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Una modesta visione
di G. G.
Nel passaggio dal 2007 al 2008 il futuro politico italiano è incerto come poche volte nell’ultimo quindicennio.
A renderlo tale non è tanto la serie dei problemi che si sono accumulati proprio
mentre, con l’approvazione della legge finanziaria per il 2008, il governo e la
sua maggioranza riportavano un successo sul quale erano stati avanzati i più
fieri dubbi. Non è nemmeno la serie degli impegni che, dai primi di gennaio in
poi, porteranno il governo agli incontri con i sindacati, alla verifica (un
termine che da tempo non si sentiva più in circolazione) nella maggioranza, a
decisioni impegnative come quella sulla sorte dell’Alitalia e così via, a cui si è
poi aggiunta qualche questione particolare di grande rilievo culturale e sociale
e minacciosa, ancor, per la tenuta della maggioranza, qual è la questione
dell’aborto, tornata a sorpresa di attualità allo scadere del 2007 (per non
parlare dei tanti altri problemi che ugualmente urgono nell’agenda del
governo). Per giunta, si è avuta la drammatica crisi dei rifiuti in Campania, per
la quale il governo è riuscito a decidere di intervenire qualche minuto dopo,
non già neppure un secondo prima, che raggiungesse il culmine della notte più
fonda. E se un giornale autorevole come il «Corriere della Sera», ha scritto che
questa crisi ha segnato – tra i cumuli male odoranti e inquinanti dei rifiuti
napoletani – la conclusione del ciclo della cosiddetta Seconda Repubblica, si
può ritenere, crediamo, che noi forse pecchiamo di eufemismo nel parlare oggi
soltanto di incertezza politica italiana.
Del resto, finora ci siamo riferiti al governo e alla sua maggioranza, ma, come
si sa, le opposizioni non hanno, per quanto le riguarda, problemi minori.
E, tuttavia, neppure solo per questo l’orizzonte politico italiano si presenta
tanto più oscuro di quanto ci si sarebbe potuto aspettare un anno fa. È, invece,
per l’assoluta incertezza di prospettiva e di programma (e incertezza è un
eufemismo) con la quale le forze politiche del paese sembrano condursi nel
presente e – in misura addirittura molto superiore – lasciano vedere di volere
atteggiarsi per il futuro.
Si potrebbe chiedere: ma perché porre una tale questione? non è già abbastanza
che le forze politiche affrontino, comunque sia, il presente e cerchino di trovare
le risposte che sono in grado di trovare alle questioni di attualità?
Sarebbe, infatti, così, se non fosse che, come pure molto bene si sa, tutti, senza
eccezione, i partiti dello schieramento politico italiano non fanno altro che
ribadire a ogni pie’ sospinto, e, ormai, da più anni, che l’Italia ha bisogno di
riforme; anzi, di profonde riforme. E, certamente, è un segno preoccupante
dell’attuale condizione italiana che di tali riforme nessuno abbia un quadro
complessivo che sia, non si dice in tutto, ma nella parte maggiore condiviso
dagli altri. L’agenda delle riforme si prospetta così con una genericità,
approssimazione, molteplicità e diversità di voci che non inducono a nessun
ottimismo circa la loro effettiva praticabilità, e ancora meno inducono a
ottimismo circa la reale volontà di promuoverle da parte di chi ne sbandiera le
tante e divergenti enumerazioni che si vedono correre in giro.
Nessun dubbio, tuttavia, è possibile sul fatto che, poi, allo stringere, un tema
riformistico di largo consenso vi sia, e lo si veda anche con tutta chiarezza,
poiché da mesi riempie le pagine dei giornali e le cronache radio-televisive. È –
lo si sarà già capito – il tema della riforma della legge elettorale, senza della
quale sembra che le cose in Italia non possano in nessun modo essere rimesse
sul binario buono e riavviate per il verso giusto. E sarà anche così, non
vogliamo discuterne qui e ora, ma come qualificare un sistema politico che da
quindici anni a ogni legislatura, dopo ogni elezione, ha il problema di cambiare
la legge elettorale? Come qualificare una convivenza civile nella quale la
prospettiva delle regole fondamentali della rappresentanza e, quindi, del potere
politico è rimessa in discussione ogni volta alla prima applicazione di qualsiasi
regola si sia adottata? Come pensare che si possa formare una grande
tradizione civica intorno alle istituzioni rappresentative e al governo di un
paese con tanta scarsa capacità di darsi un orizzonte duraturo e generalmente
convenuto di regole imprescindibili e primarie come quelle necessarie per le
elezioni in un regime di libertà?
La regola appare, invece, quella per cui ogni parte, vinte le elezioni, sente come
primo e più immediato il bisogno di rifare la legge elettorale in modo da
renderla la più conveniente al fine di mantenersi al potere la volta successiva.
Addirittura sconcertante è, a sua volta, il fatto che, in questo nobile esercizio,
tutti dicano di avere gli stessi scopi: stabilità, governabilità, efficienza, e via di
questo passo, e, naturalmente, grande capacità riformatrice. È vero che le
vedute su punti come questi possono essere innumerevoli e le più disparate, ma
è possibile che la pluralità e la disparità delle vedute non riesca mai a trovare
punti di sintesi e di raccordo che consentano una gestione delle cose pubbliche
più generalmente convenuta e stabile? È possibile che la vocazione italiana più
spontanea sia sempre quella del Comune medievale, dove i vincitori amavano
(come si suole dire) non fare prigionieri?
Non sappiamo se sia per effetto di questa più o meno latente eredità storica
che, parlandosi di riforma elettorale, il punto principale riguardi sempre il
modello da adottare: il francese? il tedesco? Tutti, peraltro, escludono il
modello anglo-sassone. Escludono, cioè, il modello più semplice e più limpido:
vince in ogni collegio chi, con qualsiasi percentuale sui voti espressi, prende un
voto in più del secondo; quindi, niente doppi turni, coalizioni, premi o
penalità. Da noi ci sono le «culture» molteplici, che – si dice – bisogna
«tutelare nella loro specificità», e si sa che queste «culture» sono moltissime.
C’è quella di Casini, quella di Mastella, quella di Rotondi, quella di Follini
(Italia di mezzo), quella di Di Pietro (Italia dei valori) etc. Ci sono tre o
quattro culture socialiste, e tre o quattro culture comuniste o post-comuniste.
E, come si sa, il conto è lontano dal finire qui. Adesso è stato poi scoperto
anche un modello spagnolo, subito salito in auge; e addirittura una delle
personalità maggiori della vita politica nazionale, qual è Veltroni, ha proposto
l’interessante ed elegante, fondamentale e risolutivo quesito se convenga
adottare il modello tedesco con un po’ di spagnolo o il modello spagnolo con
un po’ di tedesco, salvo, poi, a dichiarare, a ogni buon conto, che meglio di
tutto sarebbe il modello francese.
Nessuno, come si vede, si propone un modello italiano. Un modello italiano –
beninteso – che non sia quello legato agli immediati e più gretti interessi di
ciascuno. Un modello italiano che non consista solo in una legge elettorale. Un
modello italiano che proponga qualcosa in più del giorno per giorno per i
problemi gravi, di cui tutti riconoscono che questo paese soffre. Eppure,
proprio questo è il problema: riprendere con una qualche visione del futuro. E
una visione non messianica, non utopistica, non fondamentalistica, non eroica
o straordinaria. Una modesta visione di concreto e responsabile buon senso,
ricordando sempre che il buon senso non coincide sempre col senso comune, e
spesso si può, anzi, trovare agli antipodi del senso comune.
Sono cose di cui per un verso o per l’altro abbiamo già altre volte parlato qui. Il
fatto che ne ritorniamo a parlare pressappoco negli stessi termini non è di
quelli che possano indurre a meglio sperare. Ed è appunto proprio, e
innanzitutto e soprattutto, da ciò che deriva la sensazione di incertezza dalla
quale abbiamo preso le mosse. Con l’augurio, per il 2008, di essere appieno e
solennemente smentiti dai fatti.
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