Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno IX - n. 1 > Saggi > Pag. 8
 
 
La parabola della politica economica del governo Prodi. Una valutazione ex post
di Massimo Lo Cicero
1. Antefatto e dinamiche di contesto nel corso del 2007

La prima legge finanziaria varata dal Governo Prodi, quella approvata alla fine del 2006, aveva sollevato quattro ordini di problemi: il quesito sulla inadeguatezza della propria politica ovvero sulla incapacità di comunicare i contenuti della propria politica da parte del presidente del consiglio; la coerenza tra quelle politica e il progressivo rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro che si affacciava sulla scena internazionale; la contraddizione latente tra i contenuti del Dpef, nel quale poneva in primo piano il ridimensionamento della spesa pubblica e le necessarie riforme di struttura per garantire la stabilità nel tempo di quel ridimensionamento; la differenza tra una politica economica - costruita sull’intensificazione della pressione fiscale per garantire, parallelamente, sia il rispetto del patto di stabilità, che una maggiore equità sociale - ed una ipotesi alternativa che poneva in primo piano il legame tra incentivi alla crescita e stabilizzazione della finanza pubblica, avanzata da Mario Draghi, nella sua qualità di Governatore della Banca Centrale. L’insieme di questi quattro interrogativi si collegava esplicitamente al confronto sulla identità politica che avrebbe dovuto assumere il Partito Democratico, allora considerato poco più che una ipotesi di lavoro segnata da un elevato grado di incertezza sul merito del percorso possibile per la sua realizzazione1.
Le circostanze economiche durante le quali nasceva il Governo Prodi erano abbastanza singolari. Esso debuttava parallelamente al formarsi di una robusta onda espansiva, che percorreva la economia mondiale e trascinava una parte significativa della nostra economia, rimettendola in moto ad un significativo, rispetto agli anni precedenti, tasso di crescita. Un tasso inferiore, comunque, a quello medio mondiale ed a quello dei maggiori paesi europei. Una parte delle imprese italiane intercettava questa opportunità, amplificandone gli effetti. Questa felice congiuntura si affiancava, tuttavia, ad una situazione preoccupante in termini di struttura. La produttività globale del sistema Italia rimaneva bassa e la sua capacità di competere debole. Gli intermediari ed i mercati finanziari non erano ancora in grado di supportare adeguatamente la trasformazione necessaria per rilanciare la crescita. La finanza pubblica rimaneva un grande vincolo al decollo di una strategia espansiva. Eccesso di spesa ed eccesso di pressione fiscale, accompagnati da una marcata inefficienza nella erogazione dei servizi che si combina, amplificandola, con la bassa produttività del sistema. Ipertrofia ed inefficienza della macchina pubblica interagivano negativamente anche con il persistente dualismo tra Nord e Sud. Il Nord reagiva, ed ancora oggi reagisce male alla pressione fiscale eccessiva ed all’incapacità organizzativa del settore pubblico.
Il Sud era e resta una economia sussidiata ed incapace di integrarsi davvero nel processo di convergenza europeo. Nell’anno alle nostre spalle è cresciuto progressivamente un senso di critica e di insofferenza verso il Governo, perché lascia irrisolte ed aperte sia una questione meridionale che una questione settentrionale. Ma la seconda appare certamente dominante nell’agenda del Governo e nella stessa maggioranza, forse anche nei primi passi che muove il Partito Democratico.
Il Governo Prodi nasceva, sul terreno della politica italiana in senso stretto, da una maggioranza elettorale molto risicata. La cosa più logica da fare era evidente, ma la strada imboccata fu radicalmente diversa. E la sua prima legge finanziaria ne è ormai una oggettiva testimonianza.
Bisognava creare condizioni di cooperazione e convergenza sul terreno parlamentare, per alimentare una legislazione capace di dare corso a riforme condivise, recuperando anche parte delle norme maturate nelle legislature precedenti: in relazione al regime previdenziale ed al mercato del lavoro. Riforme condivise avrebbero dilatato le opportunità offerte dalla congiuntura internazionale. Bisognava anche agire tempestivamente, senza riorganizzazioni radicali degli apparati ministeriali e senza dilatare la frammentazione delle deleghe, per accelerare, a legislazione esistente, ma con una spinta efficace in termini di gestione amministrativa, la elaborazione di progetti e programmi di spesa finanziati dall’Unione Europea o per spendere somme disponibili ed impantanate nei meandri delle difficili relazioni tra enti ed organizzazioni del settore pubblico.
Il Governo, d’altra parte, nasceva da un programma che avrebbe anche potuto essere coerente con questo approccio. Privilegiare la ripresa della crescita per chiudere il dualismo tra Nord e Sud e per garantire, in prospettiva, maggiore equità. Liberalizzare il sistema, riordinare le public utilities ed amplificare gli effetti virtuosi delle avvenute privatizzazioni, riproporre il merito e l’efficacia come i valori guida per la produzione di beni pubblici: sanità, educazione, valorizzazione del patrimonio immobiliare controllato dallo Stato e partnership con i privati per creare nuove infrastrutture. Comprimere i livelli di spesa pubblica, razionalizzandone il contenuto, e rivedere il regime della previdenza. Incalzare il sistema bancario perché, nella loro autonomia, ed aprendosi ad una maggiore competizione, i mercati finanziari fornissero una maggiore capacità di spinta alla crescita potenziale.
La strada percorsa, sulla base dei provvedimenti disposti nella legge finanziaria del 2007, è stata radicalmente diversa e si è arenata in un cul de sac. In Parlamento, ostentando i muscoli, si produce debolezza operativa e, per certi versi, il ricorso alla fiducia eccita la opportunità, per i gruppi di interesse e le lobbies, di ottenere risultati nello zibaldone finale, dell’articolo unico della legge di bilancio, e nella frantumazione estrema dei commi e dei temi che essi inseriscono nel testo finale della legge di bilancio. Il Governo, grazie all’impianto “pesante” di quella legge finanziaria ha accentuato la pressione fiscale e, così facendo, ha ottenuto un effetto anticiclico, riducendo l’impatto positivo della ripresa mondiale in corso. Ha anche ottenuto un effetto assai modesto sul tema dei trasferimenti di reddito da un gruppo sociale ad un altro ma, purtroppo, ha aumentato, anche per finanziarie questi trasferimenti, la pressione fiscale ed ha razionato parte della spesa per gli enti locali, che hanno dovuto innalzare tariffe ed altri oneri che, comunque, hanno generato nel corso dell’anno un ulteriore erosione nel potere di acquisto dei lavoratori dipendenti, i più colpiti dalle imposte dirette. Si è generata, progressivamente, una riduzione dei consumi interni che ha penalizzato il gettito delle imposte indirette ed il tono complessivo della domanda aggregata. Infatti, sia nel DPEF di quest’anno, che nelle analisi emerse in sede di sessione di bilancio in autunno, il tasso attesa di crescita dell’economia italiana appare in flessione, e non solo per questi motivi ma anche per altri, legati a fattori esogeni di cui parleremo in seguito.
Che cosa è accaduto nel corso del 2007 e quali sono i tratti della legge finanziaria approvata per il prossimo esercizio di bilancio, quello del 2008?
Sono entrati prepotentemente sulla scena politica altri quattro grandi temi di confronto; tre di carattere domestico ed uno di respiro internazionale.
Sono tornate sulla scena della politica nazionale tre questioni:
- il superamento di un bipolarismo, fondato su federazioni di partiti coalizzati ex ante, ed un ritorno di attenzione al regime elettorale, nella speranza che una sua riforma possa migliorare la qualità del dibattito ed i contenuti operativi della politica nazionale;
- Mario Draghi ha posto, coerentemente con il suo impianto di ragionamento, l’obiettivo del superamento del dualismo tra Nord e Sud come una strada necessaria al paese per ritrovare una dimensione competitiva, alla scala europea ed a quella del mercato mondiale;
- la opzione di una politica finanziaria orientata ad un radicale incremento della pressione fiscale - sia per seguire una spesa che non veniva ridimensionata, che per spendere in nome di una possibile equità sociale raggiunta in chiave redistributiva piuttosto che con riforme profonde della organizzazione e delle competenze della pubblica amministrazione pubblica - ha generato una compressione del tenore di vita, e della domanda per consumi interni, ed ha aperto una sorta di rincorsa tra apparati centrali ed apparati locali dello Stato nell’incremento della pressione fiscale complessiva. La questione fiscale, e la inefficacia della pubblica amministrazione che la accompagna, sono diventate l’asse del confronto politico domestico.
Sul piano internazionale, infine, la crisi, originata dai grandi intermediari americani con una utilizzazione poco accorta della ingegneria finanziaria e della tecnica dei derivati, ha avviato una pericolosa fase di instabilità nel mercato globale che, combinandosi con gli squilibri - tra euro e dollaro ma anche tra i saldi reali e finanziari delle bilance dei pagamenti - che il mercato dei cambi non riesce a chiudere, senza una concertazione mondiale della politica economica, determina un incremento della incertezza ed una caduta parziale del tasso di crescita2. Fenomeni, entrambi, più marcati in Europa ed in Italia di quanto non avvenga nel resto del mondo.
Questa instabilità, di ordine economico, si collega e si amplifica, reciprocamente, grazie ad una parallela instabilità di ordine geopolitico. Circostanza che lascia insoddisfatti sia gli osservatori politici che gli attori economici. Gli annunci delle autorità, e la relazione tra quegli annunci ed i loro comportamenti, dovrebbero essere, infatti, segnali necessari per dare un senso alla politica. Anche perché, come ha detto Bernanke in un recente discorso – Monetary Policy Under Uncertainty – alla Federal Reserve di St. Louis, discutere sugli effetti della incertezza restituisce ai policy maker la necessaria “umiltà quando giudicano la propria abilità nel prevedere e gestire il corso futuro dell’economia”3. Ma veniamo al merito delle questioni sulle quali sarebbe stata utile una maggiore chiarezza.
I quattro temi che dominano l’agenda mondiale sono tutti assai rilevanti proprio per il futuro del vecchio continente e, dunque, anche per il nostro paese: il cambio ridondante dell’euro nei confronti del dollaro; le alleanze e gli scontri tra Stati Uniti e paesi emergenti del far East, del sud America e del resto del mondo; la rappresentazione politica degli interessi economici dei grandi paesi ex comunisti, attraverso fondi di investimento finanziati dagli Stati nazionali, come la Russia e la Cina; la esigenza, molto pressante, di ripensare il ruolo delle due grandi agenzie internazionali create nel 1944 a Bretton Woods, il Fondo Monetario e la Banca Mondiale.
Non è difficile leggere in questa agenda la manifestazione di un insieme di forze che hanno una direzione oggettivamente convergente: comprimere la capacità di crescita e ridimensionare il ruolo economico dell’Europa alla scala internazionale. Il cambio tra euro e dollaro è arrivato a pochi passi dalla soglia che la stessa confindustria tedesca aveva giudicato critica: 1,5 rispetto al dollaro. E gli industriali tedeschi, tra cogestione sindacale delle fabbriche e capacità di innovazione tecnologica delle imprese, sono certamente gli esemplari migliori di quella convivenza con la moneta forte, anche perché scottati dalla inflazione nel secolo scorso.
Per il giudizio sulla attuale dinamica delle relazioni economiche internazionali vale una fulminante definizione di Carlo Pelanda: siamo alla «geopolitica del caos», avendo lasciato alle spalle sia l’equilibrio della guerra fredda che quello della multipolarità, con gli Stati Uniti presenti ma sempre meno incombenti od egemoni. Un mondo a “palle di biliardo”.
«Il pianeta si sta frammentando in tante meganazioni che perseguono l’aumento della propria sfera di influenza, tutti contro tutti, con alleanze brevi e solo strumentali», sostiene Pelanda dalle colonne de «Il Foglio».
La Cina – grazie alla sua politica del cambio e dei costi interni, che regala margini di competitività alle multinazionali che producono con Joint Venture sul suo territorio – e la Russia – grazie alle sue rendite energetiche – catturano mezzi finanziari e li impiegano per investire nel controllo di attività reali rilevanti nei paesi che intendono sottrarre all’egemonia americana e nella stessa Europa.
Anche nel 1944 era difficile prevedere la forma che avrebbe assunto il mondo emerso dal secondo conflitto mondiale. Proprio per diradare l’incertezza, ed attenuare i rischi che agire in quel contesto incerto avrebbe generato, venne creata a Bretton Woods una architettura di regole ed organizzazioni che, nel tempo, esaurito il proprio ruolo, ha finito per essere obsoleta. Il dollar standard consentiva di dare una metrica alla base monetaria internazionale che avrebbe finanziato la crescita del mondo intero, per chiudere le ferite del conflitto ed accelerare il tasso di espansione del benessere. L’America avrebbe finanziato la ricostruzione perché quella ricostruzione avrebbe restituito agli Stati Uniti una marcata egemonia politica ed un grande mercato in espansione, dove vendere ed investire. Due colonne sorreggevano l’architrave del progetto: il Fondo Monetario, per garantire la compensazione tra gli squilibri, nelle bilance dei pagamenti dei paesi strutturati, derivanti dai cicli congiunturali; la Banca mondiale, per sostenere con fondi raccolti sui mercati finanziari, i deficit strutturali delle bilance dei pagamenti nei paesi in via di sviluppo.
In un mondo diseguale nascevano due organizzazioni per gestire la sostenibilità della crescita e supportare, ciascuno di loro, una classe particolari di attori, i forti ed i deboli, che si riconoscevano nelle economie di mercato. Tutto questo avveniva in un contesto nel quale i flussi internazionali di capitale erano rigorosamente pubblici, affidati alle scelte dei Governi e degli Stati che, infatti, erano anche gli azionisti delle due organizzazioni preposte alla stabilizzazione ed all’efficacia dell’impiego di quei fondi alla scala internazionale. Facile capire che il mondo globale sia oggi fatto di altra pasta. E che sul mercato finanziario globale agiscano intermediari e si sviluppino tecniche operative che con il regime dei controlli di Stato e la regolamentazione pubblica dei trasferimenti internazionale di capitale non hanno alcuna relazione. I paesi, che una volta erano deboli, tirano da molti anni la crescita mondiale, non esiste più una contrapposizione tra regimi economici ed anche il socialismo, in Cina, ed un poco meno in Russia, si dichiara compatibile con le regole del mercato. I paesi europei sono cresciuti fino all’inizio degli anni Settanta. Successivamente conflitti sociali, flessione demografica e lenta innovazione tecnologica li hanno confinati al rango di un’area ricca ma stagnante, tendenzialmente popolata di anziani. Per tutti questi motivi, nel corso del 2007, sarebbe stata utile una voce europea che riproponesse lo spirito di Bretton Woods, e non certo per una mera replica. Ma per chiedere la convocazione di una grande assise internazionale nella quale Europa e Stati Uniti, in una prospettiva convergente reciprocamente, ponessero il tema della stabilità monetaria e della sostenibilità della crescita alla scala del mercato globale. Indicando le linee sulle quali costruire la nuova missione delle organizzazioni monetarie internazionale e chiamando gli Stati del pianeta a condividere e realizzare questa nuova architettura istituzionale per il prossimo secolo.


2. Le cronache politiche ed economiche del 2007: dalla primavera all’autunno.

Il trapasso dalla primavera all’estate si caratterizza per una drastica correzione di rotta rispetto all’impianto rigorista della legge finanziaria per il 2007. In occasione del DPEF si presenta sulla scena una ipotesi che diventerà operativa pienamente solo in autunno. La legge finanziaria perde il ruolo di unico contenitore “monopolistico” dei contenuti e dei messaggi relativi all’impianto della politica economica. Prende corpo una tripartizione che vede la legge finanziaria, un accordo sul Welfare tra Governo e rappresentanze delle parti sociali, un complesso di misure legislative, o di disegni e decreti legge, che svuota la centralità tradizionale della legge finanziaria e propone altre sedi parlamentari e governative per affrontare temi rilevanti della politica economica.
Nel Dpef, il documento di programmazione economia e finanziaria, infatti, si comincia a discute molto della previdenza sociale e del mercato del lavoro4. Temi caldi che rischiano di portare sull’orlo della crisi la stabilità del Governo. Sta di fatto che i contenuti del Dpef sono interessanti ma anche, e per qualche verso, fuori fuoco rispetto alle sue funzioni tradizionali di verifica e controllo sulle dinamiche della finanza pubblica.
Il Dpef, presentato nel 2007 da Prodi e Padoa Schioppa, non ha questo profilo; non è la base per discutere della successiva legge finanziaria e per capire cosa è cambiato, e di quanto, dalla situazione descritta, nel settembre del 2006, attraverso il primo Dpef del loro nuovo Governo. Il testo del 2007 conta di 154 pagine a stampa: 4 di sintesi; 25 di analisi economica congiunturale; 85 che declinano le articolazioni e le intenzioni del Governo in materie varie e diverse di sua competenza; 41 di approfondimenti sui medesimi argomenti. 126 pagine, di allegati e precisazioni, su un totale di 154. Una sorta monografia analitica piuttosto che uno strumento stringato per mettere fuoco gli imprevisti (come il “tesoretto fiscale”) e gli infortuni da correggere (l’ostilità dei sindacati o la caduta di fiducia dell’elettorato). Il contenuto dei testi proposti dal Dpef è anche molto variegato.
Una pregevole analisi, ad esempio, ci spiega l’impatto tra globalizzazione e frammentazione delle filiere industriali nazionali, derivante dalla circostanza che i flussi di commercio internazionale sono sempre più interni all’articolazione delle filiere e sempre meno comparabili per nazioni ed industrie. Si devono interpretare e descrivere scambi che avvengono tra le imprese della medesima filiera attraverso molti confini nazionali. Ma nel Dpef si trovano anche affermazioni più banali, degne di Lapalisse: «Per il raggiungimento di più elevati tassi di sviluppo (nel Mezzogiorno) sarà necessario migliorare la capacità di intervento delle Amministrazioni Centrali, delle regioni e degli enti locali impegnati nell’attuazione delle politiche territoriali». Questa lapidaria intenzione, si colloca in un paragrafo di nove cartelle (meno del 6% del totale mentre la questione meridionale riguarda un terzo della popolazione nazionale) che, per una pagina parla dell’economia settentrionale – forse per far capire meglio gli effetti del dualismo – per altre quattro dei problemi del federalismo fiscale, delle comunità montane e della finanza locale, e, per le ultime quattro, riporta informazioni sintetiche sulle modalità con cui nel Sud il Governo spera di poter utilizzare larga parte dei Fondi Europei. La notizia più interessante sul divario tra Nord e Sud si trova, invece, negli approfondimenti sulla povertà in Italia: dal 1997 ad oggi il 24% delle famiglie povere è stabilmente domiciliato nel Mezzogiorno mentre il 4% delle stesse sono domiciliate nel Nord del paese. Se si abbandona l’esegesi puntuale e si confronta questo Dpef con quello rassegnato dal Governo al momento del suo insediamento, si notano, al contrario, alcune cose interessanti, proprio nell’impianto e nella diagnosi congiunturale. Nel settembre 2006, il Dpef partiva dalla lunga stagione di stagnazione iniziata negli anni Novanta e ne dava una spiegazione reale: la caduta della produttività totale dei fattori, per larga parte giustificato dalla inefficacia e dalla inefficienza del settore pubblico. La diagnosi era quella di una macchina, lo Stato, che produce servizi costosi e di cattiva qualità. La terapia era giusta: aggredire sanità, previdenza ed enti locali. Agganciare una crescita mondiale che ci vedeva come il vagone sganciatosi dal treno in corsa. La Legge Finanziaria successiva aumentò, al contrario ed inspiegabilmente, la pressione fiscale e dedicò una parte delle risorse assorbite ad un incremento parallelo della spesa per motivi di equità sociale.
Le tre emergenze individuate (finanza locale, previdenza e sanità) non vennero aggredite. L’Italia cresce, e crescerà in futuro, ad un tasso pari alla metà di quello dei paesi europei ed ad un terzo della crescita mondiale. Si comincia ad intravedere nell’impianto analitico e lo ripete Mario Draghi nella audizione parlamentare sul documento. La dinamica del pil ha generato, comunque, un flusso crescente di entrate fiscali. Si discute se impiegare quelle risorse per mandare in pensione, prima dei sessanta anni gli attuali occupati, aggravando l’onere previdenziale di quelli che non lo faranno e dei giovani, o se quelle risorse devono essere impiegate per ridurre lo stock del debito pubblico, accelerando ed intensificando il risanamento. Nel Dpef si parla anche dello squilibrio tra demografia e previdenza ma non si offre ancora una soluzione al problema che affrontano, parallelamente e nella prospettiva di un accordo diretto, Governo e Sindacati. Emerge invece una previsione: la pressione fiscale effettiva (le entrate diviso il reddito atteso) passano dal 42,8% del 2007 al 42,1% nel 2011. Ed emerge la sensazione che la struttura della prossima legge finanziaria dipenderà più dagli effetti esterni – conflitto politico e negoziazione tra sindacati e governo – che dalle previsioni del documento contabile rassegnato al parlamento5. Niente di strano, dunque, se gli osservatori internazionali entrano in allarme. Un documento ridondante, travolto dalla dinamica degli eventi ad esso paralleli, è comunque un segnale che la macchina della finanza pubblica potrebbe andare fuori controllo nei mesi successivi. Incalzata dalla dinamica dei rapporti tra istituzioni e rappresentanze degli interessi sociali organizzati.
Una dinamica politica che si annuncia intensa anche in ragione dell’atteso decollo del nuovo Partito Democratico.
Un luglio torrido accompagna, infatti, la faticosa evoluzione della trattativa tra Governo e Sindacati sulla modifica del trattamento pensionistico rispetto alle leggi vigenti ( che si devono, rispettivamente, all’iniziativa di Dini; Treu e Maroni). Leggi che avevano ridotto, ma non ancora chiuso, lo squilibrio endogeno che mina alla radice il funzionamento del sistema. Dopo una lunga maratona viene sconfitto il tabù estremista del “tutto e subito” in materia previdenziale. Sono stati sconfitti coloro che pensavano che la rottura è meglio di un cattivo accordo. Il tratto riformista della politica italiana ha ottenuto un successo imponendo la ragionevolezza del negoziato. Il movimento sindacale rimanda, giustamente, alla ripresa autunnale il confronto con la propria base su quei contenuti. Il fatto che la vita media aumenti, e che l’unica copertura sostenibile di una previdenza futura, sia rappresentato dall’accumulazione di una frazione significativa del reddito generato dal lavoratore, potrebbe rappresentare la base di un sistema pensionistico effettivamente autosufficiente.
Le precedenti riforme, la Dini e la Maroni, andavano in questa direzione e si doveva fare un passo avanti ulteriore. Il passo, che emerge dall’accordo tra Governo e Sindacati nel 2007, costa molto, si affianca ad un inasprimento del peso contributivo sui lavoratori precari, ma non risolve il problema definitivamente e genera, di conseguenza, ulteriore iniquità ed incertezza. Molti, che ora potranno farlo, decideranno di andare in pensione subito, preoccupati dell’equilibrio incerto raggiunto, e molti di loro continueranno anche a lavorare: come è giusto e naturale che facciano. Con un vantaggio personale ma con un doppio danno per i giovani, che se li ritroveranno come concorrenti sul mercato del lavoro e con l’aggravio di un onere contributivo che rende più sottile, a parità di costo per le imprese, la propria capacità di spesa oggi. Ancora in questo momento non è chiara la dimensione degli impegni che questi accordi porranno a carico del bilancio pubblico nel 2008. A questi risultati incerti e, quindi, instabili si affiancano lo sfilacciamento ed il malumore interno alla maggioranza ma anche la diffidenza, velatamente accumulata, tra movimento sindacale e governo. Non valeva la pena di sommare questo lungo elenco di costi per affrontare una questione che, tutto sommato, poteva essere rinviata all’autunno, quando, sulla base di un rendiconto infrannuale delle evidenti asimmetrie, tra la pesantezza della legge finanziaria 2007 ed i risultati positivi di una ripresa economica indotta dal tono mondiale della crescita e dall’economia tedesca, si poteva immaginare di creare le condizioni per costringere Governo e Parlamento a un intervento radicale sulla spesa pubblica.
In compenso sembra affermarsi, nel trapasso tra l’estate e la stagione autunnale, una certa aria di cambiamento radicale nell’approccio del ministro dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa, alla ormai prossima sessione parlamentare di bilancio, che dovrà formulare la legge finanziaria per il 2008. Si parla esplicitamente di chiedere una tregua e questo vuol dire che si interrompe una guerra in atto6. Sospendere l’offensiva tributaria verso gli italiani è una scelta politica assolutamente condivisibile ma è anche - e questo è ancora più importante - una qualificata ammissione dell’errore commesso. La confessione implicita che il Governo Prodi abbia esagerato, nel suo primo impatto con il paese, in due direzioni entrambe senza uscita: considerare gli italiani come limoni da spremere; considerare la macchina pubblica come un convertitore efficace, capace di trasformare il prelievo fiscale in maggiore giustizia sociale attraverso la spesa pubblica. Scegliere questo percorso ha condotto il Governo in un cul de sac che era facile prevedere. No taxation without representation, come dicono gli inglesi. Un principio che, nel nostro caso, si deve leggere anche come deterioramento della propria credibilità politica quando il prelievo fiscale supera la misura del beneficio sociale ricevuto dall’esistenza dei servizi e delle reti (le public utilities) offerti dallo Stato. Ma anche perché il secchio che porta l’acqua dai ricchi ai poveri è pieno di buchi, e la sua gestione può costare anche più dei risultati che produce. E questo lo dicono, e lo dimostrano con ampie prove quantitative, gli economisti americani. Figuriamoci cosa succede quando una macchina sbrindellata, come la pubblica amministrazione italiana, ed i suoi annessi e connessi, si assegna il traguardo ambizioso di produrre maggiore giustizia sociale.
Bisogna apprezzare, quindi, la tregua fiscale proposta da Padoa Schioppa ma non si possono, né si devono, dimenticare i gravi danni che la falsa partenza, di inizio legislatura, aveva generato nel rapporto tra cittadini e politica. Padoa Schioppa ammette l’esigenza di sospendere le ostilità ed annuncia anche due ulteriori novità di metodo molto apprezzabili che, però, si presentano anche come due possibili alibi difensivi. Il Ministro annuncia una manovra meno ampia, riconoscendo così che è meglio non espandere il prelievo fiscale e la spesa contemporaneamente, ma giustifica questa opzione come la conseguenza tecnica dell’ingresso in una routine annuale mentre la ridondanza precedente sarebbe stata solo l’effetto di un disegno di legislatura7. Il Ministro anticipa che le variabili da assestare tra loro sono tre: i saldi macroeconomici, che devono rispettare il trattato di stabilità e crescita; la struttura della legge finanziaria, che deve dare luogo a quei saldi ed alle dimensioni complessive delle entrate e delle spese; l’insieme dei decreti collegati, che traducono in procedure applicabili effettivamente l’impianto di cornice della legge finanziaria. Padoa Schioppa ha detto chiaramente che le tre variabili si potranno assestare solo in una difficile triangolazione tra Ministri, Governo e Parlamento. E che l’ulteriore terza novità di metodo - abbandonare la tecnica del maxi emendamento finale, evitando che la legge finanziaria diventi il tram dei desideri occulti di ogni produttore di emendamenti che sappia navigare nel sottobosco parlamentare - sarà possibile solo se i saldi macroeconomici, le dimensioni della spesa e delle entrate e la qualità delle spese saranno generate da un incontro virtuoso tra tutti gli attori istituzionali che partecipano al processo.
A guardare in filigrana gli annunci di Padoa Schioppa si capisce, in definitiva, che una parte del Governo, quella più ragionevole ed avvertita, sta giocando in difesa: perché conosce sia la fragilità della base parlamentare su cui è costretta a lavorare che la struttura corporativa, e potente, degli interessi organizzati. Forze occulte che, a dispetto del bipolarismo e della retorica del programma elettorale del centrosinistra, sono trasversali quanto basta per preferire la tattica del maxiemendamento alla trasparenza parlamentare delle scelte politiche. Nonostante questa prudenza, che è una ammissione di debolezza, così come la richiesta di una tregua e l’ammissione della inutilità della guerra, se i risultati del conflitto non pareggiano i costi di una mancata pace sociale, il quadro che abbiamo davanti è assolutamente preferibile ai tormentoni estivi: dalle illusioni sulle cessione delle riserve auree della banca centrale alla palingenesi legislativa contro la legge Biagi. In una sessione di bilancio aperta al confronto politico trasparente si potrebbero fare molte cose utili ed intelligenti. Rafforzare gli investimenti nelle infrastrutture e nelle risorse umane; aprire un futuro migliore per la flessibilità del lavoro e dilatare gli ammortizzatori sociali, che supportano il lavoratore nel trasferimento da un impiego ad un altro; offrire nuove opportunità per una privatizzazione della produzione dei beni pubblici, per compensare la riduzione delle spese improduttive ed inutili. Questo potrebbe accadere solo se davvero Padoa Schioppa fosse in grado di mantenere il punto verso i ministri di spesa ed ottenere progetti di investimento qualificati, coperti da tagli di spesa e non da nuovo prelievo fiscale. La fermezza di Padoa Schioppa sarebbe una condizione necessaria, nello stile di Governo, ma essa non è sufficiente, se manca la comune prospettiva di lungo periodo tra le forze che compongono la maggioranza. E senza quella prospettiva la tregua non può sfociare in una pace duratura.
Con l’arrivo dell’autunno la Veltronomics spariglia la scena elettorale nel corso delle primarie per il partito democratico. Walter Veltroni si espone, ormai, con una sua vera e propria ipotesi strutturata di politica economica. Agganciando sia le proposte dei liberisti ad oltranza (Giavazzi & Alesina) che quelle di una opzione liberale per la crescita, come premessa di una maggiore equità sociale. Una scelta che segue una ipotesi à la Michele Salvati & Nicola Rossi. Ma che trova in Mario Draghi anche un significativo sponsor istituzionale: fuori dalla dimensione della competizione politica. Le proposte di Alesina & Gavazzi sono più ideologiche delle seconda. Sovrastimano l’impatto virtuoso della competizione e sottovalutano il ruolo del building institutions per governare esternalità e beni pubblici, cioè i punti fragili del mercato, nei quali il sistema dei prezzi fallisce e, di conseguenza, la competizione risulta azzoppata. Ma la seconda deve trovare, e cerca, un sentiero stretto che le permetta di passare tra Scilla e Cariddi: le minacce di Bruxelles per imporre il rispetto ferreo del patto di stabilità e crescita e le minacce della sinistra radicale per imporre maggiore pressione fiscale di stampo redistributivo. Anche se il risultato dei referendum sul Welfare dimostra che la contrapposizione al protocollo è limitata ma concentrata nelle grandi fabbriche: un segnale che, tuttavia, rassicura e preoccupa, perché mostra l’esistenza di un dissenso che non si conta come maggioranza ma che finirà per pesare sulle scelte future.
Il combinato disposto delle raccomandazioni di Almunia e delle preferenze di Giordano & Ferrero, in tema di redistribuzione dei soldi pubblici, aveva generato la maxifinanziaria del 2007: dilatata dalla compresenza di aggiustamento e trasferimenti dalla fiscalità alla giustizia sociale.
Una ricetta che non aiuta né la crescita né la giustizia sociale, come purtroppo abbiamo tutti dovuto constatare. Non fa niente per la prima e fa troppo poco e male per ottenere la seconda.
A dicembre del 2006, inoltre, la necessità oggettiva di imporre la fiducia, su un testo di un migliaio di commi ed un solo articolo, lo abbiamo già detto, aveva reintrodotto un lobbing mirato da parte di gruppi e corporazioni. Queste tre spinte - lobbing, aspirazioni redistributive e rispetto dei vincoli di Maastricht - hanno confermato la straordinaria ipertrofia del bilancio pubblico rispetto alle dimensione del prodotto interno loro. Questa ipertrofia si combina, in una sorta di circolo vizioso, con la disarticolazione della macchina statale, frantumata in vari livelli soi disant di stampo “federale” ed appesantita da larghe inefficienze e dalla singolare combinazione tra labor intensive organization e bassi salari, che genera demotivazione nelle risorse umane e scarsa qualità dei servizi per i cittadini. La tenaglia finanziaria, che strozza la crescita, si chiude definitivamente con il peso degli interessi, generati dalla dimensione assoluta del debito pubblico, e dal peso della previdenza, nel senso del volume di pensioni erogate, che, dal lato delle spese, irrigidiscono ancora di più la struttura del bilancio e dilatano la dimensione della pressione fiscale, comprimendo l’unica posta “fragile”: quella degli investimenti in capitale fisso sociale e capitale umano. Con l’autunno del 2007 il Governo Prodi conferma la frammentazione in tre parti della la manovra finanziaria – un decreto, un rinvio al protocollo sul Welfare, una legge di bilancio light – mentre il commissario europeo Almunia censura il tentativo di continuare nella politica di redistribuzione senza aver prima ridotto il debito pubblico: anche perché la riduzione della crescita attesa ridimensionerà l’effetto dell’extragettito fiscale maturato nel 2007.
Veltroni, che vede ormai la sua inevitabile vittoria, ne anticipa la conseguenza: ribaltare la politica economica del Governo in una direzione che è insieme più liberista e più liberale. E, scontando anche la flessione delle entrate che seguirà la flessione attesa della crescita, rilancia uno strumento alternativo: la compensazione in conto capitale delle dimensioni del debito rispetto alla creazione di un avanzo di bilancio nel conto della spesa e delle entrate. Anche perchè di ridurre la spesa una parte della sua maggioranza non vuole sentire parlare e, di conseguenza, si continua ad utilizzare in presunta equità sociale quello che si sottrae, con la pressione fiscale, alla parte del paese che paga le tasse.
Proponendo una politica economica alternativa, e facendolo oramai da leader più che in pectore del partito democratico, Veltroni si propone in chiave competitiva con il leader del Governo perché propone, nei fatti, un futuro e diverso Governo. La competizione – lo dice un premio Nobel, Kenneth Arrow – è una maniera per realizzare l’opzione exit al posto della opzione voice: tra i vari produttori, di ipotesi politiche, esce dal mercato chi perde e ci rimane chi vince, nel confronto competitivo. Parliamo di un mercato particolare, nel quale l’ipotesi politica è offerta ma deve essere domandata, con un voto, da un sistema di alleanze sociali che chiede quella nuova politica in una sede elettorale o nel contesto dell’attuale equilibrio parlamentare. Ecco perché si ipotizza una nuova legge elettorale prima di passare ad una consultazione elettorale. Essendo chiaro che, da una consultazione realizzata con le regole esistenti, non possa emergere una domanda coerente con una offerta di politiche liberiste e, meglio ancora, liberali. Ma anche perché, in fondo, non sarebbe improbabile che, esaurito un “bipolarismo” che consolida quasi trenta partiti in due schieramenti per mero antagonismo reciproco, la riproposizione di pochi grandi blocchi che trovino un ragionevole accordo in parlamento riorganizzerebbe anche l’offerta, e non solo la domanda, di ipotesi politiche alternative.
Riaprendo davvero il mercato politico in termini efficienti e razionali.
La Veltronomics, insomma, non è stato solo uno strumento per animare il confronto nelle primarie del Partito Democratico ma rischia di trasformare stabilmente la scena intera della politica italiana8.
L’ultimo «Bollettino» della banca centrale, il numero 50, ottobre 2007, presenta una diagnosi molto puntuale sulla dinamica economica e sulle politiche realizzate nel corso del primo semestre del 20079.
Il testo dedica ampio spazio alla fenomenologia della crisi finanziaria, che si è aperta grazie alla catena di eventi scatenata dal combinarsi tra la flessione della crescita negli Stati Uniti e la diffusione, alla scala del mercato finanziario mondiale, dei derivati, con i quali le banche di quel paese hanno trasferito al resto del mondo il rischio, assai elevato, di mutui concessi ad attori assai fragili per acquistare immobili sul mercato americano. Cartolarizzazioni e derivati hanno introdotto fattori latenti di instabilità nel mercato finanziario e richiedono, oggi, una messa a fuoco di criteri adeguati di supervisione e vigilanza sugli intermediari.
Ma una cosa è chiara: non siamo in presenza di una replica del 1929.
E’ uno scossone profondo ma controllabile che rappresenterà una palestra per affinare meglio gli strumenti di governo e controllo dei mercati, aiutando il mondo intero a trarre vantaggio dalla innovazione finanziaria.
L’assestamento in corso, tuttavia, rallenta l’economia americana e quella europea, che convergono entrambe verso una crescita attesa nell’ordine solo del 2% annuo. Forse leggermente più alta negli Usa rispetto all’Europa. L’Italia crescerà meno dell’Europa, ancora una volta, come accade ormai da quando siamo entrati nel ventunesimo secolo.
Sulle ragioni di questa tenue capacità espansiva la banca centrale offre una spia preoccupante:
la competitività delle imprese, misurata dal tasso di cambio effettivo reale, calcolato sulla base dei pressi alla produzione, è rimasta pressoché stazionaria rispetto ai precedenti sei mesi. Grazie alla decelerazione dei prezzi alla produzione in estate si è registrato un recupero fino ai valori osservati nel 2006, interrotto in settembre dal deciso apprezzamento dell’euro. Considerando una misura basta sul costo del lavoro per unità di prodotto, l’andamento della competitività è apparso in chiaro peggioramento nei primi sei mesi dell’anno, soprattutto in confronto ai principali paesi dell’area dell’euro.

Il sistema delle imprese, insomma, è stretto da tre lati: la bassa dinamica della domanda in Europa; l’apprezzamento dell’euro e la pressione del costo del lavoro per unità di prodotto, che ne mina la capacità di competere, già insidiata dalla forza dell’euro che, però, ci difende dalla pressione sul costo dell’energia e delle commodities, generata dalla crescita dei paesi emergenti che ne incrementano la domanda a scala internazionale. Le imprese italiane, tuttavia, riescono almeno a fronteggiare con margini operativi migliori l’incremento degli oneri finanziari, alimentato dalla tensione sui tassi di interesse. Nei primi sei mesi del 2007, quelli descritti nel «Bollettino», si è anche verificata una modesta ma apprezzabile espansione dei debiti bancari delle imprese. La sensazione che si raccoglie sul mercato alla ripresa autunnale, al contrario – ma questa è una opinione degli operatori e non della banca centrale – è che, nella seconda parte dell’anno, le banche, inquietate dalle tensioni sui mercati finanziari, abbiano reagito nervosamente contraendo la disponibilità a concedere credito, penalizzando le imprese che, nonostante un quadro incerto, sul quando e sulla intensità della ripresa, avrebbero potuto o voluto utilizzare credito per sostenere il proprio processo di investimento.
Insomma, la banca centrale ci restituisce un quadro in cui le basi di una possibile espansione reale della nostra economia sono ancora troppo fragili ed il contesto internazionale è troppo incerto, oltre che fiacco nei mercati in cui sono inserite le nostre imprese: Europa e Stati Uniti. Rispetto a questa diagnosi appare singolare l’impianto delle politiche messe in campo dal Governo, sia nelle manovre finanziarie di primavera che nella legge finanziaria e nei suoi annessi e connessi: il protocollo sul Welfare ed il decreto di spesa, varato nelle more dell’approvazione della legge di bilancio. Il fatto che preoccupa la banca centrale, tuttavia, non è tanto la eventualità che i costi del protocollo richiedano un incremento ulteriore della pressione fiscale o del debito, ma la constatazione che la pressione fiscale sia già stata incrementata, per effetto della ripresa che dilatava la base imponibile, per finanziare maggiori spese. Nella convinzione che, ferma restando la macchina organizzativa degli apparati che governano quella spesa pubblica, la sua erogazione rappresenti un fattore di correzione adeguato della diffusa iniquità sociale. E’ diventato evidente anche una ulteriore patologia di questa presunta politica di equità sociale.
L’eccesso di imposte dirette, e la diffusa evasione da parte di alcune aree del lavoro autonomo, generano singolari paradossi redistributivi dai lavoratori dipendenti, colpiti dalla pressione fiscale perché leali nelle proprie dichiarazioni, agli evasori che, comprimendo la dimensione del proprio reddito, si sottraggono a quella pressione aggiuntiva mentre aumenta il gettito delle imposte indirette, in ragione della spesa per consumi che si realizza grazie all’evasione ed al lavoro nero.
La diffidenza della banca centrale verso l’impostazione – più spese, più tasse, più debito – di Prodi e Padoa Schioppa appare confermata dal giudizio sulla prossima legge finanziaria: «La manovra di bilancio accresce l’indebitamento del 2008 di 6,5 miliardi (0,4 punti di PIL). Essa reperisce risorse per circa 5,4 miliardi ( sul terreno fiscale) e definisce aumenti di spesa e riduzioni di imposte per 12 miliardi»10.
Lorenzo Bini Smaghi, banchiere centrale europeo, che ben conosce il nostro paese, afferma, sulle pagine del «Corriere della Sera»11, che ogni volta che, negli ultimi venti anni, il change over dalla lira all’euro, piuttosto che la ripresa del 2006 insperata quanto intensa, hanno generato surplus di gettito, esso non è stato utilizzato per ridurre il debito ma per dilatare la spesa. Ed aggiunge che anche una miracolosa riduzione istantanea di larga parte del debito, attraverso una compensazione con cessione di attività reali detenute dallo stato, non avrebbe sulle dimensioni della spesa per interessi altro effetto che liberare risorse da dedicare a presunte spese sociali.
Dai banchieri centrali, domestici od europei che siano, viene dunque un monito guardare i fondamentali reali della nostra economia e la sua capacità di competere alla scala mondiale, integrandosi maggiormente con i mercati in espansione per diversificare il rischio che nasce dall’angustia troppo europea delle nostre ambizioni commerciali.
Il Governo, al contrario, insiste nella speranza di correggere, in maniera improbabile, gli squilibri nella distribuzione del reddito attraverso il ricorso a crescenti trasferimenti finanziari dalle imposte alle spese: in una rincorsa senza fine della loro ricorrente espansione.
Singolare che in questa operazione di redistribuzione non sia mai preso in esame il gigantesco problema di iniquità sociale rappresentato dal più che divaricato dualismo tra Nord e Sud del paese. Mentre le statistiche indicano come i poveri siano molto concentrati proprio nel Mezzogiorno. Clamoroso, da questo punto di vista, un ultimo fatto che la banca centrale evidenzia: «Dopo il forte miglioramento conseguito nel 2006, i progressi nella riduzione degli squilibri di bilancio sono modesti […] gli interventi necessari per raggiungere il pareggio sono rinviati al triennio 2009/2011». Combinazione, proprio in quel triennio di attesa austerità sono stanziati nel bilancio dello Stato i fondi domestici che dovrebbero permettere all’Italia di usare, nel Mezzogiorno, i fondi europei del ciclo 2007/2013. Forse qualcuno pensa che il bilancio lo pareggeremo spendendo ancora meno, e peggio di quanto non sia stato fatto con Agenda 2000, per formare capitale fisso sociale e capitale umano nel Mezzogiorno.


3. La struttura ed i limiti della legge finanziaria per il 2008

La fenomenologia della vicenda politica che ha condotto alla struttura “leggera” della legge finanziaria per il 2008 è stata spiegata lucidamente da Mario Monti, sul «Corriere della Sera» del 30 settembre, come la combinazione di tre processi decisionali andati in parallelo:
- la scelta strategica di Prodi di avere una coalizione molto larga e troppo eterogenea;
- la scelta di Prodi e Berlusconi di puntare al bipolarismo come superiore valore in sé ha impedito di individuare prima delle elezioni un nocciolo duro di politiche ritenute bipartisan perché necessarie comunque al paese;
- la scelta «inerziale, legata alla sua tradizione» del centrosinistra, di privilegiare la concertazione come metodo di governo.
Date le tre scelte emerge una finanziaria «leggera [...] ma anche una finanziaria grave: (che) mostra i limiti che, nella presente configurazione politica italiana, non permettono una politica economica adeguata ai problemi del paese». Una finanziaria utile al Governo ma non al paese, chiosa ««La Repubblica». Dietro questa fenomenologia, che trasforma in una grave conseguenza la leggerezza della manovra di bilancio proposta, si cela una causa profonda di inconsistenza politica. La legge finanziaria, non ha un’anima: una identità che ne spieghi la ragion d’essere. Non è fatta male, tecnicamente, ma non riesce a rappresentare una prospettiva credibile e condivisa di cambiamento.
Del resto è proprio questa condizione che la accomuna alla maggioranza che la propone, il centrosinistra nella formazione emersa dalle ultime elezioni politiche. Per tenere insieme quella maggioranza, troppo larga e troppo eterogenea, la manovra di bilancio viene frantumata in tre parti: il pacchetto sul Welfare si muoverà parallelamente alla sessione di bilancio ma vedremo come nelle prossime riunioni del Governo.
Un piccolo addendum di spesa, sulle infrastrutture, e di minore pressione fiscale viene realizzato già nel 2007 con un decreto legge per 7 miliardi di euro; la manovra si riduce a soli 11 miliardi di euro, con 6,3 miliardi di nuovo gettito e 3,2 miliardi di minori imposte e tasse. Una redistribuzione che, dice Padoa Schioppa, presentando una utile riclassificazione, per funzioni e non per organizzazioni deputate, del bilancio nello Stato, «è solo una goccia nel mare delle risorse già disponibili».
Alla fine, sul tavolo del negoziato con gli interessi sociali, c’è troppo ma troppo poco per ognuno: una opzione aperta - rinegoziare il protocollo sul Welfare - per la sinistra più intransigente; una prima riduzione fiscale per le famiglie ma anche un’altra per le imprese; un pizzico di risorse per la previdenza a supporto della riforma dello scalone, per i pensionati. Molta redistribuzione, ma niente che possa qualificarsi come un riordino significativo della spesa pubblica - è solo una goccia nel mare - in direzione di una maggiore equità sociale.
Al contorno, ma non nella legge finanziaria, infine, l’indirizzo di ridurre i costi della politica: uno spiraglio aperto anche verso l’antipolitica che monta nella stampa e nel paese. Ed, invece, quella antipolitica monta anche e proprio per l’assenza evidente di un’anima: una identità che sarebbe in grado di rendere legittimo, agli occhi della popolazione, un costo ragionevole della stessa politica.
Questa finanziaria si muove, oggettivamente, lungo una rotta di collisione con la nascita del nuovo Partito Democratico, che soffre della medesima menomazione: identità inesistente e feroce scontro di potere, concentrato nelle periferie, su quale possa e debba essere il proprio scheletro organizzativo. Di anime, nel senso di identità, la cultura europea ne avrebbe almeno un paio. Ma entrambe presentano una struttura squilibrata.
I liberali pensano che la crescita, e di conseguenza il benessere, vengano dalla libertà economica collegata alla libertà dall’ingiustizia e dal bisogno: la prima la affidano ai mercati, la seconda agli Stati.
I socialisti, liquidata, ma non del tutto, la versione estrema, secondo la quale la crescita come la solidarietà sociale dovessero essere entrambe monopolio dello Stato, sono alla ricerca di terapie originali per contaminarsi con la cultura liberale e dare vita ad un capitalismo tenuto meglio sotto controllo dalla concorrenza e dal potere dei consumatori. Piuttosto che dalla concertazione o da qualche altra forma di conversazione sistematica degli interessi organizzati.
La fenomenologia offerta da Mario Monti ci dimostra, però, che, nell’attuale architettura del sistema politico italiano, non ci sia posto né per liberali né per socialisti conseguenti. E neanche di una sede, parlamentare o politica, ad esempio un partito, nella quale quelli, che si ritrovano in questo modo di ragionare, possano radunarsi.
Ne segue che, perseverando nell’errore di sottovalutare il valore strategico della propria identità e nel lungo periodo, il treno del Governo e quello del Partito Democratico rischiano entrambi di deragliare o, nel meno peggiore dei casi, di finire su un binario morto.
Mario Draghi, all’inizio del percorso parlamentare della legge finanziaria per il 2008, ne aveva valutato l’impatto di ordine macroeconomico12.
Nel complesso, la manovra accresce l’indebitamento netto del 2008 di 6,5 miliardi (0,4 punti del PIL). Essa reperisce risorse per 5,4 miliardi e definisce aumenti di spesa e sgravi fiscali per quasi 12 miliardi […] le recenti decisioni di politica di bilancio non frenano la dinamica della spesa […] nelle stime ufficiali la pressione fiscale nel 2008 rimane ancora sull’elevato livello del 2007 […] la riduzione delle aliquote è però sostanzialmente compensata a regime dagli effetti dell’ampliamento delle basi imponibili e dai limiti posti all’utilizzo delle agevolazioni concesse mediante crediti d’imposta […] il percorso di riduzione dell’indebitamento netto nel biennio 2007-08 appare lento.

Insomma la legge, ancor prima del suo closing definitivo, non sceglie né la strada del risanamento finanziario né quella della equità sociale ma neanche quella del rilancio dichiarato della crescita. Si ferma di fronte ad una composizione ragionevole degli interessi larghi quanto eterogenei riconducibili alla coalizione che supporta il Governo.
Ma questa scelta non ha il sapore di una nuova stagione di accumulazione e crescita. E’ una scelta tutta di carattere microeconomico, fatta di compensazioni reciproche e spostamenti di ricchezza da un gruppo sociale all’altro, utilizzando la politica fiscale come rimodulazione del benessere, grazie alla dimensione straripante che imposte e spese, le due facce del bilancio pubblico, hanno assunto. Dando luogo ad un gioco a somma zero: perché è proprio l’affermarsi di questa opzione, ipocritamente velata da una presunta priorità della equità sociale sulla crescita, che impedisce la ripresa dell’accumulazione. Ed è resa possibile dalla ipertrofia del bilancio statale e dei suoi mille rivoli.
Un utilizzazione più strategica della politica fiscale avrebbe dovuto fondarsi su ricette diverse di politica economica. Tagli radicali di alcune funzioni attribuite ad entità pubbliche o supportate dal pubblico, ivi compresa la messe sterminata di entità “federali”, decentrate o collegate alla macchina pubblica. Creazione di nuovi strumenti ed ammortizzatori capaci di sostenere i costi sociali della riconversione del sistema: da un assetto troppo pubblico ad una configurazione dove ritrovassero spazio l’iniziativa privata ed il mercato nella ricerca di soluzioni ai bisogni diffusi. Concentrando la spesa nella produzione dei beni effettivamente pubblici e migliorando, in questo modo, le esternalità disponibili che ne derivano per l’intero paese. Questa deformazione, dai traguardi generali e dai risultati collettivi all’arbitraggio degli interessi diffusi intorno alla utilizzazione dei soldi pubblici, non è una novità nella storia delle leggi finanziarie ma è certamente lo specchio di un paese abituato a vivere assorbendo spese statali, coperte poi da debito e pressione fiscale, ad alterne stagioni, per ridurre il debito accumulato. Dalla Camera dei Deputati ora la legge finanziaria approda al Senato ed appare «pentita prima del peccato, sciupata prima di essere colta». Descrizione straordinaria di Giuseppe Antonio Borgese di una Elvira, bella donna sposata ed in procinto di rinunciare - intimidita dal controllo sociale e fragile nella volontà - ad un incontro con un amante occasionale13. Purtroppo l’esito della sessione di bilancio confermerà lo stallo tra crescita ed equità in favore di una politica fiscale che assorbe ogni disponibilità di cassa nella compensazione degli interessi organizzati: evitando di investire davvero in un nuovo assetto sociale ed economico. Si conferma così che il bipolarismo attuale, quello di tipo federalista ex ante, rappresenta una sorta di comoda enclave per il trionfo delle corporazioni ai danni degli interessi diffusi della popolazione e del paese. L’inerzia dei rapporti tra apparati dello Stato e corporazioni - unita alla singolare circostanza di un fabbisogno di cassa, che cresce, nel flusso registrato ad ottobre, rispetto all’anno precedente ma che appare ancora inferiore alla dimensione che esso aveva nei primi dieci mesi del 2006 - rappresenta la condizione di contorno e la disponibilità di spesa, necessarie entrambe per evitare che la nostra economia riprenda un intenso processo di accumulazione e generi un effettivo cambiamento della propria struttura sociale. In altri tempi sarebbe stato un rito normale. Realizzarlo sul filo del rasoio della fiducia parlamentare e di una oggettiva fragilità finanziaria, indica che, comunque fosse andata la cosa, questo sarebbe diventato un problema per il paese14. Ed infatti, non avendo il Governo posto la fiducia sul voto al Senato, ma essendo stata approvata la legge in questa sua prima stesura, il prezzo politico pagato è stata la presa di distanza di Lamberto Dini e del suo gruppo dal Governo stesso, nonostante il voto favorevole alla legge, “leggera” ma anche esposta ad un intensa attività di “farcitura” da parte di lobbies private e degli apparati della pubblica amministrazione. La legge finanziaria “leggera” è diventata, ancora una volta, una girandola di microtrasferimenti finanziari tra gruppi sociali, ancora più “elettorale” verrebbe voglia di dire, rispetto ad un provvedimento di fine legislatura.
A meno che non la si consideri proprio come tale, immaginando che l’accelerazione, impressa da Veltroni e Berlusconi, al confronto parlamentare - sulla nuova legge elettorale - non prefiguri proprio un esito di questo tipo.




NOTE
1 Una compiuta analisi dei quattro ordini di problemi, ricordati nel testo, si può leggere in M. Lo Cicero, La finanziaria per il 2007: quattro direzioni di marcia ed un caveat, per ritrovare la crescita, in «L’Acropoli», 8 (2007), pp. 9 sgg.^
2 Si veda, sulla crisi internazionale, L. Spaventa, Il terremoto bancario, in «la Repubblica» del 3 novembre 2007. Alle prime avvisaglie del rafforzamento dell’euro contro il dollaro gli analisti hanno capito che questo fenomeno avrebbe avuto un impatto profondo nei rapporti tra le economie europee e non solo tra le due aree valutarie. Si leggano Idem, Se la locomotiva diventa l’Europa, in «la Repubblica» del 30 aprile 2007 e M. De Cecco, L’euro forte piace solo alla Germania, in pari data, sul supplemento de «la Repubblica, Affari & Finanza». Avvenuto lo sfondamento dell’euro fino a quota 1,5 sul dollaro, Marcello De Cecco ha ripeso le sue analisi con due interessanti contributi, apparsi sempre su «Affari & Finanza», il 12 ed il 26 novembre rispettivamente: Lo tsumani della liquidità e la politica del denaro facile e Se l’euro diventa moneta di riserva.^
3 Si veda B.S. Bernanke, Monetary Policy under Uncertainty, The 32nd Annual Economic Policy Conference, Federal Reserve Bank of St. Louis, October 19, 2007, at http://www.federalreserve.gov/newsevents/speech/bernanke20071019a.htm ^
4 Tutti i testi dei documenti riguardanti la manovra finanziaria del Governo per il 2008 sono disponibili at http://www.tesoro.it ^
5 Mario Draghi, nella sua audizione parlamentare, attira l’attenzione su questa circostanza che colloca anche fuori dei provvedimenti legati alla sessione di bilancio di fine anno la eventuale realizzazione di misure di spesa non ancora quantificate: «Nel Documento, al fine di accrescere la trasparenza dell’analisi, si osserva però che il disavanzo tendenziale a “legislazione vigente” esclude alcuni oneri che non derivano da obblighi di legge ma che hanno un’elevata probabilità di manifestarsi. Il DPEF menziona tre categorie di oneri, in ordine decrescente di “obbligatorietà”: le spese connesse con impegni presi dal Governo, quelle legate al rinnovo di prassi consolidate, quali gli stanziamenti per le future tornate contrattuali e in favore dell’ANAS e delle Ferrovie, e, infine, gli oneri derivanti da nuove iniziative del Governo». In Attività conoscitiva preliminare all’esame del Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2008-2011, Testimonianza del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, Senato della Repubblica, 16 luglio 2007 at http://www.bancaditalia.it/interventi/integov ^
6 La tregua fiscale, come annuncio distensivo, è anche la conseguenza di un doppio clamoroso infortunio nella comunicazione politica del Ministro Padoa Schioppa: con una dichiarazione sul fatto che le tasse siano una cosa bella perché finanziano utili beni collettivi, ma questo non è il caso italiano, almeno per molti dei beni collettivi prodotti. Ed anche per l’aver sollevato la questione della difficile inserimento dei giovani sul mercato del lavoro ricorrendo alla metafora romanesca dei “bamboccioni”. «Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima. Servono per tutelare l'ambiente, difendere la salute, pagare le pensioni», ha detto il Ministro a Lucia Annunziata in una popolare trasmissione televisiva di Rai Tre. Ed ha aggiunto, per sua fortuna ma non è una adeguata motivazione,«magari si può essere insoddisfatti per la qualità dei servizi. Non penso tuttavia che la richiesta dei sindacati di una riduzione dell'Irpef si debba scambiare con la polemica irresponsabile sullo sciopero fiscale». L’affermazione del ministro è singolare se si guardano i numeri del bilancio dello Stato. Nel 2006 il prodotto interno lordo è stato di 1475 milioni di euro. La pressione fiscale (imposte dirette ed indirette sommate con i contributi sociali) ha assorbito 623 milioni di euro, il 42,3% del pil. Le sole spese correnti (personale, spese vive, previdenza ed interessi) sono state pari a 656 milioni di euro, il 48% del pil. A queste vanno sommate poche ulteriori spese per 88 milioni in conto capitale che portano la spesa totale oltre il 46% del pil. I dati sono pubblicati dal «Bollettino numero 48 della Banca d’Italia» (aprile 2007). E’ assolutamente evidente che le imposte non servono per pagare investimenti infrastrutturali o per offrire servizi adeguati, in termini di sanità od istruzione, e che la previdenza, per ora, tutela solo una fascia limitata di cittadini e lascia completamente scoperti coloro che abbiano meno di quaranta anni. Mentre la discussione, ancora aperta, sul protocollo del Welfare, che cerca di governare il trapasso tra vecchio e nuovo regime rispetto al grande scalino, detto lo “scalone”, che correggerebbe bruscamente il sistema, allungando di colpo l’età del pensionamento per molti lavoratori. Infelice, dunque, questa rappresentazione di un sistema fiscale “bellissimo” perchè rappresenta il prezzo dei beni pubblici e collettivi, che rendono migliore la vita degli italiani. Infelice perchè proprio la scadente qualità di quei beni collettivi, il mero trasferimento delle risorse fiscali da alcuni gruppi sociali, come i lavoratori dipendenti, ad altri gruppi - che utilizzano, più o meno equamente, le risorse pubbliche, come stipendi, contributi o sussidi - lascia perplessi gli italiani e li spinge ad interrogarsi non tanto sui costi ma sul rendimento, in termini reali e non solo monetari, dell’attività del Governo e della pubblica amministrazione. Giuseppe De Rita aveva, invece, considerato il discorso sui “bamboccioni” di Tommaso Padoa Schioppa la conseguenza di una origine triestina, che ne farebbe quasi un austro-ungarico piuttosto che un italiano. Nel senso, ovviamente, della sua percezione della natura e degli effetti della relazione tra società e Stato nel nostro paese. Altrettanto si dovrebbe dire di questa considerazione sulla natura e gli effetti del bilancio attuale dello Stato italiano.^
7 Su carattere soffice di questa seconda finanziaria, e sulla sua relazione con un problema di equilibrio politico, piuttosto che con una strategia di politica economica, si legga R. Perotti, La finanziaria leggera e le due anime del Governo, in «Il Sole 24 Ore» del 4 ottobre 2007. Si legga poi, per capire come il taglio strutturale della pressione fiscale non possa avvenire che attraverso un radicale ridimensionamento della spesa pubblica, l’articolo di L. Spaventa, Il taglio delle tasse e quello della spesa, in «la Repubblica», 15 settembre 2007.^
8 Esiste un secondo piano di confronto, più sotterraneo ma non meno rilevante, nella ridefinizione dell’equilibrio italiano. Lo ha sollevato pubblicamente, in una intervista a «La Stampa», nella primavera del 2007, Mario Monti. Si veda Monti: Le banche? Un Governo occulto, a cura di L. Grassia, pubblicata il 4 maggio 2007. La tesi dell’ex commissario europeo è che le banche, anche grazie a una relazione debole tra azionisti di riferimento e management, tendono a privilegiare i sistemi relazionali piuttosto che l’analisi oggettiva, dell’impatto possibile, di alcune scelte industriali rispetto alle dinamiche del mercato. La fragilità del mercato, insomma, sarebbe determinata da due eventi simmetrici ma convergenti: l’ipertrofia, non solo fiscale, dello Stato e quella di un sistema bancario troppo autoreferenziale, esposto, quindi e per definizione, al rischio di una opportunistica convergenza, in termini di mero potere, con alcune componenti del sistema politico.^
9 Il testo si può leggere at http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo ^
10 Si tratta di una ulteriore citazione dal «Bollettino», numero 50 dell’ottobre 2007, edito dalla nostra banca centrale.^
11 In un articolo apparso sul «Corriere della Sera», del 17 ottobre 2007.^
12 Si veda, Attività conoscitiva per l’esame dei documenti di bilancio per il periodo 2008-2010, Testimonianza del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, Senato della Repubblica,
10 ottobre 2007, at http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2007/10102007/draghi_10_10_07.pdf. ^
13 Si veda G.A. Borgese, Le belle, Palermo, Sellerio, 1983, p. 78.^
14 Il 5 novembre «La Stampa» pubblica una intervista di Anna Finocchiaro, autorevolissimo esponente del Partito Democratico, che afferma «lo so per certo, Dini non farà mancare il suo sì». Nello stesso giorno e sul medesimo giornale viene intervistato anche Roberto Calderoli che afferma:«Se Prodi non cade addio centro-destra».^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft