Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno IX - n. 4 > Rendiconti > Pag. 372
 
 
Giorgio Amendola. La politica economica e il capitalismo italiano
di Luigi Vergallo
Il volume curato da Gianni Cervetti, che raccoglie gli atti dell’omonimo convegno, è l’undicesimo pubblicato dalla Fondazione ISEC di Sesto San Giovanni nella sua collana ripensare il ‘900 – monografie (l’altra sezione della collana è strumenti). Contiene scritti di Gianni Cervetti, Franco Amatori, Francesco Silva, Ugo Finetti, Gianluigi Da Rold, Edoardo Borruso, Luca Michelini, Gianfranco Petrillo, Valeria Sgambati, Luigi Vimercati (che pubblica anche un’intervista ad A-mendola realizzata nel 1979 insieme a Sergio Soave) e una nota bibliografica a cura di Mario Perugini.
Ripercorrere i tratti fondamentali della vita e dell’attività politica oltre che intellet-tuale di Amendola è occasione per soffermarsi su alcuni momenti e passaggi decisivi della storia italiana del Novecento; ne consegue che molti tra gli autori finiscono con approfondire gli stessi punti cruciali, esaltando la caratteristica di riflessione colletti-va che il convegno aveva dato la sensazione di possedere.
Gli organizzatori sembrano in effetti aver voluto trascendere l’aspetto “puramente” e direttamente biografico e di ricostruzione, per lasciare spazio all’analisi del contesto politico, economico e sociale del quale Amendola è stato originale interprete e prota-gonista tra i più importanti.
A questo proposito la presentazione di Gianni Cervetti sembra proprio suggerire la necessità di sottrarre la riflessione alle facili, seppur naturali, suggestioni agiografiche insite talvolta in questo tipo di ricostruzioni, cercando al contrario di fare emergere i limiti e le contraddizioni dell’esponente comunista. In questo senso il libro dice molto sulla politica economica e il capitalismo italiano e meno sull’uomo politico in senso stretto. Il ché è da ritenersi costituisca un pregio, poiché affrontare l’opera di un personaggio storico attraverso l’analisi dei crocevia che si è trovato davanti sem-bra un modo utile di penetrarne a fondo la vita e le battaglie.
È da credere che il libro risulterà leggibile per un panorama piuttosto ampio di let-tori, naturalmente per gli specialisti in discipline assai diverse tra loro ma anche per il semplice appassionato di cose di storia, poiché al suo interno trovano spazio e rappre-sentanza non solo il rigore scientifico degli autori ma anche una sorta di passione ci-vile capace di far riflettere sulle attuali tendenze di sviluppo della società italiana.
Nel suo saggio Cervetti anticipa i contenuti più forti del volume. Si è qui provato a selezionarne alcuni di particolare interesse e, tra questi, colpisce che la classe operaia cui guardava Giorgio Amendola fosse una classe operaia da lui ritenuta minoritaria nel paese e tra le stesse forze del lavoro, ragione per cui considerava necessario che essa sviluppasse una propria coscienza nazionale (caratteristica che Amendola riscon-trava più a Genova e a Milano che a Torino). Si sarebbe tentati di ritenere che da que-sta sua convinzione siano derivate coerentemente alcune delle sue posizioni politiche più note.
Negli anni del centrosinistra, per esempio, Amendola era energicamente orientato a un confronto sui contenuti anziché alla contrapposizione frontale (posizione che, vista da oggi, sembrerebbe tuttavia piuttosto condivisa all’interno del PCI, mentre lo sa-rebbe stata di meno nel PSIUP). La risposta recessiva di parte degli imprenditori all’apertura ai socialisti - sulla quale in modo diverso si sono soffermati Petrillo, Bor-ruso e Amatori - avrebbe forse rafforzato in Amendola la convinzione che fosse ne-cessaria da parte della classe operaia l’assunzione di un ruolo dirigente nazionale. Da lì all’ipotesi del partito unico della sinistra il passo era breve.
Sullo sfondo di questo processo sarebbe rimasta una posizione sensibilmente di-versa rispetto alla “orgia keynesiana” - espressione citata da Cervetti - nella quale è sembrata consumarsi a lungo la sinistra. Amendola sottolineava la differenza sostan-ziale tra espansione e crescita, dove nella prima l’aspetto quantitativo finiva con lo schiacciare il fondamentale momento qualitativo (come emerge anche nell’intervista di Vimercati e Soave). È interessante rilevare la parziale distinzione contenuta nel saggio di Silva, che collocherebbe la posizione di Amendola, negli schemi della teo-ria economica, in un ambito keynesiano interpretato “da sinistra”, cioè con molti di-stinguo in effetti sul tipo di domanda e con il “costante richiamo ai problemi della produttività e l’affermazione che comunque l’aumento dei salari ha esiti macroeco-nomici positivi”. Era davvero, in Amendola, il recupero dell’interpretazione ricondu-cibile a Ricardo secondo la quale le lotte degli operai, spingendo gli imprenditori ad adottare i mezzi di produzione più aggiornati, avrebbero contribuito a rendere il si-stema sempre più efficiente.
Rimane difficile collocare nel quadro ricardiano l’opposizione crescente - ricordata sempre da Silva - a partire dalla fine degli anni Sessanta a quello che riteneva un con-servatorismo del sindacato, accusato in particolare di portare avanti un esasperato e-gualitarismo e rivendicazioni salariali slegate dalla produttività, posizioni poi ulte-riormente accentuate dall’inflazione degli anni Settanta. Su tali aspetti si è soffermato anche Edoardo Borruso, che ha sottolineato come secondo Amendola “il pericolo del-la recessione si doveva combattere, innanzitutto, con una lotta coerente all’aumento della produttività conseguita con l’applicazione delle innovazioni tecnologiche, attra-verso una politica di investimenti e con le riforme guidate dalla programmazione”. In questo senso, è però poco chiaro come Amendola potesse ritenere nello stesso tempo che “una battaglia per il rinnovamento dell’economia italiana non [potesse] permet-tersi di conservare tutto: gli impianti obsoleti, le localizzazioni errate e il frutto delle speculazioni”, elementi che “dovevano essere rimossi, per procedere oltre”.
La sintesi potrebbe in effetti essere quella suggerita nel saggio di Silva. Non è la lotta alla disoccupazione in sé, quanto la lotta alla disoccupazione condotta fabbrica per fabbrica ad essere ritenuta poco sensata, poiché se gli operai ad ogni ristruttura-zione occupano lo stabilimento non fanno altro che accrescere l’area di intervento dello stato al di fuori però di criteri di efficienza che possano sostenere complessiva-mente la produttività, l’economia e dunque anche l’occupazione. Quanto, a proposito di sviluppo, sembrava in Amendola precedentemente ricondotto a un “libero” dispie-garsi della conflittualità di classe, appariva ormai imbrigliato in una dinamica di fab-brica in qualche modo “registrata” dalla politica.
Luca Michelini ha colto un aspetto interessante. Nelle frequenti divisioni di quegli anni, negli ancora più frequenti cambiamenti di prospettive, nei passi indietro e nelle contraddizioni si palesava semplicemente “il concreto manifestarsi della storia nazio-nale, che conosceva impetuose trasformazioni economiche, sociali e culturali, che la politica tentava di interpretare e di governare e che il PCI nel suo complesso ha sem-pre avuto l’obiettivo di incanalare nella logica democratica, fin dagli anni del CLN”.
In Amendola una certa natura contraddittoria sembrava comunque essere più spic-cata della “norma”. Il saggio di Valeria Sgambati individua e offre alcune chiavi di lettura - ricondotte alla stessa formazione culturale di cui vengono individuate le principali componenti - capaci di rendere conto di tali aspetti della complessa figura del nostro uomo politico: “L’eresia liberale lo fece diventare comunista e l’eresia comunista si può dire che lo risospinse ver[s]o i lidi liberali”.
Un altro interessante tema toccato in diversi saggi è la concezione del monopolio in Amendola, il quale secondo Silva lungo gli anni Cinquanta e Sessanta avrebbe i-dentificato il mondo delle imprese soprattutto con quello dei grandi monopoli e a tal proposito era citato dove sosteneva che lo sviluppo delle piccole e medie “avviene entro le linee fissate dalle grandi concentrazioni finanziarie, che ne dettano i limiti”. Quando Amendola parla di monopolio, scrive Silva, non ha in mente quella forma di mercato contrapposta alla concorrenza ma la rendita monopolistica e il potere a essa collegato. Forse. Oppure Amendola aveva in mente qualcosa di un po’ più articolato, vale a dire il monopolio nel senso di capitale monopolistico nell’accezione marxista, ciò che ha a che fare con la possibilità e capacità di indirizzare in parte lo sviluppo ma soprattutto la dialettica fra i gruppi economici stessi, attraverso tra l’altro il con-trollo del credito e nel recupero del concetto di capitale finanziario.
A questo proposito il limite della definizione di monopolio data dai comunisti po-trebbe forse stare da un’altra parte, e lo ha ben sottolineato Gianfranco Petrillo nel suo saggio. Ciò che si trascurava, in apertura degli anni Sessanta, era che i monopoli si fossero divisi nettamente tra almeno due modelli di sviluppo contrapposti, che se-condo Petrillo erano lo sfruttamento delle risorse pubbliche da una parte e gli alti consumi di massa dall’altra. Forse vi si dovrebbe aggiungere la questione della possi-bilità di accesso, al giusto prezzo, alle fonti energetiche, contesto nel quale assumeva una posizione centrale la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’enorme conflit-to che ne seguì. È per questo motivo che probabilmente, come scrive Silva, non è fa-cile in Amendola distinguere “quanto il concetto di monopolio sia sinonimo di gran-de impresa o un tipo di mercato che produce esiti non efficienti”.
Un ulteriore seppure meno approfondito - nel volume e in questa recensione - pia-no dell’opera sembra essere quello della lotta all’estremismo, la quale vide contrap-posti Amendola e lo stesso Berlinguer. Il segretario comunista secondo Ugo Finetti avrebbe respinto la “denuncia del piano inclinato estremismo-violenza-terrorismo” e la lontananza tra i due sarebbe emersa con forza in occasione della marcia dei quaran-tamila, quando il solo Amendola aveva denunciato tutto quanto poteva rimandare - come citato da Cervetti - a “un rapporto diretto tra violenza di fabbrica e terrore”. La sostanza dell’eredità di Amendola è in tal senso ritenuta da Finetti l’inconciliabilità tra la sinistra di governo e quella antagonista.
Tale divisione sarebbe il naturale risultato delle antiche contrapposizioni riguardo alla contestazione. Finetti e Da Rold sembrano assumere una tendenza - piuttosto dif-fusa - la quale tende a schiacciare totalmente gli anni Settanta sugli avvenimenti del lungo ’68. Sembra essere questo il senso della battuta polemica di Gianluigi Da Rold sugli “opposti sessantottismi”, su chi ha voluto la luna (il riferimento è a Ingrao) e sulle ragazze del secolo scorso (Rossana Rossanda). È una lettura che appare franca-mente inadeguata a spiegare la complessità di quegli anni per certi versi assai con-traddittori, in quanto il sessantottismo, nel farsi categoria storica, finisce col diventare una coperta troppo corta per tutte le storture dell’Italia repubblicana.
Interpretare la storia secondo i parametri di torto o ragione e di giusto o non giusto più che poco utile appare fuorviante. Non è possibile semplificare a tal modo l’enorme portata di difficili opzioni politiche e di diverse valutazioni legate a diversi criteri di opportunità; non è altresì possibile sottovalutare l’importanza e la difficoltà che assumeva la rappresentazione sociale di interessi contrastanti e di terribili conflit-ti.
Forse al lettore di oggi - e credo soprattutto ai più giovani tra loro - più che il rin-novarsi delle divisioni interessa capire quali delle idee di allora siano potenzialmente capaci di fecondare adesso, nuovamente, una speranza troppo spesso vilipesa. Tutta-via ha forse scritto bene Luca Michelini, degno interprete di una schiera che si ostina a vedere la storia anche come storia civile, che constata che ad essere venuto meno è il cosiddetto “riformismo comunista” (espressione apparentemente pa-radossale attorno alla quale non esiste un consenso pieno), e insieme ad esso, si ag-giungerebbe, ogni proposta politica, di qualsiasi parte, capace di misurarsi con serietà sui presupposti dello sviluppo.
Come si può ben vedere il volume che l’ISEC propone sembra ben degno d’essere letto, capace com’è di avvicinare alla storia e tenere aperta la riflessione sulle cose di ieri, di oggi e di domani.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft