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Altiero Spinelli
di Adolfo Battaglia
Da qualche anno la riflessione sul nostro Novecento ha cominciato ad affrontare i profili di figure centrali per la comprensione dell’Italia repubblicana. Per limitarci agli ultimi anni, nel 2004 abbiamo avuto la biografia di Polese-Remaggi su Ferruccio Parri; nel 2005 lo studio di Barbagallo su Enrico Berlinguer; nel 2006 quello di Craveri su Alcide De Gasperi, quello di Borgna su Alessandro Galante Garrone e quello di Maria Luisa Cicalese su Guido De Ruggiero; quest’anno, la monografia di Soddu su Ugo La Malfa e il lavoro di Graglia su Altiero Spinelli. Come si vede da questo sommario elenco, l’area azionista sembra focalizzare la maggiore attenzione. Una conferma viene anche dai numerosi saggi dedicati al significato dell’azionismo in varie riviste di cultura, a cominciare da questa. Ed una ulteriore conferma deriva dall’apparizione continua di carteggi e diari di figure eticamente rilevanti nel farsi dell’Italia democratica: dalla corrispondenza tra Leo Valiani e Franco Venturi, edita a cura di Edoardo Tortarolo, alla mèsse degli epistolari di Ernesto Rossi pubblicati da Laterza ad opera di un curatore in verità assai impreciso; dai diari di Giorgio Agosti, per cura del figlio Aldo, a quelli dello stesso Spinelli, da tempo editi da Paolini, al progetto recente avente al suo centro Piero Calamandrei.
Ora, Spinelli, Franco Venturi, Galante Garrone, Agosti, Calamandrei, e il loro stesso maestro Gaetano Salvemini, e per altri versi Guido De Ruggiero e Leo Valiani sono state tutte figure di alto spessore culturale ed etico-politico. Rappresentano periodi di galera, di esilio, di isolamento interno; e insieme, momenti di riflessione e spirito critico, di scritti spesso fondamentali. Capacità di sacrificio e testimonianza li collocano fra le personalità della vita italiana da riconoscere e tenere alte. Si pongono, in effetti, nel ristretto pantheon di riferimento della Repubblica democratica che il Capo dello Stato va indirettamente e sagacemente ricostruendo.
Se ciò non è dubbio, è anche sicuro che non furono, alla lettera, grandi uomini politici. Influirono certamente sulla vita politica del loro tempo con la robustezza intellettuale e morale della loro personalità. Ma sembra accomunarli una certa difficoltà di intendere davvero il gioco delle forze sociali, i condizionamenti internazionali, gli sviluppi dell’economia, il peso del passato, le tendenze della loro epoca nascoste spesso dietro le pieghe dell’ideologia: tutto ciò, in sostanza, che è il fondamento primo dell’azione politica vitale. Essi stessi ne furono del resto consapevoli e ben si guardarono dal trasformare la passione politica in impegno quotidiano. Si occuparono, consapevolmente, di altro, anche se in determinate fasi si profusero in un impegno diretto: ma erano i primi a riconoscere che la loro dimensione più significativa si poneva non sul piano politico, ma sui terreni nei quali conseguirono eccellenza di risultato.
Quali sono le ragioni del distacco di queste alte figure (e di tante altre, in verità, sullo stesso fronte o su fronti vicini) da ciò che si chiamava un tempo “la realtà effettuale delle cose”? Ecco qualche cosa che si sarebbe desiderosi di comprendere in modo approfondito. Contribuirebbe, probabilmente, a spiegare le debolezze della classe dirigente italiana e la difficoltà di avere nel nostro paese esperienze che hanno fatto la modernità di altri Stati europei. Servirebbe, indirettamente, ad irrobustire i quadri del personale politico della democrazia, che in Italia sono sempre stati scarsi per il prevalere di ideologie astratte, cioè di concezioni lontane dall’analisi critica della realtà e dalla individuazione delle linee di indirizzo capaci di modificarla. Ma per rispondere a quell’esigenza di approfondimento occorrerebbe ciò che ancora troppo spesso manca: una completa serie di puntualizzazioni storiografiche, sia pure nella ricerca di possibili ragioni comuni o di quadri generali di riferimento (come per esempio quelli già accennati da Bobbio, la tradizione “di corte” della cultura nazionale, o Lepenies, l’intellettualità “tra malinconia e utopia”).
Non riescono perciò a dare risposte utili né i felici cantori della cultura azionista né i suoi accaniti detrattori. Né vi hanno dato risposta quanti hanno fatto ricorso a discorsi che pur rifacendosi alla specificità dell’indagine storica si richiamano a fenomeni ormai poco adatti ad inquadrare e meglio comprendere. Scontiamo ancora oggi il peccato compiuto da Giovanni De Luna – nella prima importante ricostruzione della vicenda azionista, la sua Storia del Partito d’Azione – privilegiando in essa la dimensione “esistenziale” dell’antifascismo rispetto alla dimensione politica. E finché non si saranno esplorati ex funditus questi aspetti della vicenda italiana sempre trascurati o fraintesi, finché le ragioni e il metodo della democrazia non saranno penetrate nel paese al punto di divenire egemoni, c’è seriamente da dubitare che sarà possibile impiantare anche in Italia il solido tessuto su cui poggiano i paesi europei moderni.
*****

Sotto questi profili si rimane adesso un poco delusi anche della importante e poderosa biografia di Altiero Spinelli pubblicata da Piero Graglia per le edizioni del “Mulino”1. Il limite del libro è connesso al suo stesso elemento di pregio, la ricostruzione del pensiero e dell’azione di Spinelli sulla scorta delle carte, le lettere, gli articoli e i libri del biografato, seguite non solo in modo continuativo ma anche, talora, lievemente pedissequo. Non ne esce uno sbalzo della materia, per dir così, che fissi l’obbiettivo ruolo e l’effettivo peso della sua figura nella condizione politica e nel dibattito intellettuale del periodo. Spinelli non è sufficientemente visto nel quadro in cui operò, con una chiara puntualizzazione delle ragioni di fondo dei suoi successi e insuccessi, degli aggiornamenti e talora mutamenti di posizione che ebbe (pur mantenendo sempre ferma l’esigenza di un potere europeo sovranazionale). Si esce dalla lettura con l’impressione che Spinelli sia stato un importante leader politico: ma in verità è difficile scorgere in Spinelli lo specifico dell’uomo politico; e se proprio non erriamo era questa l’impressione che si traeva anche dalla più recente riflessione sulla figura di Spinelli, che è quella dedicatavi in una lecture all’Enciclopedia Italiana da uno storico autorevole come Gennaro Sasso.
Il volume, per esempio, coglie solo marginalmente un momento essenziale della personalità di Spinelli, che un amico e un discepolo come Renato Giordano annotava già nel 1959: “certe origini leninistiche”. Questo spunto leninista è più volte ricordato nel volume: ma come nasca, come abbia inciso nella sua giovinezza, perché sia rimasto una volta abbandonato il comunismo, contribuendo a indirizzarne l’azione, non é analizzato con la compiutezza che forse sarebbe stata utile. Non è colto, su questo filo, un aspetto rilevante dell’azione di Spinelli, il frequente carattere intellettualistico, di radicalismo astratto, che essa ebbe. Un carattere che, senza collocarlo nel filone del massimalismo, tabe del progressismo italiano, avrebbe dovuto forse essere precisato come chiave di lettura generale, atta a spiegare criticamente le proposte, i pregi, gli entusiasmi e gli errori di Altiero.
In questo stesso senso, colpisce che nel volume sia pressoché saltato un momento rilevantissimo (e assai specifico e determinato, niente affatto massimalista) dell’opera di Spinelli: cioè la sua intensa collaborazione con il maggiore statista democratico-cristiano, il suo peso nell’orientamento che determinò la posizione dei Governi De Gasperi in favore della Ced e del famoso art. 138 del Trattato. Sembra singolare che su questo importante punto l’autore si limiti in una nota a rinviare ad un volume altrui, quello di Daniela Preda2, dichiarando che «il suo lavoro ci libera dall’incombenza di dover scendere troppo nei particolari». Egualmente manchevole è l’analisi di un altro punto rilevante e controverso: la posizione schiettamente “federalista” che gli Stati Uniti espressero per circa due decenni, l’intenso sforzo politico (durato in sostanza fino all’arrivo di Kissinger) mirato non solo a ricostruire i paesi europei dopo la guerra ma a dare loro nuova forza politica costruendone l’unità in termini sovranazionali. Era un’idea-cardine che fortemente pesò nella politica europea; e di cui sarebbe stato interessante scorgere sia il peso nell’orientamento di Spinelli sia i modi in cui si espresse, anche tenendo presente che costituì uno degli snodi della condizione internazionale e del passaggio dell’America dalla posizione di costruzione dell’Occidente, attraverso la collaborazione con l’Europa, alla posizione di potenza imperiale, guida dell’intero Occidente.
È chiaramente esplicitata invece, seguendo i suoi scritti, la progressiva evoluzione di Spinelli “dalla dimensione movimentista a quella tecnica”: ovvero, diciamo più chiaramente, il suo passaggio dall’intransigente federalismo costituzionale originario al ripensamento dell’impianto stesso della politica federalista. Fino alla nuova consapevolezza che l’obbiettivo del potere politico sovranazionale avrebbe potuto essere raggiunto anche «utilizzando con intelligenza gli strumenti già disponibili o che sono realizzabili nell’ambito del metodo funzionalista». Che è, come si intende, una sorta di resa al realismo costruttivo di Monnet dopo anni di contrasti fra i due grandi europeisti.
È questa evoluzione, dopo un decennio non poco travagliato, che consente e motiva il nuovo tipo di presenza politica di Spinelli descritta da Graglia: la ripresa del ruolo di “consigliere del principe” (che adesso non è più De Gasperi ma Nenni, ministro degli Esteri nel governo Rumor), l’ingresso nella stanza dei bottoni europea con la nomina a rappresentante dell’Italia nella Commissione di Bruxelles, l’elezione al Parlamento italiano e a quello europeo nelle liste del Pci. A Strasburgo, infine, l’ultima battaglia della sua vita, diretta a far approvare dall’Assemblea il progetto di Costituzione europea del “Club del coccodrillo”, il cenacolo da lui creato nella capitale belga.
Può notarsi che la progressiva evoluzione politica di Spinelli cui il volume fa riferimento è del tutto parallela ai momenti cruciali della sua vita in libertà. Prima, dopo la prigione e la Resistenza, l’estendersi della sua conoscenza del mondo internazionale. Poi, gli approfondimenti tematici compiuti nella sede scientifica dell’Istituto Affari Internazionali (che Spinelli fondò non senza una rottura con il leader del gruppo del “Mulino”, Fabio Luca Cavazza). Infine, la sua penetrazione dei meccanismi istituzionali delle Comunità europee, entro i quali si trovò ad operare nei suoi ultimi sedici anni, non poco provati da dolori personali. È una evoluzione che dimostra la vivezza della sua intelligenza: la sua prontezza nel rispondere a sollecitazioni culturali e politiche; nell’integrare, o parzialmente superare, le concezioni su cui si era basato a partire dagli anni ’40. Del resto, anche le sue oscillazioni fra il Partito d’Azione, i socialdemocratici, De Gasperi, Nenni, La Malfa e Berlinguer non possono essere lette in chiave opportunistica. Dietro esse erano essenzialmente la sua intelligenza critica e la sua passione europeista. Ed era tutto ciò che lo ha progressivamente portato dal Manifesto di Ventotene del ’41, d’impronta intenzionalmente rivoluzionaria, fino all’ultimo suo scritto, del 1986: una risposta all’attacco politico rivoltogli sull’«Espresso» da un giovane dirigente comunista, redatta con quello stile vigoroso e diretto che caratterizzava anche il modo di parlare di Altiero, e così bella e lucida che vale la pena di citarla pressoché interamente:
Come prima cosa, ti consiglio di tener sempre presente che se ti capita di prendere un calcio nel sedere (da Gheddafi o da altri) la tua prima reazione deve essere di restituirlo. Dopo di che mettiti pure a un tavolo a “fare politica” con chi te lo ha dato.
Secondo: non hai notato che la mia osservazione più importante non era l’approvazione di Reagan, ma era la constatazione che l’Europa occidentale da quarant’anni a questa parte ha rimesso la sua politica estera e di difesa nelle mani degli Stati Uniti, e che la maniera per mettere fine a questa situazione non sono i miagolii intorno alla sovranità nazionale di questo o quello Stato europeo, ma la costruzione (meglio tardi che mai) di un potere federale europeo il quale elabori una politica estera e di difesa comune, e possegga tutti i meccanismi necessari per creare intorno ad essa il consenso e per dare ad essa esecuzione.
In terzo luogo, vale forse la pena che tu metta da parte frasi e cianfrusaglie pacifiste, e che dia alla tua cultura politica, come nutrimento, un po’ di midollo di leone. Ti accorgerai così che la forza militare deve essere sempre tenuta sotto (il) forte controllo di una volontà politica, ma guai ai politici che la scartano con ohi e ahi! vari, come un male assoluto.
Tu vieni da un partito il quale queste cose un tempo le capiva, anche se quasi sempre le capiva male. Infine ti ricorderò che voler considerare l’uso della forza come qualcosa di sporco significa sempre, a non voler essere ipocriti, accettare – e magari augurarsi – che sia il Grande Fratello a sporcarsi.

Queste considerazioni, insieme ai frammenti di una conferenza rimasta non completata – scrive Graglia, concludendo il suo libro – «danno il senso di un’umanità densa; di una saggezza conquistata quando ormai serve a poco o nulla; di un vivo interesse per l’educazione umana e politica dei propri simili; il retaggio di una tradizione politica abbracciata in gioventù con entusiasmo e mai rinnegata per quello che di fecondo e di positivo aveva sul piano della formazione del militante e del rivoluzionario, lo sdegno per l’Europa incompiuta e belante». Tutto giusto e condivisibile. È anche giusto aggiungere che la figura di Spinelli resta nella vicenda del nostro paese – e nell’immaginario collettivo che l’accompagna, e in parte la nutre – essenzialmente come un grande simbolo di valore europeo: il simbolo stesso di quella volontà di unire il continente nella democrazia, resistendo all’Urss, che ha contraddistinto un’intera epoca storica e che Altiero sentì, dopo la rottura con il comunismo, come il fulcro stesso della sua vita.
*****

Ci si può domandare oggi, naturalmente, se quell’epoca storica non sia da considerare tramontata. Se gli esiti stessi, pur importanti, dei processi unitari europei non abbiano finito con l’aprire al vecchio continente problemi tutt’affatto diversi e difficili, ma irrecusabili. Se non occorra porsi, dopo la moneta unica e l’allargamento ad est, questioni più vaste, in certo senso parallele alla realtà del mondo globale e al suo straordinario tumulto. E ci si può domandare dove stia oggi il bandolo della matassa per affrontare tali questioni: quel bandolo che era stato così chiaro per i problemi postisi nel mezzo secolo “europeista”.
C’è la sensazione, in effetti, che qualche cosa di profondo si sia messo in moto. Che il ciclo dell’unità dell’Europa si sia concluso, almeno nei termini in cui fu concepito; e si sia aperto invece il ciclo dell’unità dell’Occidente.
È difficile, in effetti, non essere consapevoli che soltanto in tale ciclo sarà possibile – pur non essendo facile – tenere fermo quanto l’Europa ha finora conquistato. E che quanto occorre invece con urgenza è l’opera di una pluralità di soggetti dell’Occidente, differenti sì, ma compatti su indirizzi specifici anche in mancanza di momenti istituzionali comuni. Non sembra felice l’idea che tale azione possa essere realizzata puntando su costruzioni sovranazionali di stampo federalista, chiaramente impossibili, come priorità, e irrealizzabili, ovviamente, se si sfascia in due pezzi l’Europa esistente.
Forse, non è superfluo notare che spingono verso la nuova direzione di marcia sia la cruciale crisi energetica insediatasi nel Medio Oriente, sia l’esplosiva crisi del capitalismo finanziario diffusa nel mondo dagli Stati Uniti. Entrambe sembrano fondamentali per la vita dell’Occidente. E viene maturandosi dovunque, anche negli S.U., la convinzione che senza indirizzi e regole comuni è assai difficile che l’Occidente possa rispondere efficacemente a queste difficoltà non puramente congiunturali. Questo approcci recupera dunque la teorica del funzionalismo, applicata non all’unità dell’Europa ma a quella dell’Occidente, ed esige un momento parziale di sovranazionalità: anche se non comporta strutture istituzionali pesanti di tipo UE nel campo della politica estera e della moneta. È un approcci infatti che non può non fondarsi sulla irriducibile realtà nazionale rappresentata dagli Stati Uniti e sulle molte realtà nazionali di cui pur sempre si compone l’Europa odierna.
Esprimerebbe, questa direzione di marcia, una contraddizione tra un momento sovranazionale e una base nazionale? Può darsi: in fondo era la stessa contraddizione che segnava il metodo funzionalista, su cui lentamente fu costruita l’Europa. In effetti, avviene spesso in politica che i processi utili passino attraverso contraddizioni e che la coerenza non dipenda dalla logica ma dalla politica. Si è di fronte comunque a discorsi da approfondire e certo complicati. È possibile, inoltre, che ad ostacolarli stia anche la concezione di fondo che a Ventotene alimentò il federalismo originario di Rossi e Spinelli e che poi è largamente passata nei discorsi del radicalismo europeista: cioè la ricusazione dello Stato nazionale, come espressione di tendenze funeste ed inesorabile fattore di guerra e di distruzioni. Una sorta di “responsabile unico”, per così dire, da superare ad ogni costo per porre fine alle guerre civili continentali.
Era una concezione che aveva dietro di sé l’esperienza di due guerre tremende, vissuta nella solitudine delle prigioni o del confino, appena rischiarata dal baluginio dei richiami ad Einaudi e a Robbins. Ed è naturale che non potesse essere integrata da quella visione delle nuove questioni dell’economia e dell’equilibrio internazionale che già avanti la guerra si erano poste, nutrendo per esempio l’europeismo di Monnet, o di La Malfa, o quello successivo di De Gasperi. In altri termini, era giustissima l’intuizione dell’importanza innovatrice di una federazione europea. Fu un soffio di novità e di freschezza culturale portato da pochi audaci nel dibattito dell’epoca. Ma le ragioni vere di una federazione europea, al di là del ripudio di altre guerre, erano nei nuovi equilibri internazionale e nelle esigenze di ordine economico che rendevano impossibili i mercati nazionali. E sono state infatti queste ragioni che hanno realmente permesso di realizzare nel vecchio continente la sua stagione di pace.
È bene non dimenticare, d’altra parte, che gli Stati nazionali non sono il peggio del peggio ma hanno rappresentato la forma in cui si sono affermati i valori della civiltà europea. E ancora oggi non costituiscono realtà obsolete e nocive, bensì realtà che stanno in piedi molto utilmente, seppure abbiano perduto nel mondo globale il controllo di vari grandi problemi. D’altra parte, mentre gli Stati nazionali sono rimasti strumenti essenziali per l’organizzazione della vita e dell’opera di comunità definite, è avvenuto che il loro numero sia cresciuto nel mondo con continuità; e che anzi grandi aree statal-nazionali abbiano fortemente accentuato il loro peso internazionale. Allora, probabilmente, è da tutto questo nuovo turbinio di realtà e di problemi che bisogna oggi riprendere il filo della politica europea. E l’obbiettivo primo e prioritario, forse storicamente maturo, non può che essere quello di perseguire stadi successivi e diversi di una sempre maggiore compattezza fra paesi culturalmente affini, come appunto sono, pur con grandi differenze, i paesi della riva americana e della riva europea dell’Atlantico.




NOTE
1 P.S. Graglia, Altiero Spinelli, Bologna, Il Mulino, 2008, pag. 635.^
2 D. Preda, Alcide De Gasperi federalista europeo, Bologna, Il Mulino, 2004.^
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