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La fine del ciclo europeo e la crisi finanziaria mondiale: un Atlantico più stretto*
di Adolfo Battaglia
La crisi finanziaria che ha investito l’economia mondiale non è particolarmente “americana”, come da alcune parti si è sostenuto, né tanto meno “europea”. E’ per giudizio largamente comune una crisi “globale”, che deriva da molteplici cause, viene da lontano e avrà conseguenze durature. Il suo segno politico, la cifra della sua possibile soluzione, è la multilateralità. E a fissarla sono state per prime le principali autorità monetarie del mondo sviluppato, che hanno abbandonato la via delle mosse separate e realizzato un forte coordinamento tra loro come condizione preliminare di interventi utili: un coordinamento così stretto come forse non si vedeva dai tempi in cui Keynes e White si scontravano e infine convenivano a Bretton Woods. Lentamente, poi, hanno inteso l’opportunità del coordinamento anche le autorità politiche, con i numerosi vertici tenuti in ottobre. Un punto essenziale, alla fine, è stato marcato: per navigare dentro la crisi, e per uscirne, gli indirizzi da perseguire non possono non essere multilaterali, ovvero basati su intese fra nazioni o fra aree. Il resto è silenzio.
E’ stata larga inoltre la concordanza su un secondo punto. Per risollevare sistema finanziario e sistema economico mondiale, nella loro necessaria connessione, occorrono disegni di raggio più lungo di quelli finora concepiti. Si è già andati dal suggerimento di una nuova Maastricht basata su un indirizzo non-liberista, alla proposta Brown di ridefinizione di un ordine finanziario mondiale, fino alla estrema suggestione di un’unica Banca centrale in grado di governare una moneta globale (una idea che ha dietro di sé tentativi lontani ma anche autorevoli studiosi contemporanei, da ultimo l’ex Governatore della Fed, Volcker). Altre proposte inevitabilmente seguiranno. E naturalmente i disegni utili non possono riguardare la rifondazione del capitalismo, che in due secoli non è mai crollato; né tantomeno possono essere quelli di segno protezionistico cui la politica italiana, in particolare, è sembrata più volte incline. Il punto è che siamo di a fronte a processi di globalizzazione inarrestabili. E ciò che è entrato in crisi sono i modi in cui l’Occidente ha affrontato quel trasferimento di ricchezza intervenuto a favore dei paesi poveri che, implicitamente, corrisponde ad un impoverimento del mondo sviluppato. E’ questo il fenomeno storico che la globalizzazione ha accentuato e che, appunto, è inarrestabile.
E’ anzitutto necessario dunque, accantonando gli artifici finanziari crollati, un disegno di architettura generale, nel quale risolvere il problema semplice e insieme molto difficoltoso che si pone: realizzare in un arco temporale non breve un insieme di interventi economici e finanziari ispirati da un indirizzo unitario, e mirati ai due fondamentali obbiettivi di ripresa della fiducia e di sviluppo dell’economia di mercato. Insieme ad essi, tuttavia, sarà bene considerare anche che si sta levando una nuova onda profonda. E’ quella dei movimenti morali mirati ad una maggiore equità sociale che è prevedibile raggiungerà prima o poi una dimensione ampia. Non si fonda solo, infatti, sui leit-motiv tradizionali, ormai in Occidente un poco logorati: trova invece nuova forza e pregnanza nei due fenomeni attualissimi su cui si sta muovendo politicamente l’immenso agglomerato delle classi medie, accanto a settori del lavoro dipendente: tutti in contestazione delle incredibili sperequazioni e dei gravi danni d’ordine economico derivati dai meccanismi finanziari impazziti.
Ovviamente, un’opera così complessa è di natura profondamente politica. Restaurare nel mondo la fiducia perduta non può non comportare eventi politici di tale entità da poter essere rilevati dall’opinione pubblica internazionale. E d’altra parte non sembra esistere qualcosa di diverso dalla grande politica che sia in grado di sostenere una incisiva tastiera di interventi tecnici Su entrambe le sponde dell’Atlantico, però, i Governi nazionali non sembrano ancora sentir bene da questo orecchio. Eppure, è esattamene dell’importanza primaria della politica che parla il precedente dell’unica crisi superiore per gravità all’attuale. Una nuova riflessione economica fu certo fondamentale per la fuoriuscita dalla “grande crisi” del 1929-33. Ma ciò che portò saggi e scritti scientifici a determinare una vera e propria trasformazione della realtà economica e sociale, talmente vasta da modificare la vicenda del mondo, fu il fatto politico rappresentato nel ‘32 dall’elezione del nuovo presidente americano. Fu cioè la vittoria politica di Roosevelt e dei suoi uomini che determinò il passaggio dai disastri dell’Amministrazione Hoover, sorretta da visioni arretrate, ai successi della rivoluzione new-dealista, nutrita di cultura diversa. Mentre in Europa, per converso, fu un evento di segno opposto, ma sotto il profilo politico altrettanto storicamente rilevante, cioè l’affermazione del partito nazista di Hitler, che fu alla base tanto della veloce ripresa economica della Germania quanto del tragico capitolo della storia europea allora apertosi.
Al di là dei paragoni e delle assonanze, resta il fatto che non sono utili risposte rapide quando si domanda che cosa - sotto il profilo politico - possa aiutare il superamento della crisi internazionale di fiducia. Sembra evidente che essa non possa essere arrestata da decisioni e vicende di un unico Stato, per quanto importante sia. Sembra chiaro che fatti impegnativi di più aree sono necessari non solo sul piano finanziario e monetario, ma appunto su quello politico. E sembrano indispensabili, altresì, fatti omogenei alla dimensione del mondo globale: capaci di investirne i protagonisti politici e suscettibili di influenzare i mercati senza dimenticare le ragioni dei popoli.
    In tale senso si scorge facilmente, per arduo che sia il determinarlo, l’immenso respiro che avrebbe non tanto un accordo tecnico tra Bce, Banca d’Inghilterra e Fed, oggi già in corso sotto vari profili, ma una clamorosa decisione politica dei due continenti intesa a marciare politicamente insieme sulle questioni più importanti. Si capisce che arrivarvi non è esattamente facile. Ma è anche difficile, quando si va alla ricerca della condizione politica di superamento della crisi, non tener conto che l’intesa tra Europa e Usa compone una forza praticamente irraggiungibile e offre una garanzia mondiale irrefutabile. Europa e Usa danno vita insieme a quasi il 50% dell’economia mondiale. E al di là di compagini militari primarie, esprimono ad egual titolo i valori stessi della modernità. L’equilibrio internazionale, seppur multipolare, non potrebbe prescindere dal loro baricentro. Al fondo, era questa l’idea lungimirante che baluginava dietro la proposta del mercato transatlantico fatta dal Cancelliere tedesco in gennaio - come dietro il passo di fuoriuscita dal gollismo compiuto da Sarkozy poco dopo. Oggi, i due eventi maggiori cui si è di fronte, la gravità della crisi economico-finanziaria e il cambiamento della politica americana dopo l’elezione presidenziale, tornano a parlare egualmente della necessità e anzi dell’urgenza di preparare tra Europa e America una convergenza di tipo nuovo.
    Un’intesa politica tra il colosso economico europeo e il colosso economico e militare americano non è ovviamente istituzionalizzabile sul modello UE. Ma è difficile non vedere che, in qualsiasi inventiva forma possa esprimersi, genererebbe fiducia e slancio nell’intero panorama mondiale. Essa sostanzierebbe la più convincente pre-condizione politica per il controllo della nostra “grande crisi”. E fonderebbe la possibilità di mettere finalmente in campo indirizzi comuni dell’Occidente sui più cruciali problemi di portata globale (l’energia, il commercio internazionale, lo sviluppo delle aree povere, il cambiamento climatico). Implicherebbe, altresì, la costituzione di uno schieramento di spirito meno ideologico e più pragmatico nella lotta al terrorismo. D’altra parte, è l’intesa politico-strategica, e morale, tra i due pilastri atlantici che consentirà di garantire quel senso di equilibrio e quel rispetto di tutti i paesi, che è tornato ad essere indispensabile nella vita internazionale. Ci si può perfino domandare quale risolutiva chiave politica, diversa dalla loro intesa, europei ed americani potrebbero utilmente mettere in campo.
Se non la si coglie, c’è anche, per l’Europa, un forte rischio di fare passi indietro nel tragitto finora compiuto. Sotto l’emergenza, sono state già di fatto cassate parti rilevanti della normativa economica europea. Già Parlamento europeo e Commissione sono stati presi in velocità ed emarginati dalla gestione della crisi. E’ tornata più robusta la tendenza a basare l’Unione sul metodo intergovernativo. Da esso rischia ora di essere stravolta anche la più importante innovazione istituzionale contenuta nel Trattato di Lisbona, cioè la presidenza pluriennale dell’Unione. La crisi presente ne ha dimostrato eloquentemente la vitale importanza politica. Sarebbe utile dunque non confinarla nel carisma, ed assicurarne l’implementazione anticipata con procedure eccezionali, dotandola dei poteri e delle strutture prevista dal Trattato.
    E’ probabile che anche l’allargamento e il progresso dell’Unione Economica e Monetaria, di cui non poco si gioverebbero sia il vecchio continente che il nuovo, sarebbe meglio realizzabile in un quadro d’intesa euro-americana. Sembra essenziale per l’Europa, in effetti, evitare che attraverso l’UEM si creino due raggruppamenti europei a diversa velocità, e che quello a velocità minore divenga, come inevitabilmente diverrebbe, l’oggetto di una politica di risucchiamento da parte della Russia putiniana. Si annullerebbe, così facendo, lo stesso sforzo d’autonomia degli Stati-cuscinetto ai suoi confini; e si tornerebbe a destabilizzare tutta l’area europea assestatasi con l’allargamento ad est dell’UE. D’altra parte, realisticamente, i paesi ex-comunisti dell’Unione possono divenire disponibili a marciare nella direzione dell’integrazione monetaria non solo se sono sospinti dalla Germania ma anche, e soprattutto, se sono incoraggiati dalla potenza che continua a garantirne la sicurezza. Serve a quei paesi, per compiere nuove scelte strategiche in uno spirito non nazionalista, un quadro convincente: un quadro di riferimento stabile e sicuro.
    La crisi dei mercati finanziari ha anche l’importante effetto politico di accelerare la formazione del sistema multipolare già da tempo delineatosi. Contribuirà, anzi, a stabilire la sua struttura e a fissare in essa il peso di ciascun paese. Ribadisce dunque all’Europa la necessità di assumere decisioni di non-ordinaria amministrazione.
    Negli ultimi quindici anni tre vicende di segno non positivo hanno arrestato il cammino del continente. Al Trattato fondativo della moneta unica non è potuta seguire la creazione di un’autorità politica sovranazionale; l’indispensabile allargamento ad est ha finito col rafforzare entro l’UE il peso del momento nazionale, o nazionalistico; è caduta infine la Costituzione europea, cui è seguito un ulteriore compromesso istituzionale ancora sotto esame. Il ciclone in corso vede adesso l’Europa più debole rispetto alla pur indebolita presenza di Cina India Russia e Brasile. Una sorta di preliminare impegno morale dovrebbe a questo punto, forse, guidare i Governi europei: non piegarsi ad indecisioni o ripieghi che parlerebbero con finale evidenza del declino politico del vecchio continente. E scegliere con chiarezza fra le tre opzioni che ad essa si presentano in concreto.
La prima è costituita dalla tentazione di alleanze à la carte, mutevoli e contingenti. E’ la strada indicata tanto da visioni politiche di corto raggio quanto da interessi economici e commerciali forti. E mentre in nessun modo si può ritenerla utile a rilanciare l’Europa, è anche una strada che, rinviando ogni decisione impegnativa, diventa per ciò solo pericolosamente facile.
    Gli Stati europei potrebbero optare poi, come alcuni diplomatici giungono addirittura a suggerire, per il rovesciamento delle loro alleanze storiche e un’intesa pan-europea con la Russia di Putin. Di europeo tale strategia avrebbe solo il nome, mancando essa di ogni tratto coerente alla tradizione e agli interessi del continente. Trattasi di una opzione allo stesso tempo sbagliata e difficoltosa; sebbene naturalmente il calore del gas in inverni freddi possa per molti essere attraente.
    L’Europa può scegliere infine l’opzione più giusta e difficile, quella di continuare a percorrere il suo tragitto pluridecennale. Idealmente e strategicamente esso ha riassunto la volontà di difendere la civiltà politica dell’Occidente e di farla prevalere sui totalitarismi del Novecento: ha fissato cioè la risposta storicamente valida ai problemi di un’epoca passata. Continuare oggi quel tragitto implica la presa d’atto delle nuove realtà formatesi nell’epoca attuale. E la prima di queste realtà è che la vicenda della storia ha reso obsoleta gran parte delle ragioni politiche ed economiche da cui era stato alimentato, nel quadro dell’alleanza occidentale, il ciclo dell’unità sovranazionale europea. Nel nuovo secolo questo ciclo si è concluso e si profila invece un ciclo più ampio, quello dell’unità dell’Occidente come cornice stessa in cui affrontare i problemi europei. Un nuovo ciclo, dunque, non dissimile dal precedente nella sostanza degli obbiettivi fondamentali ma diverso nelle priorità e negli strumenti.
Si osserva da alcuni che il sistema multipolare esigerebbe per sua natura un dialogo più ampio di quello tra Europa ed America. Esso è certamente necessario. Un foro mondiale autorevole, di esame dei problemi e di chiarimento delle reciproche posizioni in uno spirito di collaborazione, è sicuramente utilissimo, e lo sarà ancora più se integrato da rinnovate strutture del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. E’ difficile, tuttavia, che il dialogo all’interno di questa “piccola Onu” possa produrre grandi risultati in ordine ai problemi concreti sul tappeto. Un’assemblea composta di soggetti che hanno visioni diverse e interessi parziali divergenti raramente riesce ad esprimere una capacità di governo. E’ più probabile che essa sarebbe d’ostacolo alle decisioni rapide e impegnative che spesso si impongono, e tanto più in situazioni di crisi. Torna del resto a dimostrare questo assunto l’esperienza recentissima dell’Euro-gruppo: che nel momento della crisi finanziaria più acuta è rimasto a lungo indeciso a tutto, per aderire poi alla scelta di un paese che dell’Eurogruppo non faceva parte. Insomma, nel sistema multipolare un dialogo largo è più utile che mai. Ma esso ha una natura diversa da quella operativa dell’intesa tra i due colossi atlantici. In ogni caso questa non esclude quello, ma lo integra e contribuisce a dirigerlo.    .
Due altre obiezioni, poi, si muovono alla suggestione di un disegno euro-americano. La prima si fonda sulla difficoltà di accettarlo da parte degli Stati Uniti. Che esista una difficoltà è certo: ma è anche certo che gli eventi degli ultimi anni ne hanno assai ridotto la pregnanza, mostrando agli SU, anzitutto, che essi hanno bisogno tanto dell’Europa quanto di nuove politiche. Non a caso è cresciuta in America la preoccupazione per la irrilevanza che minaccia gli europei.
La seconda obiezione nasce invece dalla discordia che regna tra gli Stati del vecchio continente. Ed essa indubbiamente esiste, ma è superabile soltanto nel ciclo storico-politico dell’unità dell’Occidente che meglio consente la ripresa dei processi unitari arenatisi. L’attuale contesto europeo non solo è in difficoltà istituzionale ma risulta anche privo di dinamismo e di prospettive. E c’è il rischio, come ha osservato sul “Corriere della Sera” Angelo Panebianco, che l’Europa si ritrovi al termine della crisi attuale con una struttura economico-finanziaria assai diversa da quella nel frattempo rinnovatasi negli Stati Uniti: assai più pesante, statalista e frenata, sicuro viatico di perdita di competitività economica e di peso internazionale. Ma figurarsi se non occorra un “traino” ben più forte di una UE indebolita. Nel contesto attuale, già oggi, la Germania rilutta a sopportare altri oneri finanziari per aiutare Stati che non posseggono il suo rigore; e l’Italia non riesce a vincere i condizionamenti corporativi che la soffocano. Quanto alla Gran Bretagna avrebbe solo ragioni aggiuntive per non abbandonare la sua diffidenza anti-europea. Ed è molto dubbio, sebbene Sarkozy lo tenti, che sia possibile garantire alla Francia il ruolo da essa sempre perseguito, in modi talvolta pericolosi che sarebbe dannoso si ripetessero.
Dunque, o i paesi europei decidono insieme di fare un passo avanti sull’attuale contesto, dando vita a un grande disegno comune, senza sconquassare l’Europa quale le vicende storiche l’hanno assestata: e allora essi possono anche derivarne la forza per superare ogni resistenza. Oppure gli Stati dell’UE non fanno altro, di fatto, che confermare di non voler divenire grande comunità politica: e nell’assetto multipolare ogni paese resterà perciò con la modesta forza dalla propria condizione nazionale, in un’Unione meno suggestiva e più debole di un tempo.
Alla fine, la scelta europea è sostanzialmente identica a quella degli Stati Uniti. Per ambedue i grandi soggetti atlantici si tratta di partire dalla crisi presente e stabilire se bisogna unire l’Occidente per essere più forti nel sistema multipolare; o se, viceversa, si deve dividere l’Occidente in due autonome entità su posizioni differenti, rifiutando di marciare insieme. Certo, in un’era in cui la sopravvivenza politica dipenderà dal confronto con le gigantesche realtà inter-statali di Cina, India e Russia, potrebbe sembrare un poco stravagante scegliere l’opzione di un Atlantico più largo invece che più stretto. Ma non si può mai sapere. Parrebbe saggio, questo sì, che nazioni e forze politiche capaci di leadership decidessero di lanciare un’iniziativa per dirigere il mondo occidentale su un nuovo cammino. Ma ambizioni nazionaliste e interessi costituiti sono sempre abbastanza forti per bloccare tutto. Pure, nella stasi e nell’incertezza presente quel che veramente conta è che la politica torni ad avanzare, sapendo che l’intendenza, per quanto pesante, non potrebbe che seguire.



NOTE
*Il tema di una più intensa e stabile collaborazione tra Europa e Stati Uniti, sollevato da questa rivista più volte in passato, è divenuto d'attualità nella stampa italiana in occasione delle elezioni americane. In particolare, dopo gli editoriali di F. Venturini e V.E. Parsi, pubblicati dal «Corriere della Sera» e dalla «Stampa» nel mese di ottobre hanno approfondito la questione M. Monti, nel «Corriere» del 2 novembre e G. Tremonti nel «Messaggero» del 4 novembre.^
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