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Il sindacato italiano: tra movimento e istituzione*
di Mario Rusciano
1 - Ho conosciuto l’opera di Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, prima di conoscere Craveri. Quando, dopo qualche anno, l’ho conosciuto, e l’ho visto impegnato (sempre da studioso) anche nell’attualità sindacale e politica, ho iniziato con lui un colloquio, mai interrotto e tuttora in corso, grazie al comune interesse scientifico per il sindacato, che io considero tra i fattori di equilibrio del sistema democratico. Ho conosciuto, di Piero, la curiosità, l’onestà e la franchezza intellettuale ed ho apprezzato ancora di più il valore della sua opera, diversa da altre opere di storia del sindacalismo. Del resto, non sono il primo a dire che il volume di Craveri, pubblicato dal Mulino nel 1977, ha notevolmente arricchito la storiografia sindacale: per la verità all’epoca coltivata, in Italia, più dai giuristi, che dagli storici.
Ed infatti, coeva all’opera di Craveri, è l’opera di due importanti giuristi del lavoro, Umberto Romagnoli e Tiziano Treu [I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-1976), Il Mulino, 1977]. L’anno prima, un altro celebre giuslavorista bolognese, Federico Mancini, raccoglie alcuni suoi saggi, comparsi originariamente in sedi ed occasioni diverse, in un volume, presentato come un libro di storia del sindacato (Costituzione e movimento operaio, Il Mulino, 1976). Senza dire che i numerosi saggi di Gino Giugni - prima e dopo il 1960, anno di pubblicazione di quel vero e proprio pilastro delle ricerche di Diritto sindacale, che è l’Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva - sono tutti consapevolmente condotti con un preciso taglio storico-giuridico.
Si può ricordare che, proprio a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, c’è il rifiorire, negli studi di diritto del lavoro, del metodo storico, che si affianca a quello dei legisti e degli esegeti. Un metodo, quest’ultimo, che può anche servire a vincere qualche causa in Tribunale, ma, da solo, non serve certo a quella comprensione della realtà sociale e culturale in cui si vive, che è una precondizione per chi davvero vuol essere giurista.

2. - Ebbene, rileggendo le pagine di questa storiografia - a cominciare proprio dalle pagine di Piero Craveri - la prima impressione che si avverte, studiando il movimento sindacale, è quella di trovarsi di fronte ad un fenomeno, percorso sempre da vicende complesse e da alterne fortune.
Tutte le narrazioni storiografiche richiamate considerano, logicamente, il trentennio che si snoda dalla fragorosa caduta dell’ordinamento corporativo, con la transizione all’ordinamento repubblicano, fino alla seconda metà degli anni ’70. In pratica, considerano gli anni del forte sviluppo economico e, parallelamente, della più grande espansione del potere sindacale, che il nostro paese abbia conosciuto.
Ma oggi, provando a guardare al di là di questo periodo, vale a dire a rivolgere lo sguardo, oltre che alla storia, alla cronaca degli ultimi tempi, quella prima impressione viene confermata e rafforzata. Insomma, da una attenta osservazione empirica, emerge una storia fatta di successi e momenti di fervore, seguiti da sconfitte, aspre divisioni, stanchezze e disattenzioni, degenerazioni.
Già il decennio ’60 ci mostra questo andamento altalenante: dopo l’avvento del centrosinistra, certamente si rafforza l’organizzazione e migliora l’azione sindacale: grazie anche all’approvazione della legge sui licenziamenti individuali e all’idea di coinvolgere il sindacato nella programmazione economica. Ma ecco che, con il ’68, monta la protesta, nelle fabbriche, della base operaia contro l’eccesso di istituzionalizzazione delle grandi Confederazioni.
In seguito, lasciatasi alle spalle la stagione del centrosinistra - che, attorno ai primi anni ‘70, specie dopo l’approvazione dello statuto dei diritti dei lavoratori, vede la riemersione «di un forte sindacato, in una società che ha allargato la sua base industriale e rafforzato le sue istituzioni democratiche» (Craveri, Introduzione, p. 5), - “l’alta congiuntura” del movimento sindacale italiano si dirige, attraverso il disincanto degli anni ’80 e l’enorme ristrutturazione industriale degli anni ’90, verso una fase calante della sua crescita.
Tutto ciò, dopo che la necessità di soddisfare i criteri di convergenza dell’unificazione monetaria ha fornito ancora una volta, alla rappresentanza degli interessi organizzati del lavoro dipendente, l’occasione di dimostrare la sua indispensabilità. Come, peraltro, avvenuto già altre volte: ad esempio, con la moderazione salariale e con la lotta al terrorismo, negli anni più bui della Repubblica.
Il sindacato si avvia verso la dispersione di quel consenso e di quella credibilità, che, in passato, avevano fatto, di esso, «l’agente primario della conflittualità sociale» (Craveri), l’attore capace di tradurre «le parole d’ordine perentorie, schizzate dal calderone ribollente della base, in progetti capaci di mettere in subbuglio tutti i sistemi – il politico, l’economico, il socio-culturale – o, per lo meno, di impedirne la stabilizzazione» (Mancini).

3. - Il clima, nel complesso non favorevole al sindacato, caratterizza, sempre con alti e bassi, pure l’ultimo decennio. Nel 2005, viene pubblicato da Pietro Ichino, un pamphlet dal titolo A che cosa serve il sindacato?1 con l’intento dichiarato di allargare il dibattito giuslavoristico, e farlo uscire «fuori dai confini dell’accademia». In realtà, con l’intento di alimentare più il dibattito politico, che quello tecnico-giuridico, perché il pensiero dell’autore cavalca un senso comune - che, negli ultimi tempi, pare godere di un particolare appeal - basato sull’idea che «il sindacato serve… ad ostacolare lo sviluppo produttivo»2.
Si arriva così ai giorni nostri, con la pubblicazione di un altro libro, destinato anch’esso a far discutere, che dell’organizzazione sindacale non offre certamente una rappresentazione benevola: proteso com’è a dimostrare, attraverso un’inchiesta giornalistica, che il sindacato è “l’altra casta”, la quale si affianca alla “casta” del ceto politico, preso di mira da un altro libro di straordinario successo3. Con eloquente accostamento, si afferma che il sindacato, tra «privilegi, misfatti e fatturati da multinazionale», è degenerato in carrierismo e burocrazia, rompendo così il rapporto di fiducia con i lavoratori4.
Se a tutto questo si aggiunge l’esito della recente consultazione elettorale e il duro attacco che, con puntualità cronometrica, ne è seguito, da parte del Presidente (uscente) della Confindustria, in cui i sindacati sono stati dipinti come i professionisti dei veti incrociati, capaci solo di bloccare lo sviluppo del Paese, è chiaro che il pendolo, nello scandire i ritmi dell’azione tipica della rappresentanza degli interessi del lavoro dipendente, si trova ora dalla parte delle sconfitte più che dei successi.
Dunque, è assodato che il sindacato non vive attualmente una fase favorevole: né dentro, né fuori dell’organizzazione vera e propria5. Tuttavia, se interrogarsi sulle ragioni di difficoltà, che indeboliscono rappresentanza e azione sindacale, comporta necessariamente superare gli orizzonti culturali, in cui le lotte del lavoro, e i suoi principali protagonisti, stanno al centro del processo di modernizzazione e ampliamento della base democratica del nostro paese, nemmeno si può negare che taluni fattori di degenerazione, interni all’organizzazione sindacale - ma che ne compromettono, all’esterno, l’azione rivendicativa e in senso lato politica - sono reali e non aiutano il recupero di consenso e di effettiva rappresentatività di un sindacato moderno6.
A questo punto, può essere utile anzitutto chiedersi se siamo in presenza di degenerazioni già vissute dall’organizzazione sindacale, per poi chiedersi - ove si accertasse che “non vi è nulla di nuovo sotto il sole” - con quali strumenti e risorse essa è riuscita a recuperare terreno, aggiornando le sue proposte di autogoverno sociale: sia come istituzione integrata, «sulla strada alla scoperta dello Stato e dei suoi corpi» (Mancini), sia come movimento, che non può fare a meno di riaffermare continuamente la sua fedeltà alla così detta “base” sociale, ai gruppi che rappresenta, perché è da questi che trae la sua legittimazione e la sua forza contrattuale: nell’azienda come nella società.
Qui, dunque, è indispensabile la lezione dello storico, per la sua capacità di far lume all’analisi e allo studio del presente, sì da aiutare il giurista nel suo compito di “razionalizzazione sociale” dei problemi: che, appunto nel presente, vivono le società umane, le relative stratificazioni sociali e i loro rappresentanti. Sempre che, ovviamente, non si consideri la storia, per dirla con Paolo Grossi, soltanto un «magazzino di chincaglierie erudite che possono avere, tutt’al più, una modesta funzione ornamentale».7

4. - Nella prefazione al suo affresco storico sul sindacato nel dopoguerra, Craveri scrive che “il sindacato forte degli anni ’70 si è trascinato con sé molte delle debolezze degli anni ‘50”. E’ al decennio degasperiano - suggerisce - che bisogna guardare, per farsi una ragione dei limiti, che il potere sindacale inizierà ad evidenziare alle prime avvisaglie della crisi – già con lo shock petrolifero nei primi anni del ’70, ma soprattutto nella seconda metà – quando, «via via che la rigidità del sistema istituzionale e politico e i vincoli di compatibilità di quello economico si sono fatti sentire, divenendo più esigui gli spazi di mediazione sociale» (Craveri, Introduzione, p. 6), un soggetto collettivo ancora forte, per l’alto tasso di sindacalizzazione e per una diffusa presenza nelle fabbriche, ha tuttavia rivelato, nella sua veste di istituzione, «un vuoto di strategie sindacali, dietro a cui riappare il volto di un sindacato burocratico, d’apparato, privo di un rapporto omogeneo e costante con i suoi organismi di base» (Craveri, ibidem, p. 6).
Ora, ben lungi dal voler tentare, o evocare, un parallelismo tra la questione sindacale negli anni ’70 e i problemi del sindacalismo dei nostri giorni, mi preme qui porre l’accento su un aspetto, che sembra quasi connaturale al fenomeno sindacale e che - sia pure con diversa gradazione, a seconda dei periodi storici e delle congiunture economiche - si ripresenta ciclicamente sulla scena: quella che vede i sindacati trincerarsi dietro le proprie strutture di vertice e preferire, al dialogo con la base e all’evoluzione delle proprie strategie rivendicative, le chiusure tattiche e autoreferenziali, la cura dell’apparato e percorsi che spesso inducono l’opinione pubblica a identificarli come “forze di conservazione”.
E’ vero: nessuno può negare che “accentramento” e “burocratizzazione” siano, in certa misura, il prezzo che il sindacato deve pagare per rispondere in pieno a quella dualità che, in una società industriale avanzata, lo costringe ad essere, ad un tempo, movimento e istituzione. Ma è proprio nell’atteggiarsi ad interlocutore privilegiato del potere politico che il sindacato deve trovare il punto di equilibrio, capace di preservare la sua anima movimentista (per non dire il suo spontaneismo) dal peso di quella identità innaturale, che si ritrova addosso, quando mette a rischio la sua autonomia o non esprime adeguatamente le istanze della base e dei militanti. In una parola: quando smarrisce il suo ruolo di “sismografo sociale”, che è iscritto nel suo dna.
Quale allora l’insegnamento della storia? O meglio, di una storiografia politico-sindacale, che sappia indagare - come Craveri ha saputo fare - nelle «pieghe delle politiche istituzionali, organizzative e contrattuali del sindacato» (Romagnoli, Treu)?
A mio parere, la prima ragione della attualità dell’opera Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, sta nella straordinaria caratteristica di guardare a fondo la vicenda oggetto di analisi, seguendo quella che si potrebbe definire una prospettiva di metodo, assunta dallo storico a canone di una ricerca sul sindacato, che va oltre una rappresentazione di questo come di un mero «organismo di tutela economico-professionale, punto e basta»; oppure come di una semplice «organizzazione collaterale allo schieramento dei partiti” »(Romagnoli e Treu).
L’attualità dell’opera si rinviene, quindi, nel rifiuto delle due più classiche «mentalità e culture che vi sono per non capire cos’è e che cosa ha fatto il sindacato italiano», ovvero nel rifiuto di «una storiografia puramente sindacale o, all’opposto, puramente politica» (Romagnoli e Treu): destinate entrambe a “raggiungere i limiti della falsificazione storica, sacrificando, alla ideologia o alla propaganda, la conoscenza del sindacato come soggetto autonomo, adulto e pensante, con suoi modelli di comportamento e sue tecniche di funzionamento e d’espressione, un suo spazio e un suo ruolo dentro le istituzioni della società e dello Stato”8.
Sul piano della ricostruzione, rigorosa, delle vicende istituzionali di uno scorcio temporale molto significativo - il “lungo inverno sindacale”, come lo chiama Craveri - vi è poi l’attualità della “lezione degli anni ’50”. Sono gli anni del c.d. “protezionismo liberale” e della restaurazione capitalistica: che, grazie all’offensiva congiunta dei governi dell’epoca e del padronato, ha posto le premesse per un accerchiamento istituzionale di lungo corso del potere sindacale, comportandone una debolezza strutturale anche nei periodi più favorevoli all’organizzazione delle lotte del lavoro. Ma sono anche gli anni, in cui un soggetto sindacale, alle prese con le direttive dei partiti e nella morsa di un’austerity in linea con le esigenze della ricostruzione e della ripresa economica, seppe non smarrire la capacità «di orientare e qualificare l’iniziativa dell’organizzazione sindacale principalmente verso due obiettivi: “diffondere e rafforzare la capacità di resistenza dei propri militanti e sviluppare una strategia che potesse coinvolgere un più largo schieramento per uscire dall’isolamento”» (Craveri, p. 278, che cita Santi).
In definitiva, sono proprio gli anni ’50, quelli delle grandi scissioni sindacali, che, pur con mille sfumature - tra divisioni, contraddizioni, accelerazioni e rallentamenti o, addirittura, arretramenti – costringono il sindacato a pensare se stesso ora come movimento, ora come istituzione; e ad acquisire, sia pure lentamente, la consapevolezza che l’una identità non può esistere senza l’altra.

5. - Questa doppia identità, del resto, si manifesta in nuce, nei paesi europei più avanzati, fin dall’avvento dello Stato moderno e ai primordi della rivoluzione industriale. E’ appena il caso di ricordare, infatti, che l’incontro tra sistema politico e movimento sindacale - o meglio quella indefinita nebulosa, che era il sindacato delle origini, fatto di società di mutuo soccorso, coalizioni di lotta, leghe di resistenza, concordati di tariffa ecc. - muove i suoi primi passi nel corso del XIX secolo, ma nel nostro paese abbastanza più tardi, verso gli inizi del ‘900.
Sotto la sferzante temperie di autentiche rivoluzioni - industriali, politiche e culturali - che sembrano lasciarsi definitivamente alle spalle, senza troppi rimpianti, quel profondo carattere organico della società contadina e mercantile degli antichi regimi, l’intreccio tra politica, economia e lavoro si fa man mano strettissimo e inestricabile.
E’ da questa interazione che, in un susseguirsi di alterne vicende, si sviluppa e arricchisce di contenuti sempre nuovi, condizionati fortemente dalle ideologie politiche, quel rapporto dialettico tra le rappresentanze organizzate degli interessi di lavoro e lo Stato-apparato.
Ha inizio una storia scandita: a) all’origine, dalla repressione penale dell’associazionismo e della lotta sindacale; b) successivamente, dalla diffidente tolleranza liberale di questi fenomeni; c) ed ancora, dalla totale integrazione, nella compagine dello Stato fascista, delle rappresentanze corporative delle categorie professionali, divenute rappresentanze legali; d) infine, dall’affermarsi progressivo (e talora disordinato) del cosiddetto Stato sociale, con la Costituzione repubblicana del 1948.
Quello che manca assolutamente, come si può constatare, è la indifferenza del sistema politico-istituzionale nei confronti dell’organizzazione sindacale: al punto da potersi affermare che, nella nostra esperienza giuridica, senza soluzione di continuità, e in barba a tutte le teorie sul pluralismo istituzionale e sulla presunta originarietà dell’ordinamento espresso dall’autonomia collettiva, non cessa di essere affermata la necessità di regolamentare, da parte dello Stato, con strumenti normativi o politici, il conflitto industriale tra capitale e lavoro, «così da anteporre l’ordinamento sindacale ad un possibile ordinamento intersindacale» (Craveri, p. 11).
Per questo ordine di considerazioni, si può concordare con Craveri, quando afferma che «la discussione del problema costituente inizia proprio nei primi mesi del 1944 intorno alla formulazione del Patto di Roma sull’esperienza della Cgil unitaria”» e che «è sul tema dell’ordinamento sindacale, più ancora che attorno al problema istituzionale, monarchia o repubblica, che si scontrano per la prima volta a fondo le ideologie costituenti» (Craveri, p. 35).
A tutto questo il sindacato, come protagonista di quel complesso spaccato delle relazioni umane e di lavoro - che, intrecciandosi con dinamiche economiche, politiche e, più latamente, istituzionali, va sotto il nome di “sistema di relazioni industriali” - reagisce seguendo logiche e percorsi, che non sempre sono lineari e privi di contraddizioni.
E’ questo il sintomo evidente della doppia vocazione, del dilemma, che vede l’organizzazione sindacale dibattersi tra il richiamo delle sue origini di magma incandescente, fatto di lotta e movimento, e l’esperienza della sua maturità istituzionale, di corpo che interagisce attivamente con le strutture dello Stato, con esse sovente coordinandosi.

6. - E così, quando il sindacato reagisce, nei confronti degli schemi e delle formule, racchiuse nell’art. 39 della Costituzione, come reagirebbe un organismo ad un corpo estraneo, perché avulso dalla propria natura e dalla propria realtà, è la mai sopita anima movimentista ad avere la meglio, in quel difficile equilibrio tra una posizione di sfida verso le varie articolazioni dello Stato et dona ferentes e la necessità di preservare canali privilegiati di dialogo con il soggetto pubblico: nella consapevolezza che, da questo, e dalla sua volontà politica, dipendono le riforme di struttura, di cui ha bisogno tanto l’organizzazione civile quanto l’organizzazione sociale, compresa quella sindacale.
Ma la realtà del movimento e delle sue ragioni si afferma con prepotenza anche nella «frattura tra pensiero sociale cattolico e prassi rivendicativa del sindacalismo cristiano» (Craveri, p. 15), vale a dire quella, tra le esperienze sindacali, più sensibile alle esigenze di regolamentazione istituzionale del conflitto e più in linea con una «concezione integrazionistica» delle relazioni tra capitale e lavoro, in cui a prevalere è «il momento del consenso o dell’armonia rispetto alla discordia e alla contraddizione» (Mancini).
Già don Luigi Sturzo, ricorda Craveri, non mancherà di muovere dei rilievi alle soluzioni del corporativismo leonino e alla formula dei «sindacati liberi nella professione organizzata» (Craveri, p. 14-15). Ma è l’idea di affermare «un qualsivoglia vincolo istituzionale ai modi e alle forme di espressione del conflitto industriale» (Craveri, p. 15) ad essere percepita come improponibile anche dai sindacati bianchi. Che, nel vivo dell’esperienza, avvertono come è proprio attraverso il ricorso allo sciopero che si può fornire, alla controparte padronale e ai gruppi concorrenti, la prova e la misura della resistenza e della capacità rappresentativa dell’organizzazione. In altre parole: la prova e la misura della acquisita legittimazione a rivendicare un posto al tavolo delle trattative negoziali con la controparte o nel cosiddetto mercato politico.
Se quanto detto mette in luce un’attenzione, verso lo spontaneismo dei processi aggregativi, anche da parte del più istituzionale dei soggetti collettivi, sicuramente più difficile da decifrare è l’atteggiamento sindacale all’indomani della Liberazione: quando, con l’atto fondativo della Cgil unitaria, prima, e con il dibattito costituente, poi, le diverse anime del rinascente sindacalismo sembreranno convergere, pur con una serie di “distinguo”, verso una soluzione pubblica al problema dell’ordinamento sindacale: ora accarezzando l’idea di un sindacato “unico e obbligatorio”, ora sostenendo la formula del sindacato maggioritario, investito di pubbliche funzioni e «immediatamente rappresentativo delle istanze classiste» (Craveri, p. 11).
La preoccupazione del movimento, di accreditarsi, nel dopoguerra, come credibile interlocutore politico, «spina dorsale e pilastro fondamentale della nazione», ricorderà Di Vittorio, come «una delle principali leve della ricostruzione economica del paese» (Craveri, p. 65), sospingerà il sindacato verso processi di accentramento della propria struttura organizzativa e delle strategie rivendicative e contrattuali.
La chiusura verso l’esigenza a sviluppare un’azione sindacale differenziata, che prendesse piede direttamente nelle fabbriche e potesse offrire uno sbocco alle tensioni antagonistiche della base, si tradurrà nel sostanziale superamento delle prerogative contrattuali, di cui, nel settembre del 1943, l’Accordo Buozzi-Mazzini aveva investito le Commissioni interne: “smantellate”, pezzo per pezzo, ad opera degli accordi collettivi sui licenziamenti del 1947 e del 1950.
Ma la torsione sindacale verso strumenti e livelli di lotta, determinati dall’alto, in linea con la collaborazione interclassista, perseguita dalle forze politiche, in sede di governo centrale, spegnerà presto anche le speranze riposte nella breve esperienza dei Consigli di gestione, forma di partecipazione operaia alla gestione delle aziende, che avrebbe dovuto rappresentare la via italiana alla democrazia industriale e, al contempo, preludere a più ampi meccanismi di controllo sociale sull’iniziativa economica privata.
E così assistiamo, negli anni del centrismo degasperiano, al riproporsi di una serie di cesure tra il “movimento conflittuale” delle masse operaie e l’accorta mediazione politica degli organismi di vertice dell’organizzazione sindacale: al punto che, paradossalmente, queste lacerazioni arriveranno a riflettersi anche all’interno delle strutture di base del movimento operaio, dalle Commissioni interne ai Consigli di gestione, sino alle cellule e ai nuclei aziendali. Queste, da sedi privilegiate di emersione di iniziative di lotta “più avanzate”, rispetto alle strategie dell’apparato, finiranno con l’identificarsi, per la forza dei processi centripeti in atto, nella “presenza organizzata dei partiti” e degli organismi sindacali di vertice nelle fabbriche: luogo, quindi, in cui le tensioni classiste che vi si esprimevano «dovevano essere mediate e condotte di volta in volta nell’alveo di livelli sempre più arretrati di lotta e di controllo operaio» (Craveri, p. 157).
Tuttavia, se la scelta sindacale di fondo di quegli anni ruotò attorno ad un rigido accentramento organizzativo e contrattuale, avvalorando la tesi di chi ha sostenuto che «si sarebbe privilegiato il livello in definitiva “sovrastrutturale” del riconoscimento dell’istituzione, rispetto all’affermazione dei diritti elementari di azione sindacale che ne costituivano la base»9, la complessità del quadro storico suggerisce di vedere oltre la presunta linearità delle opzioni maturate, per riconoscere, anche in una “linea difensiva” - quale quella dispiegata dal sindacato nel dopoguerra - la capacità dell’organizzazione di mantenere vivo il contatto con le masse e di saper proporre, pur con tutti i limiti operativi, che caratterizzeranno il Piano del lavoro, lanciato dal sindacato social-comunista nell’ottobre del 1949, «un’alternativa possibile, anche interna al sistema, che spesso riusciva a coinvolgere altre forze sociali e politiche, rompendo l’isolamento del sindacato e dei partiti della sinistra» (Craveri, p. 279).

7. - In sintesi, allora, qual è la lezione che un periodo storico, non proprio prospero per il sindacato e le sue ragioni, offre, oggi come oggi, all’organizzazione rappresentativa delle categorie professionali?
Il quesito non è banale, perché codesta organizzazione sta sempre più al centro di un «modello di regolazione alternativo» – il c. d. modello “neo istituzionale” – «fondato sull’idea che il consenso sociale sia il criterio di legittimazione per eccellenza del diritto «legale» e identificato, da un’autorevole dottrina10, col termine “diritto riflessivo”»11.
La sfida, e la capacità di saper fare buon uso degli insegnamenti del passato, consisterà principalmente nel recupero, da parte dell’organizzazione, della consapevolezza del valore di quella dualità di cui ho detto più volte, che vede il sindacato essere, ad un tempo, movimento e istituzione.
Essere “istituzione sociale”, investita dallo Stato di sempre più ampie funzioni normative - come ad esempio nell’ambito della legislazione sul mercato del lavoro o della regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali - è una “missione” alla quale non può sottrarsi un sindacato moderno e responsabile.
Per altro verso, rinunciare però ad un costante confronto con la propria base sociale, che si alimenti regolarmente di autentici meccanismi di investitura dal basso e si rinnovi in continue verifiche “democratiche” dei programmi e delle strategie, significa, per il soggetto sindacale, non solo smarrire una parte importante della propria identità, ma anche assistere ad una inevitabile perdita di rappresentatività e, quindi, di credibilità e autorevolezza agli occhi dello stesso potere pubblico.
Se il soggetto pubblico - «oberato di domande confliggenti, penetrato dagli interessi organizzati, dotato di canali di informazione inadeguati alla differenziazione e alla complessità» sociale12 - non può fare a meno di “usare” e coinvolgere, nei processi normativi, l’autonomia dei gruppi e la capacità di autoregolazione di «sistemi sociali autoreferenziali»13, attraverso nuove forme di self restraint, può tuttavia sempre rimettere in discussione il carattere privilegiato della partnership con un sindacato non più in grado di prestare ascolto alle domande, che rimbalzano dalla periferia, nonché di offrire una strategia al passo con i tempi, allargando così la base della propria rappresentanza.
Con tutta probabilità, è su quest’ultimo aspetto - quello del tema della modernità e dei nuovi interessi in cerca di rappresentanza - che si giocherà la sfida più ardua per il sindacato nel prossimo futuro.
Staremo a vedere se, e in che misura, l’annuncio di questi ultimi giorni - da parte delle tre grandi Confederazioni CGIL-CISL-UIL - di aver inventato unitariamente un nuovo modello contrattuale, da sostituire a quello del 1993, troverà seri sbocchi operativi; e, soprattutto, darà risposte efficaci alle tre fondamentali istanze, che provengono dal mondo del lavoro e che si possono riassumere in tre parole-chiave: unità; rappresentatività; democrazia sindacale.
In un bell’editoriale, pubblicato il 29 marzo scorso sul Corriere della Sera, Dario Di Vico, parlando della «pigrizia sindacale», ovvero di un sindacato incapace di varare «un’offerta di nuovo conio», dotata di «un’autonoma piattaforma rivendicativa e di una originale visione del moderno», concludeva esortando i sindacati a rintracciare le novità, pena un nuovo aggiornamento della «mappa socio-culturale del Paese: alla lunga gli eterni outsider potrebbero non avere bisogno di un sindacato»14.
    E’ una conclusione, ovviamente, parecchio paradossale, ma che deve far riflettere: anzitutto i capi e i quadri sindacali. E che certamente stimola i cosiddetti “intellettuali”, addetti ai lavori, a rimettersi a studiare ed a discutere.




NOTE
* Pubblichiamo il testo dell’intervento di Mario Rusciano alla Giornata di studi in onore di Piero Craveri, svoltosi a Napoli il 12 maggio 2008, presso Università degli Studi Suor Orsola Benincasa.^
1 P. Ichino, A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino, Milano, Mondadori,2005.^
2 M. Rusciano, A che cosa serve il sindacato? A proposito di un recente libro di Pietro Ichino, in «Diritto delle relazioni industrali», 2006, n.3, p. 730.^
3 G.A. Stella, S. Rizzo, La casta, Milano, Rizzoli, 2007.^
4 S. Livadiotti S., L’altra casta. L’inchiesta sul sindacato, Milano, Bombiani, 2008.^
5 Cfr. M. Rusciano, Sistema politico e ruolo dei sindacati, in «Democrazia e diritto», 1/2006.^
6 Ivi.^
7 P. Grossi, Crisi della legge e processi di globalizzazione, in «Quaderni del Dottorato di ricerca in Diritto ed Economia», 1, 2004, p. 2.^
8 U. Romagnoli, T. Treu, Prefazione a I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-1976), Bologna, Il Mulino, 1977,p. 7.^
9 T. Treu, La politica sindacale dei governi centristi, Milano, 1974, p. 163.^
10 Cfr. G. Teubner, Il trilemma regolativo: a proposito della polemica sui modelli giuridici post strumentali, in «Politica del diritto», 1987, p. 85; J. Habermas, Diritto come «medium» e come istituzione, in Ivi, p. 61; G. Giugni, Giuridificazione e de regolazione nel diritto del lavoro italiano, «Giornale del diritto del lavoro e di relazionio industriali», 1986, 3; S. Simitis, La giuridificazione dei rapporti di lavoro, in Ivi, 1986, p. 215; L. Mengoni, La questione del diritto giusto nella società post-liberale, in «Relazioni Industriali», 1988, 13, p. 25, ed in seguito M. D’Antona, L’anomalia post positivista del diritto del lavoro e la questione del metodo, in « Rivista Critica del Diritto Privato», 1990, I, p. 207, e A. Lo Faro, Teorie autopoietiche e diritto sindacale, in, 1993, p «Lavoro e Diritto», p.129.^
11 M. Rusciano, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Napoli, 2003, p. 192.^
12 M. D’Antona , La legge sullo sciopero nei servizi essenziali e le tendenze del diritto sindacale, in «Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale», 1989, I, p. 148.^
13 G. Tebner, Substantive and Reflexive Elements in Modern Law, in «Law and Society», 1987, p. 239.^
14 D. Di Vico, La pigrizia sindacale, in Corriere della Sera, 29 aprile 2008.^
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