comunità in quanto tale. Non è solo questione socioeconomica, di sostenibilità delle curve demografiche per un sistema sociale. È terreno su cui si gioca la possibilità stessa di un’“identità” culturale – e nazionale – cui è difficile pensare che una comunità reale possa o voglia rinunciare.
Il bisogno di comunità, di sentimento identitario mediato dalla comunità di appartenenza, si segnala tanto più fortemente, quanto più è alto il tasso di incertezze diffuse individuali sul terreno morale o economico. Sulle questioni eticamente sensibili, è il sentimento di appartenenza comunitaria che di fatto orienta i comportamenti oggettivi, soprattutto sulle questioni indecise, che aumentano l’insicurezza. Lo si evince, ancora una volta, dal su ricordato sondaggio di Mannheimer, che segnala la famiglia, la cerchia amicale, la chiesa, cioè “agenzie sociali”, a livelli diversi, di aggregazione comunitaria, come le fonti oggettive di orientamento “comunitario” delle scelte. In questo ambito, per altro, la destra è più favorita elettoralmente, perché, quando le cose “tirano”, cavalca l’individualismo economico e le “aperture” sociali senza remore, senza complessi, ed altrettanto senza complessi e senza remore cavalca il mainstream comunitario, quando le cose vanno male e l’individuo si affida alla “protezione” della comunità, della tradizione. Ne segue che la destra ha più facilità ad adeguarsi alla corrente; la sinistra deve saperla interpretare in anticipo. Oggi, nel fronteggiamento delle difficoltà economiche, da un lato, e delle insicurezze morali conseguenti l’innovazione tecnologica e biomedica, l’emergenza di nuovi stili di vita, l’incontro interculturale della società globale, dall’altro, la sinistra dà prova di un singolare strabismo. In ampi suoi settori, è “comunitaria”, falsamente comunitaria, cioè corporativa, in economia, tutelando più gruppi sociali organizzati che soggetti deboli – e qui magari dovrebbe essere “liberale”, cioè liberatrice di opportunità per gli individui – e “liberale”, cioè individualista sui valori – in una temperie in cui nell’incertezza diffusa quanto ai valori in cui riconoscersi o da promuovere l’individuo tende ad affidarsi, spesso sensatamente, alla comunità o alla tradizione. Se dovessi chiudere con uno slogan, su ciò che ci servirebbe oggi, direi: “più regole sui valori, per generare sicurezza, meno regole in economia per liberare opportunità”.
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