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Da Caracas a Bogotà
di Aurelio Musi
Un’esperienza originale di internazionalizzazione universitaria

Dopo Caracas, Bogota’. Sono stato nella capitale della Colombia pochi giorni prima della liberazione della Betancourt. Se durante il soggiorno precedente a Caracas, nel settembre del 2007, avevo avuto la fortuna di vivere la febbrile vigilia del referendum costituzionale, voluto e perso da Chavez, e di poter avvertire gli echi del dibattito all’Assemblea Nazionale e nel paese, nel giugno del 2008 mi è stata data la possibilità di osservare da vicino un’esperienza politica assai distante da quella venezuelana ma che, grazie anche al successo ottenuto dal presidente Uribe con la soluzione del caso Betancourt, potrebbe incontrare maggiore interesse in Europa. L’interesse è dovuto, in primo luogo, al fatto che il modello colombiano va ormai acquisendo una sua specificità, una sua singolarità entro la mappa sempre più variegata delle dinamiche politiche dell’America Latina: un subcontinente spesso considerato, soprattutto dal versante dell’Europa occidentale, troppo omogeneo, quasi bloccato nei suoi sviluppi, schiacciato tra formazioni totalitarie, semitotalitarie, populiste; un subcontinente in cui la democrazia, in altri termini, fa ancora fatica a decollare, resta assai fragile, condizionata dal peso della sua storia passata e recente. Ma sul modello colombiano tornerò successivamente.
Il motivo del mio soggiorno nella capitale colombiana è stato ancora una volta legato all’originale attività di internazionalizzazione universitaria intrapresa dall’ateneo di Salerno. Con l’Universidad Catolica de Colombia la facoltà di Scienze Politiche e il Dipartimento di Teoria e Storia delle Istituzioni dell’Università di Salerno hanno infatti siglato a Bogotà una convenzione per l’istituzione di un master in “Scienze Politiche per la Pace e l’Integrazione dei Popoli”, che dovrebbe decollare dal 2009. L’iniziativa nasce sulla base di una solida collaborazione interistituzionale che prevede la partecipazione non solo delle due università, ma anche dell’ambasciata italiana in Colombia, della piccola, ma assai ben radicata e organizzata comunità italiana di Bogotà, di altre istituzioni accademiche e scientifiche, di notevole prestigio in Colombia, come l’istituto “Caro y Cuervo”. La collaborazione non riguarda solo il profilo della didattica, ma anche il profilo della ricerca e dell’alta formazione. A questo livello, infatti, quello del post lauream e della ricerca universitaria, quasi tutti i paesi latinoamericani scontano un notevole ritardo rispetto all’organizzazione e allo sviluppo presenti nei paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti. A Bogotà, ad esempio, a fronte del pluralismo e della sorprendente ricchezza di istituzioni universitarie, pubbliche, private, laiche o religiose, di livello e valore, ben s’intende, assai disomogenei, sta infatti un sistema di carriere della docenza accademica fondato più sull’esperienza didattica e sull’anzianità nell’insegnamento e meno sulla produzione scientifica. Solo da pochi anni in alcune realtà latinoamericane si comincia a capire l’importanza del post lauream (master e dottorati) non solo ai fini di una più qualificata formazione professionale, ma anche come addestramento alla ricerca di base e applicata. E proprio per contribuire a costruire questo livello è stato chiamato in causa l’ateneo salernitano.
Sull’originalità di questa esperienza di internazionalizzazione è necessario ancora spendere qualche parola. In realtà l’obiettivo finale della collaborazione è assai più ambizioso. La realizzazione del master, infatti, dovrebbe costituire una prima tappa di un percorso complesso riguardante sia la possibilità del coinvolgimento di studiosi italiani e colombiani in comuni progetti di ricerca sia la progettazione, tutta italiana e salernitana, di una facoltà di Scienze Politiche che manca nella Universidad Catolica de Bogotà. Sul primo versante sarà possibile realizzare una collana di studi in lingua spagnola che raccoglie sia i testi d’uso didattico, scritti da studiosi italiani, sia la pubblicazione dei risultati di ricerche originali prodotte da italiani e da colombiani.
Ancor più importante sarà il secondo, più ambizioso obiettivo della collaborazione: la progettazione e costruzione di una facoltà di Scienze Politiche che, pur rispettando la mission e il progetto educativo di un’università cattolica colombiana, cerchi di innestare su di essi i valori laici, la storia e l’identità dell’originale percorso compiuto, dalla sua fondazione ad oggi, dalla facoltà italiana di Scienze Politiche. Voglio cioè dire che i valori laici, l’autonomia e la libertà della ricerca e dell’insegnamento, l’interdisciplinarietà, il pluralismo e le connessioni tra le diverse anime di Scienze Politiche – diritto, economia, storia, lingue, culture e istituzioni straniere, scienze umane e sociali – non sono in contraddizione con il progetto educativo dell’università colombiana con la quale dovrà dialogare l’ateneo di Salerno. In quella mission, infatti, “l’educazione ai principi della dottrina cattolica e la diffusione dell’insegnamento sociale della Chiesa” non sono in contraddizione col “pieno esercizio delle potenzialità conoscitive umane”, con la “capacità di generare idee da parte della comunità”, con la “valorizzazione della persona umana”, con “l’esaltazione della sua dignità”: E anche altri obiettivi, presenti in quella mission, come la “riconquista della universalità propria dell’istituzione universitaria”, la stretta relazione tra “aspirazioni della persona e società”, lo “studio, l’analisi, la sensibilizzazione e le proposte sulle realtà culturali, politiche, economiche e sociali della Colombia”, sono assolutamente compatibili e integrabili in un progetto italo-colombiano di Scienze Politiche.
Potrebbe addirittura verificarsi il paradosso della possibilità di un innesto sincretico di un corso di studi italiano in territorio colombiano proprio nel momento in cui, a seguito del recente e riformato ordinamento dei nostri studi universitari, alcune facoltà, come quella di Scienze Politiche, stanno forse perdendo la loro fisionomia e identità originarie e originali.



Dal “mondo liquido” alla riconoscibilità dell’identità coloniale

In un mio precedente intervento, dedicato ad un’esperienza molto simile a quella che sto descrivendo in queste note e svoltasi a Caracas ( Un napoletano a Caracas, in “L’Acropoli”, 9 (2008), pp. 68-72), mi sono chiesto quale potesse essere una definizione sintetica della capitale del Venezuela. Ho parlato di “città di contrasti”, fatta di “castelli postmoderni”, ma soprattutto mi è parsa calzante la metafora del “mondo liquido”, utilizzata da Bauman: una continua scomposizione di forme sociali, flessibilità e approssimazione, irriconoscibilità di identità mi sono apparse le caratteristiche di Caracas che immediatamente colpiscono il visitatore europeo.
Bogotà è molto diversa. Ha un cuore, la Candelaria, che, per molti versi, ne definisce l’identità e rende riconoscibile il passato coloniale. Ha una struttura urbana, divisibile e altrettanto riconoscibile. Cresciuta lungo l’asse Nord-Sud e ora verso Ovest e verso Nord, delimitata ad est da una catena montuosa su cui svettano le cime di Monserrate e Guadalupe, l’area del centro divide la metropoli in due parti molto diverse tra di loro: la zona settentrionale fatta di eleganti quartieri residenziali e quella meridionale che dai sobborghi abitati da una popolazione a basso reddito si estende nelle baraccopoli del margine meridionale. Ma la parte settentrionale può ben rappresentarsi come la city di una capitale, a differenza di Caracas che non mi pare possieda l’equivalente, a parte i “non luoghi”, rappresentati dai mastodontici centri commerciali. Anche dal punto di vista delle infrastrutture longitudinali di comunicazione, con la rete di autobus, chiamata TransMilenio, Bogotà ha realizzato un’opera, che, pur con tutte le vivaci discussioni suscitate e i rilievi mossi, rappresenta comunque un elemento di una certa originalità nelle capitali dell’America meridionale.
L’ordine e il decoro del centro urbano di Bogotà non si riscontrano a Caracas: gli anni di Chavez, tra l’altro, hanno rappresentato anche una “degradazione”, per così dire, del centro urbano che, e dal punto di vista della qualità della vita e dal punto di vista della sicurezza, non si distingue dal resto della città. Quell’ ordine e quel decoro bogotani sono ancor più sorprendenti se si pensa alla storia recente del paese. E il contrasto fra la violenza potenziale pronta ad esplodere da un momento all’altro e la complessiva serenità della popolazione è una cifra non secondaria della capitale colombiana.


Le idee e la pratica di governo di Uribe

Al centro del dibattito politico in Colombia è oggi proprio la natura del conflitto in atto nel paese. Il governo Uribe, negli ultimi tempi, ha messo a segno notevoli successi sia nella repressione della guerriglia delle Farc, sia nel contenimento delle forze paramilitari di destra. Meno rilevanti appaiono invece i risultati ottenuti nella battaglia contro la droga. Gli esiti politico-militari, a cui si fa riferimento, sono stati possibili anche perché la strategia del presidente Uribe e dei suoi consiglieri affonda le radici in una visione del conflitto interno al paese diversa dall’immagine che circola largamente soprattutto nell’Europa occidentale.
Nel 1996 il precedente governo colombiano e l’Alta Commissione dell’ONU per i diritti umani definirono la situazione del paese come “conflitto interno armato di carattere politico, economico e sociale” o “guerra civile”. Tutta l’odierna strategia di Uribe è tesa, invece, a contestare lo stato di guerra in cui vive la Colombia e la sua qualifica come “guerra civile”. Secondo Uribe, come risulta da moltissimi suoi discorsi ufficiali e dagli interventi politici anche dei suoi collaboratori, quella qualifica costituisce un regalo alle Farc, ad altre formazioni simili di estrema sinistra e ai gruppi paramilitari di estrema destra. Sono le Farc, per Uribe, ad esigere il riconoscimento del carattere di “forza belligerante in una guerra civile” e controparte attestata su un territorio in cui hanno costituito un embrione di stato con esercito, governo e comando unificato. Non si tratta di “conflitto interno al paese”, ma di “vera e propria minaccia terroristica”. Proprio in quest’ottica, a partire dal 2002, Uribe ha ridefinito la politica di sicurezza per il paese e ha, in certo senso, proposto e voluto una riscrittura della storia recente della Colombia in due fasi: una fase A, dal 1996 al 2002, caratterizzata dall’ “irresponsabile dichiarazione di guerra civile” da parte del precedente presidente colombiano, e una fase B caratterizzata dalla politica di Uribe. Nella prima fase, secondo questa interpretazione, si sarebbero avuti il crollo del PIL, la diminuzione dell’export e l’aumento del debito estero, l’eliminazione di qualsiasi possibilità di negoziazione con le Farc. Nella fase B, invece, crescita del PIL oltre il 6%, lo sviluppo di una rete di microimprese, la crescita del reddito pro capite attestatasi su una media di 4mila dollari annui.
Due volumi recenti, La estratagema terrorista.Las razones del presidente Uribe para no aceptar la existencia de un conflicto interno armado en Colombia, a cura di L. Botero Campuzano (Bogotà 2007), e Los potros de barbaros atilas. La razon de los inamovibles del presidente Uribe en el debate sobre el llamado “Acuerdo Umanitario”, a cura dello stesso autore, contribuiscono ad approfondire i termini del problema.
Quasi tutti i saggi contenuti nel primo volume contestano la classificazione del conflitto colombiano come “guerra civile” e la sua assimilazione ad una molteplicità di forme di violenza generalizzata. Le tesi ricorrenti sono le seguenti: è il conflitto la causa, in ultima istanza, della crescente debolezza dello Stato colombiano, non viceversa; la guerriglia e i paramilitari sono terroristi, non combattenti. Viene inoltre contestata la posizione di alcuni intellettuali di sinistra capeggiati da José Saramago, che sostiene la seguente tesi: esiste un conflitto armato interno alla Colombia, in cui una delle due parti, quella delle formazioni di estrema sinistra, si propone di risolvere i problemi economici e sociali del paese. Questa tesi è fortemente criticata dai sostenitori di Uribe per due motivi: lascerebbe senza alcuna protezione la popolazione; indebolirebbe le autorità di polizia.
Dunque, secondo Saramago ed altri, il conflitto colombiano esisterebbe e si rafforzerebbe sempre di più perché lo stato non riconosce le Farc e non accetta una soluzione politica negoziata. Guerriglia e polizia sarebbero così artefici di un conflitto armato, in cui i cittadini non hanno nessuna parte, sono estranei. A questa tesi gli uribisti ribattono che in una società democratica non possono sussistere distinzioni e neutralità di fronte ai delitti. La violenza contro la democrazia è sempre e comunque reazionaria.
Il secondo volume riporta ancor più organicamente il pensiero di Uribe, del quale si ripropongono qui le frasi più icastiche. I terroristi non possono essere e non sono prigionieri di guerra. Nessun sequestro può essere spiegato e/o giustificato da una dottrina politica. La pace è figlia dell’autorità. Combattiamo il terrorismo per non soffrire la sua eterna schiavitù. I paesi europei non possono collocare il governo colombiano allo stesso livello delle Farc.
Il primo consigliere di Uribe, Obdulio Gaviria, così conclude la sua prefazione a questo secondo volume:
Perché alcuni si ostinano a chiamare assassinio la fine di Raul Reyes, un individuo che se la passava a negoziare sequestri come se si trattasse di commercio di legittime mercanzie? Perché va tanta gente per il mondo – presidenti e ministri inclusi – usando termini come accordo per l’interscambio umanitario di prigionieri di guerraquando si riferiscono ai sequestri in Colombia?

La “terza via” di Uribe, per così dire, è solo agli inizi. Ma l’Europa farebbe bene a prestare maggiore attenzione a questo presidente così diverso da caudillo vecchi e nuovi, leader populisti di ultima generazione e altri consimili esempi.
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