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Le età del Sessantotto
di Rossana Sicilia
Aleggiano, ancora una volta, all’interno dell’opinione pubblica europea convinzioni e sentimenti che richiamano il Sessantotto. A testimoniare che questo momento storico non presenta le caratteristiche di un “fatto” concluso, sono le argomentazioni portate avanti nella primavera/estate del 2007 dall’attuale presidente francese, durante la sua campagna per le elezioni presidenziali, nonché da papa Benedetto XVI.
Nicolas Sarkozy, parlando a migliaia di militanti del suo partito, imputa al Sessantotto di avere «introdotto il cinismo nella società […], abbassato il livello morale e politico»; da parte sua il papa, in un discorso tenuto a un gruppo di sacerdoti nel luglio dello stesso anno, sostiene che «la cesura del ’68 [è] l’inizio o l’esplosione della grande crisi culturale dell’Occidente». Da entrambe queste posizioni emerge un giudizio fortemente dissacratorio su quegli anni, considerati come matrice del decadimento della coscienza dell’Occidente. Un’accusa che si trasforma nell’imputazione di tradimento rivolta al Sessantotto, dopo l’11 settembre, nel periodo in cui si concretizza e si diffonde l’idea angosciante dello “scontro di civiltà”. Si tratta, come è noto, dell’idea che l’Occidente si sia trasformato in una cittadella assediata dal mondo islamico, poiché non è stata in grado, e a tutt’oggi non lo è, di riaffermare e difendere, sempre, i valori che nei secoli passati ne hanno contrassegnato e caratterizzato la superiorità ideale e politico-pratica, rispetto al resto del mondo. Questa condizione di superiorità ha avuto tra i suoi elementi fondativi, da una parte un’organizzazione democratica e liberale dello Stato, dall’altra, la diffusione dell’etica cristiana, come elemento costitutivo del modo di essere e di agire nel mondo, come ha sostenuto, qualche anno fa, Philippe Nemo (Che cos’è l’Occidente, Soveria Mannelli, 2004). Nel cristianesimo, infatti, sia nella sua versione cattolica che protestante, il cammino verso il cielo non è stato più percepito come una linea verticale, che si può salire e scendere solo per grazia di Dio, si è trattato di una linea che ha combinato il verticale con l’orizzontale, un tragitto attraverso cui l’uomo progredisce con mezzi alla portata della sua natura e della sua volontà. Ed è il caso di affermare che l’attivismo etico di una simile posizione contrasta, sempre secondo Nemo, sia con il cristianesimo ortodosso sia con l’Islam e le altre religioni orientali.
È opportuno a questo punto, utilizzando alcune tematiche essenziali, offrire delle indicazioni sul contesto storico in cui si innesca il Sessantotto europeo. Rilevante dal punto di vista religioso è l’osservazione secondo la quale nei Studi e ricerche primi anni Sessanta, per opera di Giovanni XXIII, l’iniziativa conciliare ha portato alla canalizzazione di energie e fermenti innovativi, repressi da equilibri e orientamenti cattolici risalenti al concilio di Trento e che si sono accumulati, senza potersi esprimere, nel pontificato tradizionalistico di Pio XII (Galasso, Storia d’Europa, 2001). Non è di poco peso che una delle componenti della contestazione sia quella del cristianesimo radicale – dai preti operai alla teologia della liberazione. Si organizza attraverso queste figure il mondo della non violenza nella maggior parte dei paesi cattolici; si creano le comunità di base, in Italia rappresentate da personalità come padre Ernesto Balducci e don Lorenzo Milani. Non è un caso che i temi cari al fondatore della “scuola di Barbiana”, espressi in Lettera a una professoressa identifichino la questione della scolarità di massa in un mondo in cui è in atto la grande trasformazione del mondo contadino. Questi trascorsi conciliari e post conciliari, e gli altri più estremi di una “Chiesa militante”, contrastano con le affermazioni che papa Benedetto XVI sta oggi divulgando in Europa. Si tratta di una concezione del cattolicesimo e di un modello di vita che non sembra appartenere alla Chiesa del Concilio Vaticano II, ma allo spirito controriformistico, con la volontà di giustificare la restaurazione della “verità”, che proprio il papa cerca di riproporre nella sua Chiesa.
Nel contesto della politica internazionale, di grande rilievo appaiono, in quella fase, sia la drammatica prova di forza sulla questione cubana – con la conseguente crisi della “distensione” fra USA e URSS –, sia l’assassinio del presidente Kennedy – con la caduta dell’ideale della “nuova frontiera” –, che costituirono l’antefatto di un confronto, già in atto, tra gli Stati Uniti e il mondo comunista di estremo oriente attorno alla guerra del Vietnam. Niente, infatti, allora, apparve così evidente come il fatto che la scelta americana di inviare il proprio esercito nel Sud-Est asiatico fosse legata alla convinzione delle potenze occidentali che il Vietnam costituisse il più importante dei baluardi anticomunisti, dalla fine della seconda guerra mondiale. L’avvio della contestazione in America e in Europa, quindi, ha avuto come movente determinante la reazione all’orrore scatenato dalle immagini televisive e dai reportages giornalistici sulla “guerra sporca” del Vietnam e sui bombardamenti nel Nord del paese. In una lettera inviata ad Hannah Arendt uno studente contestatore scrive nel giugno 1967 che la guerra in Vietnam ha «reso di nuovo consapevole l’unità del mondo e la necessità del suo cambiamento» («Il Sole-24 Ore», 30 marzo 2008).
Sul piano socio-economico l’arresto in Italia, come nel resto dell’Occidente, dell’ondata di cambiamento, sintetizzata in modo efficace da Karl Polanye nella sua opera La grande trasformazione, operò una sensibile interruzione all’accelerata introduzione del “welfare state”. Sul piano politico-istituzionale nei cosiddetti paesi della democrazia latina (Francia e Italia) le evidenti difficoltà incontrate da forme di organizzazione fondate sulla democrazia dei partiti e sul sistema proporzionale apparivano sempre più un ostacolo al rinnovamento, a causa della sclerotizzazione della vita dei partiti e dell’accentuata gerarchizzazione della rappresentanza politica. Perciò non sembravano offrire reali possibilità di partecipazione alle grandi masse di studenti che il nuovo sistema scolastico promuoveva all’interno delle università.
Giungevano, intanto in Europa dagli atenei americani, in particolare da Berkeley, dove insegnava Herbert Marcuse, i temi di una filosofia radicalmente critica nei confronti della società industriale di massa. L’opera che li sintetizzava era L’uomo ad una dimensione, in cui si esprimeva il concetto che ogni aspetto della società dei consumi rendesse l’uomo strumentalmente asservito alle sue finalità e che il potere era una manifestazione profondamente connessa alla sua unica dimensione, legata all’assoggettamento degli esseri viventi non con la violenza, ma con l’assorbimento nel sistema. Marcuse rappresentava l’espressione più esplicita e definita dei temi della scuola critica di Francoforte, con Adorno e Horkheimer e soprattutto le opere di questi ultimi erano quelle maggiormente diffuse in Europa. In Marcuse si esprimeva la sintesi della triade Hegel, Marx e Freud, che si risolveva in una “dialettica negativa” e cioè nella convinzione che il soggetto rivoluzionario si esprimesse solo con il rifiuto della società dei consumi. Quasi negli stessi anni Sartre portava a compimento la sua opera di revisione dell’esistenzialismo, approdando ad una forma di storicismo esistenzialista su base marxista nella Critica della ragione dialettica. Gli esiti dell’opera non erano diversi da quelli marcusiani, ma individuavano meglio l’aspetto costitutivo, ideologico e la prassi rivoluzionaria del nuovo soggetto politico critico della società esistente. Qualche anno prima Jurgen Habermas, nelle sue riflessioni sul concetto di partecipazione politica aveva individuato nella componente studentesca quella che «ha avuto una funzione di primo piano nei rivolgimenti verificatisi in molti paesi nel corso del secondo dopoguerra». Per Maurizio Ferraris (Deleuze e altri protagonisti assenti, in «Il Sole 24 Ore», 30 marzo 2008) anche Deleuze, Guattari, Foucault, Derida, i cosiddetti “noveaux philosophes”, influenzarono il contesto politico-culturale degli anni Sessanta. In quegli stessi anni Foucault, infatti, sottolineava le mutazioni del potere che aveva perso il carattere repressivo per assumere un aspetto di accettabilità in direzione della percezione come piacere, si pensi a questo proposito al potere mediatico della televisione. Deleuze sottolineava, invece, il venir meno dell’autorità paterna abbattendo ogni espressione di gerarchia sociale. Derida, da parte sua, esprimeva un concetto apparentemente astratto riguardante l’invasione della scrittura nei rapporti fra gli individui e nella vita sociale. Egli intuiva, quindi, il ruolo della scrittura come immediatezza di comunicazione universale. L’ascendente ideologico-culturale di questo gruppo di filosofi si riscontrava nella comune matrice strutturalista e nel comune riferimento psico-analitico, che aveva come presupposto Wilhelm Reich e la teoria della liberazione sessuale. La sessualità era individuata come struttura metastorica ed essenziale della coscienza dell’individuo, la cui manifestazione, che si estrinsecava nella soddisfazione del piacere, rappresentava l’istanza ultima della realizzazione dell’essere. Elemento questo, presente anche in Marcuse, che ne faceva un potenziale strumento di liberazione dalla unidimensionalità della società dei consumi.
Questa congerie di tematiche storico-culturali impregnava di nuovi stimoli una cultura scolastica occidentale, classica e sedimentata che, soprattutto, si sposava con una sorta di vichiano “sentire senza avvertire” e veniva sublimata e idealizzata per opera di quella parte della società, costituita dagli studenti ultra diciottenni, la quale appariva l’unica in grado di accogliere e plasmare acquisizioni, valori e temi diffusi dall’industria culturale degli anni Sessanta.
Il giudizio che si affermò fra gli osservatori più attenti di questi nuovi concetti, recepiti dagli esponenti più sensibili fra gli studenti e fra quanti operavano nelle fasce inferiori delle gerarchie universitarie, fu quello che stava emergendo una “vulgata” che sintetizzava, a volte trasformandoli, i complessi itinerari di pensiero formulati da una élite euro-americana. Secondo Matteucci (Sul Sessantotto. Crisi del riformismo e «insorgenza populistica» nell’Italia degli anni Sessanta, Soveria Mannelli, 2008) Freud era stato posto come alternativa a Marx, ma si trattava di un Freud interpretato
nel quadro di uno hegelismo rovesciato dalla scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse), o ripreso da Wilhem Reich nella chiave politica di una “rivoluzione sessuale” o assunto dogmaticamente come teste in una requisitoria contro la storia della civiltà occidentale, intesa come storia di una mera depressione da Norman Brown e, così, diventa di moda Lévi-Strauss, perché lo si legge nella chiave del mito del “buon selvaggio” (p. 79).

E l’autore concludeva, in questo scritto risalente al 1970, che questa “vulgata” sosteneva «con toni apocalittici l’inevitabile declino dell’Occidente, ma in sostanza esprimevano soltanto l’integrale rifiuto di tutta la sua storia, da Odisseo alla società industriale».
A quarant’anni di distanza il Sessantotto viene letto, invece, come una evoluzione o trasformazione della civiltà occidentale e viene spiegato in modo del tutto positivo dai suoi epigoni come un momento novecentesco di “rottura di quelle regole”, che governavano la società uscita dalla seconda guerra mondiale. Artefice di questo soqquadro era stata la generazione del «baby-boom» del secondo dopoguerra che aveva “invaso” la scuola e l’università, rappresentando il frutto di un’acculturazione di massa che aveva scatenato nuove esigenze e nuove prospettive, secondo una nota affermazione dell’antropologa Margaret Mead. Quest’ultima sosteneva che a partire dal secondo dopoguerra le differenze di cultura tendono a strutturarsi come differenze di generazioni. Da qui scaturirebbe nel Sessantotto un’esperienza di grande vivacità morale con riferimento a nuovi valori, di grande partecipazione politica e di uniformità di sentire della gioventù studentesca, che “grida l’immaginazione al potere”.
Si tratta, a mio parere, di una condizione esistenziale, quella rivoluzionaria del Sessantotto, che prende corpo dalla consapevolezza che può offrire solo la forza delle idee, quando determina il successo delle azioni che si compiono apparentemente al di fuori da ogni condizionamento proveniente dal contesto storico in cui si vive. D’altra parte, l’immaginazione si presentava come un concetto difficile nella formulazione di Sartre che rimaneva storicista e marxista, ma ora si accompagnava alla carica intrinseca del concetto di negatività o di quello dell’unidimensionalità dell’uomo, elaborato da Marcuse. L’immaginazione implica, infatti, una creazione originaria della coscienza, che parte dal principio di negazione dell’essere in quanto altro da sé, conquistando attraverso il rapporto con le altre individualità, una condizione o situazione che si manifesta attraverso il gruppo in fusione, il quale si muove all’unisono e realizza la creatività della coscienza di gruppo rivoluzionario. In Sartre, come è noto, l’atto diventava fatto e quindi si “solidificava” in istituzioni, e il gruppo dimensione storica. L’immaginazione sessantottina nega, invece, queste basi esistenziali così come viene negata ogni possibilità di rappresentanza e di mediazione politica come l’evolversi nell’arco di due millenni del pensiero e della prassi politica occidentale hanno, invece, determinato. Questo concetto, che da solo basta a fondare un atteggiamento rivoluzionario, si è trasformato sul piano della prassi politica di quegli anni nella volontà di voler costruire il nuovo senza tener conto del vecchio e mummificato potere, la chose sartriana espressa sia dall’Occidente capitalistico che dall’Oriente socialista. L’immaginazione creatrice di una società che non macini soltanto consumo e non pensi a conquistare il mondo in funzione del profitto e del saccheggio di quanto la natura e l’uomo hanno il dovere di salvaguardare per le future generazioni. È l’immaginazione foriera di una condizione femminile non subalterna, ma di un modo di essere donna tale da poter essere considerata come “altra”, diversa e migliore dell’uomo. Una condizione femminile, secondo una vulgata di successo, che porterà le donne che compiono scelte femministe a staccarsi dalla famiglia, a impegnarsi in politica, talvolta per molti anni e a stabilire nuovi rapporti fra i sessi e dunque, nonostante che storicamente atteggiamenti femministi siano assai più antichi di quelli espressi in questa stagione, è scontato che le scelte più radicali qui evidenziate siano legate al femminismo sessantottino. Eppure, è a partire da queste convinzioni che nel decennio successivo, in Italia, viene regolarizzata, grazie al consenso assai ampio della popolazione, l’esigenza di dare alla famiglia un carattere laico, attraverso il divorzio, e alla donna viene riconosciuta la possibilità di decidere sul “male necessario”, rappresentato dall’interruzione di una gravidanza. Non meno legato all’immaginazione produttiva appare ciò che realizza il movimento di Basaglia, che riesce a far chiudere i manicomi, in nome dell’idea che non esista una “normalità” da contrapporre alla condizione di follia, ponendosi nella prospettiva di ampliare la «compatibilità sociale» di comportamenti fino ad allora ritenuti devianti. Il tutto estrapolato dal pensiero di Foucault e dalla sua indagine sul mondo antico e premoderno.
Allo stato attuale, in questa prima fase celebrativa del quarantennio, non sono ancora state pubblicate ricostruzioni e interpretazioni complessive e unitarie sul Sessantotto, sia che siano state elaborate dai protagonisti di quella fase storica, i quali lasciandosi trasportare, in alcuni passi dell’elaborazione, da un sentimento di amarcord, nostalgicamente ne hanno ripercorso tappe, effetti, conquiste, passioni, innovazioni; sia che la trattazione sugli esiti del Sessantotto e sulle motivazioni siano pervenute da osservatori coevi, non sempre consapevoli e alle volte ostili verso lo sconvolgimento che da spettatori, talvolta frastornati, hanno osservato e hanno cercato in alcuni casi di frenare.
Del resto scrive Anna Bravo (A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Roma-Bari, 2008) «il sessantotto è diventato un simbolo, e nei simboli ci si culla, indipendentemente dal loro contenuto. I fatti finiscono per contare poco». E continua,
a un estremo il sessantotto è rovina della famiglia e della scuola, disordine sessuale, sgraziatissimo rock, violenza, droga. Oppure […] Grande inganno iniziato con la mascherata antiautoritaria, proseguito con un nuovo marx-stalinismo, e infine rientrato in grembo alla borghesia di origine […]. All’estremo opposto, c’è il sessantotto come lotta contro autorità senza autorevolezza, amore per i più deboli trasformazione delle culture, bella musica, spinelli. Ma anche come ventata di libertà, sconfitta, oltre che dalla politica “tradizionale” dal proprio stesso imbarbarimento. Qui gli ex sono brava gente […] gente che in maggioranza insegna o ha insegnato in tutti gli ordini di scuola (p. 4).

È incomprensibile che una protagonista di quegli anni sia portata a trascurare la generazione successiva dei figli o degli allievi dei sessantottini, i quali hanno ascoltato l’eco di quegli slogan senza sfilare per le strade, ma seduti nei banchi di scuola o davanti alla ingombrante televisione che trasmetteva suggestive e rievocative immagini in bianco e nero. È proprio questa generazione che ha bisogno di capire e interpretare quegli avvenimenti e quel cambiamento e che ha avvertito nell’ambito familiare e scolastico lo scontro fra il “vecchio e il nuovo” che investiva e si riversava sul piano antropologico. Quei giovani, ormai che sentono l’esigenza di porsi in una posizione di prospettiva storica, possono, oggi, essere sostenuti da una documentazione assai più abbandonante, oltre che da una bibliografia generalmente tendenziosa, fornendone una ricostruzione più obbiettiva.
D’altra parte ancora una volta la celebrazione del quarantesimo anniversario del maggio Sessantotto si prospetta, in Europa e sopratutto in Francia, come un momento implacabile, ma necessario e opportuno, presentando le caratteristiche dell’evento mediatico dell’anno. Sono previsti una miriade di convegni, nuovi studi concepiti sul tema e aggiornamenti di voci enciclopediche. In particolare sulla stampa italiana il caso francese ha suscitato già motivi di riflessione e dibattito culturale, come testimonia P. Bruckner in Il maggio dell’edonismo al potere («Il Sole-24 Ore», cit.).
Sono, in particolare, tre i connotati del “maggio francese” che Bruckner indica. Egli sostiene che «in primo luogo il ’68 non fu un’orgia di ideologia marxista che dilagò a ondate successive sulla gioventù francese ed europea». Anzi il dilagare per le strade di Parigi di sette trotzkiste, maoiste, castriste e anche operaiste determinarono come effetto la frantumazione del monopolio del partito comunista sulla vita politica e intellettuale, che era allora uno dei più oscurantisti e più asserviti all’Unione Sovietica. È quanto testimoniato dalla reazione del gruppo comunista in Parlamento rispetto all’autorizzazione ottenuta dal deputato Lucien Neuwirth sull’uso della pillola contraccettiva. I comunisti vi si opposero sostenendo che «non bisogna contaminare i poveri con i vizi dei ricchi». Sono da ricordare i grandi scioperi operai che supportarono e affiancarono la rivolta degli studenti, ma secondo Bruckner, è come se il più grande sciopero dei lavoratori in Europa avesse preparato il declino della più grande organizzazione (CGT) che a esso si richiamava. Anche perché è chiaro che
nell’ebbrezza retorica di quell’epoca bisogna leggere una progressiva presa di coscienza del fenomeno totalitario e una sua lenta messa a morte; un po’ come nel caso degli scismi all’interno della Chiesa, che si annunciavano sempre nella lingua del cattolicesimo dominante. Ultimi spasmi, ultime metastasi prima dell’agonia del marxismo-leninismo inteso come dottrina della salvezza per l’intera umanità.

Del resto il movimento studentesco era soprattutto antiautoritario e nel ritenere i dirigenti comunisti come «teppaglia stalinista» frantumava la crosta ideologica della sinistra francese, dando l’input a una lenta evoluzione verso un socialismo meno dogmatico e più aperto verso le esigenze di una modernizzazione che coinvolgesse anche la classe operaia sia pure con atteggiamenti critici.
In secondo luogo, sulla scia della rivoluzione francese, il Sessantotto parigino ha respinto qualsiasi forma di autorità, innescando così una crisi profonda in un sistema educativo fatto di regole coercitive. Abolendo le regole si offriva «vietando di vietare» ai ragazze e ragazzi la massima realizzazione di sé. Tutto ciò ha lasciato emergere nei figli del baby-boom sofferenza per i genitori assenti e incapaci di assolvere alla loro funzione, i quali all’autorità che non volevano più esercitare sostituivano una forma di amicizia, negando con questa forma di abdicazione l’opportunità ai figli di avere un padre e una madre.
Infine, Bruckner sottolinea l’esemplarità degli slogan diffusi in quegli anni: «vivere senza tempi morti e godere senza freni», «prendi i tuoi desideri per realtà», che erano ispirati dagli scritti di Guy Debord e Raul Vaneighem. Col tempo, però, gli slogan più sovversivi e l’invito al piacere si trasformarono in un motore di sviluppo della macchina economica. Se «le parole d’ordine erano libertarie, l’applicazione è stata pubblicitaria». Ecco che i teorici dell’edonismo devono accettare il fatto di avere spianato la strada al capitalismo più aggressivo, per cui non si può condannare, come ha fatto Sarkozy quel maggio Sessantotto che ha «scongelato la Francia mummificata del gollismo». Il presidente francese anche se non perde occasione per colpire le idee del Sessantotto, ne incarna tutte le sfaccettature dalle migliori alle peggiori: rivendicazione del diritto alla felicità, culto del corpo, familiarità del tono, ecc.
In questo contesto rievocativo si inserisce, rinchiudendolo nel caso italiano, Mario Capanna, uno dei protagonisti del Sessantotto a Milano e in Italia, con il suo ultimo libro (Il Sessantotto al futuro, Garzanti, Milano, 2008), che realizza così una trilogia di brevi monografie sugli anni della contestazione, avviata nel 1988 (Formidabili quegli anni) a vent’anni di distanza da quell’epoca “formidabile”, poi continuata dopo trent’anni con Lettera a mio figlio sul ’68. Quella di Capanna si propone come una testimonianza e una riflessione, a scansione decennale, su quel movimento storico che legge rapportandolo alla sua esperienza autobiografica e all’evoluzione e alle trasformazioni rispetto a quella situazione che ha subito il mondo attuale in cui egli stesso riflette e agisce. L’esperienza del leader italiano costituisce un esempio di storiografia in fieri, paragonabile, sia pure con le dovute, notevoli, distanze, al modello di storiografia rappresentata, ad esempio, dai Taccuini di Andreotti, pubblicati anch’essi periodicamente e con ben altro rilievo editoriale. La linea analitica di Capanna appare, del resto, opportuna se si pensa che è comune acquisizione il parlare di “lungo Sessantotto” a partire dalle osservazioni di Matteucci (Sul Sessantotto. Crisi del riformismo e «insorgenza populistica» nell’Italia degli anni Sessanta, Soveria Mannelli, 2008, pp. 90-91).
Capanna conduce nel suo libro, ed è questa la sua parte più dialettica, un excursus sulle valutazioni negative suscitate dal Sessantotto, emerse, in particolare, nelle celebrazioni decennali. La risposta alle critiche nei confronti del movimento gli permette di rintracciare quanto, secondo lui, di quegli anni è sopravvissuto e quanto si può ripercuotere, come una cassa di risonanza, in positivo nel futuro.
Egli ricorda come nel Settantotto si siano rivolte accuse al movimento di avere generato il “mostro” del terrorismo, che proprio in quell’anno ha raggiunto il momento di maggiore tragicità in Italia con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, ma nega che il terrorismo rosso sia stata una manifestazione degenerata del Sessantotto. In questo suo giudizio Capanna non considera l’elemento di fondo costituito dal soqquadro determinato dal Sessantotto. Esso si è manifestato nello sconvolgimento dell’ordine precostituito e nelle manifestazioni delle cosiddette frange impazzite del movimento sessantottino scatenatesi nel terrorismo degli anni Settanta, dando consistenza all’idea che il raggiungimento dell’eguaglianza si potesse realizzare solo attraverso la violenza, anche omicida, secondo la prassi che da Robespierre e dal “terrore” raggiunge l’anarchismo e sfocia, come ultima istanza, durante gli anni Settanta, nel “partito armato”. Secondo un’idea già formulata da Saint-Just «la forza delle cose ci può portare a risultati ai quali non avevamo affatto pensato» (cit. in M. Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Bari, 1989, p. 25). Testimoniando maggiore “coerenza” agli ideali violenti della «contestazione» attraverso una discutibile riproposizione di antiche convinzioni, Franco Piperno, uno dei leader di Potere Operaio, in un libro-intervista a carattere memorialistico (’68. L’anno che ritorna, Milano, 2008), intriso di una profonda passione per la cultura, così da lasciare emergere pagine di gradevole coinvolgimento artistico scrive che il Sessantotto «ha richiamato la temporalità anteriore a quella moderna, quando la violenza sociale non era ancora stata addomesticata dai riti della rappresentanza». E continua: «qui la violenza ha un volto liberatorio e perfino solare – come il bisturi del chirurgo, ferisce non per uccidere, ma per aiutare la vita; si svolge contro i limiti legali imposti dal dominio, limiti comunemente percepiti come distruttori e inibitori di relazioni sociali, attuali o potenziali che siano». E conclude dopo qualche pagina, con l’incomprensibile affermazione «noi allora eravamo convinti che democrazia volesse dire il fucile sulla spalla dell’operaio e dello studente, per parafrasare Lenin» (pp. 59-60, 69).
Ancora Capanna nella sua trattazione a scansioni decennali del dibattito sul Sessantotto italiano, in riferimento alla celebrazione del ventennale, prende spunto da un’affermazione di Montanelli, il quale formulando, a sua volta, un giudizio scrive che «celebrare il ’68 è da somari o da terroristi». Se la riproposizione della degenerazione del movimento, sfociato nel terrorismo, è una nota già ricordata, l’attributo di “somaro” si spiega come conseguenza della valutazione dissacratoria che il giornalista ha offerto sul movimento, considerato come la causa del soqquadro della scuola italiana, attraverso la rottura delle regole fondanti la gerarchia scolastica fra docente e discente, provocando, inoltre, lo scadimento dei contenuti dell’insegnamento. L’epiteto di Montanelli sembra richiamare un articolo con riflessioni dai tratti profetici di Matteucci, scritto nel 1968 (op. cit., pp. 9 sgg.), ove quest’ultimo sosteneva che uno degli aspetti centrali dell’avvio della contestazione negli atenei italiani era costituito dalla riforma dell’università che doveva corrispondere alle modificazioni intervenute nella vita sociale del paese con la scolarizzazione di massa. Il disegno di riforma venne elaborato dal governo di centro-sinistra fin dal 1965, con la presentazione della legge che portava il nome del democristiano Gui e del socialista Codignola. La “23 e 14”, come venne chiamato questo disegno di legge, proponeva una profonda modifica dell’organizzazione universitaria, in primo luogo sul piano della ricerca, poiché prevedeva la nascita dei dipartimenti come strutture di interfacoltà che consentissero la integrazione delle competenze scientifiche in settori di ricerca comuni. Sul piano dei titoli di studio indicava tre livelli di laurea e infine rinnovava radicalmente le procedure concorsuali per i docenti. Le novità proposte ebbero una dura contestazione da parte dei docenti di ruolo e delle facoltà, ma non accontentavano le aspettative di assistenti e precari dell’università, che proponevano, invece, l’obbiettivo del docente unico. Ancora più ostili alla proposta dei tre livelli di laurea si mostrò la grande massa degli studenti che non condivideva affatto il maggior rigore negli studi e la prospettiva di un allungamento del periodo universitario (op. cit., pp. 16-18). Lo stesso Matteucci andava poi alla ricerca delle motivazioni che negli anni della contestazione studentesca avevano visto protagoniste delle agitazioni non le facoltà più squisitamente tecniche, e in cui l’ingresso della professionalità legata al mondo del lavoro era molto forte, e quindi era più prevedibile la contestazione antiborghese e anticapitalistica degli studenti, ma le facoltà, come quella di Lettere, in cui la professionalità dei docenti era sostanzialmente messa a servizio degli studenti. Egli riteneva di avere trovata la risposta nella crisi della cultura umanistica che affliggeva in quella fase storica la vita intellettuale del paese. In particolare, questa crisi era connessa alla parcellizzazione e alla specializzazione, fine a se stessa, della cultura accademica italiana e alla sua incapacità di tradursi in un rapporto organico con le esigenze del paese in termini di crescita della vita morale e dell’impegno civile. Da qui la profonda frustrazione di cui erano vittime gli studenti delle facoltà umanistiche che assai numerosi popolavano queste facoltà, ma con la sola prospettiva di acquisire una professionalità a livelli di insegnamento nelle scuole medie (pp. 43-45).
In realtà, tutto questo generò un esercito di laureati di quella stagione della contestazione, composto, in gran parte, da studenti non coinvolti nelle manifestazioni, ma che accettavano senza remore il grave degrado della propria formazione culturale, conseguente alle tormentate vicende contestative nei più importanti atenei. Una volta usciti col titolo dottorale, un segmento maggioritario venne assorbito fra i quadri carenti di docenti della scuola italiana e inserita nei ruoli con leggi speciali e senza alcuna verifica concorsuale sulla loro preparazione, nel corso di gran parte degli anni Settanta. Venne assunto così un magma composto dalla più ignorante classe docente della storia del paese – avvocati vennero chiamati a insegnare lettere o filosofia o lingue straniere, così come ingegneri a insegnare matematica – i cui effetti nefasti ebbero riflessi e ripercussioni immediate sulla generazione dei figli del Sessantotto, e persistono ancora, a circa quarant’anni di distanza.
Riprendendo ancora la scansione temporale della ricostruzione operata da Capanna rispetto agli avvenimenti accaduti nel decennio degli anni Ottanta, egli li presenta come pervasi da yuppismo, dalla degenerazione determinata dal post terremoto dell’Irpinia, dalla politica nazionale contrassegnata dalla gestione del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) e da ciò che più tardi si manifesterà come Tangentopoli. Sul piano internazionale, improvvisamente riscoperto, il tempo lungo del fiume carsico di liberazione, originato dal Sessantotto, riemerge e sfocia nella crisi dei regimi comunisti dell’est europeo e nello slancio verso la democrazia di tipo occidentale, che si realizza in varie parti del mondo. Le osservazioni dell’Autore non appaiono particolarmente pertinenti. Il fenomeno del yuppismo e l’assenza di vivacità politico-culturale delle giovani generazioni si spiegano non come fattori imposti dall’alto e conseguenti a influenze del contesto, ma come eredità intrinseca di quei “formidabili anni”. Da questi si erano enucleate nuove regole individuali e collettive che avevano determinato la necessità di un assorbimento e di una condivisione da parte di strati sempre più ampi della società. Emergeva, inoltre, negli studenti di quegli anni, figli “intellettuali” e naturali dei protagonisti del Sessantotto un sentimento di inadeguatezza rispetto a quelli che con amarezza e nostalgia si autodefinivano “eroi di quegli anni”. E non a caso è proprio Capanna a scrivere “formidabili quegli anni”. Si spiegherebbe, così, l’inadeguatezza di quella gioventù che si adagia su un benessere, sempre più appetibile da tutti, e che non riesce a individuare nuove frontiere verso cui tendere, poiché è assai difficile che esse si possano identificare nella battaglia sindacale e politica per i “punti di contingenza”. Non restava altro agli “ottantottini” che vivere attraverso i cantastorie e i reduci del ’68, ormai infiltrati e omologati nei gangli formativi del sistema scolastico, con merito o con demerito, quel passato mai vissuto. Quel passato veniva emulato da una parte di quei ventenni che si erano accostati alle forme di arte attraverso le suggestioni dei sessantottini, che ne avevano recepito con grande sensibilità i messaggi e le emozioni. Più efficaci in questa direzione le osservazioni di Piperno:
la canzone italiana, quella di De Andrè per intenderci, ha ben lavorato alla sovversione sentimentale del paese proprio perché ha ricongiunto la musicalità della voce umana alla poesia; il senso e il suono si sono così fusi seguendo una potenza espressiva senza precedenti. Il rinnovamento, però non è stato l’esito di mutamenti nelle tecnologie di produzione del suono […]. Si è trattato, ripeto, della riscoperta dell’antico rapporto per il quale il senso della parola di realizza nella modulazione sonora della voce umana – lo strumento musicale svolge qui una funzione ancillare, d’amplificazione ed esaltazione di quella modulazione (op. cit. pp. 81-82).

Per quanto concerne il dibattito del Novantotto la poca attenzione che Capanna dedica ai temi discussi in quegli anni non sono esaustivi rispetto allo sconvolgimento che aveva interessato negli anni di Tangentopoli la vita politica e socio-economica del paese. Tutto ciò ha solo dato all’autore la possibilità di affermare che quanto avvenuto era la dimostrazione della validità della contestazione che il Sessantotto aveva espresso e che quindi quegli ideali avevano influito nel lungo periodo sulla crisi dello Stato e della società italiana. L’assenza di novità concettuali nelle celebrazioni costituirebbe il risultato di una condizione di inferiorità della vita culturale e politica degli anni Novanta rispetto alle critiche radicali nei confronti di ogni forma di potere degenerato, che il Sessantotto aveva denunciato. Era un «silenzio assordante» che non dissacrava, ma neanche salvava.
Eppure, a dispetto delle note di Capanna, a distanza di pochi anni le sopravvenute critiche diffuse in Europa e negli Stati Uniti che tentavano di interpretare le cause che avevano determinato l’11 settembre portavano sul tavolo accusatorio proprio il Sessantotto, considerato, come si è detto, la matrice della crisi morale dell’Occidente. Proprio Capanna, in una pagina del suo libro, offre una risposta indiretta, attraverso le espressioni del cancelliere tedesco Schroeder che, nel 2001, intervenendo nel parlamento della Repubblica federale, in risposta a un attacco politico della democristiana Angela Merkel sosteneva che non era accettabile «strumentalizzare e diffamare il ’68» in quanto aveva costituito una grande novità ed eredità per la società tedesca, insegnando a quest’ultima e, soprattutto, alla sua classe politica a riconoscere il primato della società rispetto allo Stato.
La seconda parte del libro di Capanna è quasi un de profundis rispetto alla matrice filosofica e alla temperie culturale che aleggiava in “quegli anni”, determinata soprattutto dalla crisi dell’«immaginazione del gruppo in fusione» e dal recupero dell’“altro da sé”, attraverso l’assunzione negativa dei temi della globalizzazione, del disastro ambientale e della catastrofe che sarà determinata perseguendo i ritmi attuali dello sviluppo della civiltà dei consumi. Capanna cerca di fornire una spiegazione filosofica ripescando Eraclito e il suo concetto di «conflitto come sostanza della realtà». Il conflitto che deve essere inteso come il riconoscimento della totalità dell’altro da sé e non significa la “conquista” militare e la dominazione dell’altro. Il nuovo concetto di conquista, invece, implica l’identificazione e la percezione della realtà nel suo insieme. Ecco che il dovere rivoluzionario ereditato dal Sessantotto assumerebbe le caratteristiche della lotta alla globalizzazione e all’imperialismo, in nome di una profonda modifica in direzione di una riaffermazione di una sorta di “leggi suntuarie”, contro gli sprechi della società dei consumi.
Buona parte della pubblicistica prodotta dai protagonisti di “quegli anni”, da quanto è emerso attraverso le loro analisi emulative e dettagliate, si pone nella condizione di chi si sente pervaso da sessantottismo, da quel particolare stile di vita e da quelle idealità che si rifrangono mostrando immagini rivitalizzate nelle manifestazioni portate avanti dai “no global”. Costoro, in conclusione, ritengono che il Sessantotto, nato global, come ricordava lo studente berlinese alla Arendt, si sia inverato proprio attraverso il movimento dei “no global”, per definizione locale.
Invece, quel processo definito come globalizzazione è storicamente il risultato della rivoluzione industriale che ha consentito alla società capitalista di operare un collegamento tra l’“economia mondo”, espressione dell’antico capitalismo mercantile, già presente nei secoli precedenti, e lo sviluppo della produzione industriale di massa che si avvia nell’Ottocento. Inoltre, dalla rivoluzione francese, che ne ha sanzionato i valori universali di eguaglianza fra gli uomini e la messa in secondo piano delle differenze individuali a fondamento della società liberale.
Più coerentemente, sulla scia di tematiche di lunga durata, nel suo libro, a carattere memorialistico, Anna Bravo, già nell’introduzione, scrive che «il femminismo […] è la sola realtà che ha continuato a cambiare, investita da un lato da nuove generazioni che vogliono ridefinire il femminismo “in modo tale che voi rischiate di non riconoscerlo”» e che nonostante molti aspetti del movimento di massa siano spariti, l’eventualità di una modificazione della legge 194 ha di nuovo portato una folla di donne a manifestare per le piazze (op. cit., p. 23). Proprio nella direzione della continuità è suggestiva la ricostruzione che l’autrice compie sull’evoluzione che il movimento femminista ha vissuto nel Novecento e scrive, con ironia, che «secondo una vulgata di successo il femminismo nasce nel e dal Sessantotto, che avrebbe portato le ragazze a staccarsi dalla famiglia, a scoprire la politica, a sperimentare rapporti nuovi fra i sessi, a sentirsi protagoniste». In un passo successivo afferma, invece, che «il Sessantotto, con il suo espandersi a ondate nella società, contribuisce a preparare il terreno per un movimento delle donne tendenzialmente di massa». Da quegli anni, quindi, proviene un contributo che si ripercuote e si rinvigorisce ancora oggi, per la necessità di difendere i risultati ottenuti, grazie a quelle battaglie, in termini di diritti civili (divorzio, aborto, ecc.) messi in discussione, malgrado la sedimentazione avvenuta in buona parte della società italiana per il consenso della popolazione.
Del resto non è concepibile che le idee e le manifestazioni di quella stagione siano state assorbite sul piano antropologico senza l’intromissione della politica, che le ha legittimate e accolte sul piano dell’ordinamento giuridico attraverso i referendum. La risposta dell’elettorato italiano dava torto a eminenti osservatori di quel tempo, i quali sostenevano, invece, la lontananza e l’estraneità da quei valori da parte della maggioranza della popolazione, in alcuni casi definita “maggioranza silenziosa”. A tal proposito la Bravo scrive che «far risalire cambiamenti epocali all’azione di un gruppo sociale composito, esteso ma largamente minoritario, significa avere un’idea ben semplicistica, a dir poco, del divenire storico»; così come la fantasticheria che «le idee possano trasformarsi in realtà direttamente e senza mediazioni» (op. cit., pp. 5-6).
Come ebbe a scrivere in quegli anni Galasso dalle agitazioni e dai tormenti non necessariamente doveva nascere «un gran male, poteva venire anche e soprattutto un gran bene». Per questo c’era bisogno del «sostegno di miti politici» nuovi e dinamici sia per chi viveva l’oggi, sia per le generazioni che sarebbero seguite (Italia democratica. Dai giacobini al partito d’Azione, Firenze, 1986, p. 399). In realtà, è proprio quanto avvenne e i miti positivi e dinamici vennero diffusi nelle province attraverso l’associazionismo politico e anche attraverso l’inserimento della gioventù della contestazione nelle preesistenti forme partito, fino a indurre le fasce più anziane a un fenomeno di imitazione. «La scossa fu […] profonda», se si considera fra gli aspetti e gli effetti della contestazione non solo quelli politici, sociali e culturali, ma anche i riflessi nel costume e nella mentalità. Infatti, fu tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta che si ebbe la svolta
che riguardò la moda e gli spettacoli, il giornalismo come la radio e la televisione, la musica e il ballo, le convenzioni igieniche e alimentari, l’uso del tempo libero e l’organizzazione delle vacanze, il turismo e gli spostamenti non lavorativi, l’etichetta dei rapporti sociali e di quelli privati, il tono e la prassi delle relazioni familiari e personali, il comportamento sentimentale e quello sessuale, la considerazione del superfluo e quello del necessario, il modo di abitare e di viaggiare, l’intonazione della pubblicità commerciale e la presentazione dei prodotti, il modo di parlare e di atteggiarsi in pubblico e in privato (Storia d’Europa, p. 469).

Per Galasso il mutamento lasciò emergere aspetti rimasti allora in ombra, che comunque si andavano formalizzando negli sviluppi del mondo contemporaneo. Circa venti anni dopo, quando il fenomeno aveva già svolto ed evidenziato completamente l’ampia scala dei suoi frutti ed effetti appariva difficile pensare che un mutamento di così vaste e complesse dimensioni potesse essere stato indotto esclusivamente solo dalla «contestazione» o che potesse essere inglobato nel complesso e interamente in essa.
C’erano, invece, tutti gli elementi per ritenere che la “contestazione” stessa nella sua genesi fosse figlia di quel mutamento. La connessione non era, tuttavia, del tutto infondata. Con la “contestazione” quella vera e propria “rivoluzione culturale” di cui parliamo ebbe un’accelerazione fortissima e un mezzo di trasmissione di enorme efficacia sia nella misura in cui se ne fu consapevoli, sia nella misura in cui ciò non avvenne».

In conclusione sempre Galasso scriveva: «nessuno che abbia lume di ragione politica potrà dare il proprio consenso ai moti studenteschi e operai nella forma in cui si sono svolti in Francia e, meno intensamente, in Italia o alle rivendicazioni anarchiche e perfino scervellate che ne sono scaturite. Ma è vero pure, d’altra parte, che nessuno, che abbia cuore generoso e il senso profondo dell’importanza fondamentale che nella vita associata hanno le grandi tensioni morali e l’impegno e i sogni e le fantasie e i miti connessi alla speranza di realizzare un più libero ed alto e largo ideale di vita sociale e politica, potrà sottovalutare il significato della presenza nelle nostre piazze di tanti giovani urlanti e irragionevoli, ma fervidi, appunto, di speranze e di ideali» (L’Italia democratica, p. 335).
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