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Le traversie “teatrali” del frate ribelle
di Franco Crispini
Già nel saggio introduttivo, Giordano Bruno, angelo della luce tra disincanto e furore, alla edizione curata per «I Meridiani» (Mondadori, 2000, Dialoghi filosofici italiani), Michele Ciliberto, prendendo spunto dal momento in cui fu eseguita la sentenza di morte contro Giordano Bruno «heretico ostinatissimo», «autore di diverse enormi opinioni nelle quali restò ostinatissimo […] il meshino» il quale fu «abbruciato vivo» per avere «formati diversi dogmi contro nostra fede, et in particolare contro la Santissima Vergine et Santi», sottolinea come quella che risalta fino al momento del rogo in Campo dei Fiori a Roma, è paradossalmente l’immagine di un «uomo in rivolta». Ora Ciliberto offre una nuova riflessione sul martire di Campo dei Fiori (Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, 2007) poiché sorge il problema di comprendere quella ostinazione, quella energia che lo fa resistere in carcere per tantissimi mesi, ma soprattutto «chi fosse quell’uomo e quel filosofo prontissimo a morire»: un problema sia filosofico che esistenziale «quella consapevolezza che Bruno aveva della sua filosofia, della sua vita e di se stesso nella “ruota” universale dei “destini”, dei saperi, delle civiltà». La scelta di morire, ed in quel modo, scaturisce, scrive Ciliberto, «da un intreccio profondissimo di “filosofia” e di “autobiografia”, non nel senso di un assorbimento del personale nel filosofico, bensì nel senso che nella vicenda esistenziale si incarna e si svolge il processo di “universale renovatio”: nel “minimo” della quotidianità si esprime e si svolge il “massimo” del processo di restaurazione dell’antica verità». (p. XIII). Cosicché, appunto, parlare di quella morte significa parlare di una filosofia, di una vita, vuol dire parlare di un “uomo”. Ma perché Bruno non aveva mentito per salvare se stesso? A questo ed altri interrogativi, compreso quello su come è da intenderne l’ateismo, su quella che veramente vuole essere la “vera religione” bruniana, su come si distendono le complesse trame esistenziali ed intellettuali di questo singolare personaggio della cultura moderna, le risposte che vengono dal lungo e penetrante percorso degli studi bruniani di Ciliberto sono ogni volta nuovi affondi nella complicata storia di una avventura affascinante di pensiero e di vita.
Le congiunture particolari che costellano la formazione e maturazione della “nolana” filosofia, assieme al forte impegno per difenderla, le tribolazioni e peregrinazioni per tutta l’Europa, i processi e gli accanimenti chiesastici, sono materia che hanno sempre appassionato gli studiosi di Bruno. Vogliamo ricordare più recentemente il serio ed impegnativo lavoro di Saverio Ricci (Giordano Bruno – Nell’Europa del Cinquecento, pp. 649, Roma, 2000) che perlustra anche esso minuziosamente le varie tappe del travagliato cammino del nolano, benché l’intreccio di autobiografia e tensione teorica esca non dovutamente illustrato ed evidenziato. Senza volere istituire alcun confronto o togliere valore alla attenta ricerca di Saverio Ricci, ci pare di poter notare che l’aspetto specifico del libro di Ciliberto è da ritrovare proprio in quella energia di reazioni vitali che dal fervore mentale si trasferisce nella sfera degli atti esistenziali e viceversa. L’attore non sta solo sulla scena del pensiero e delle idee ma vive la sua parte nel mondo, tra conflitti e confronti.
Davvero roba da teatro, di una tragica teatralità, la vita di Giordano Bruno, colui che poi sempre simboleggerà,in una iconografia ottocentesca-risorgimentale, l’eroicità del libero pensiero. La vita dell’ “exul pro religione”.
Una scena teatrale di cui sono attori, uomini di chiesa, delatori, pedanti, inquisitori, ma che ha come protagonista egli stesso, la sua indocile natura, la sua indole ribelle, la sua irruenta, irrefrenabile, irriverente e trasgressiva intellettualità. I luoghi: Nola, Napoli, Roma, Tolosa, Parigi, Oxford, Venezia, e l’epoca, gli anni a cavallo tra ’500 e ’600, ne sono lo sfondo, ma anche una incombente mappa di segni del destino di un individuo calato nelle forme proprie di un ambiente e di una civiltà. Il dramma esistenziale del filosofo si snoda in un itinerario intellettuale che dalle prime polemiche e provocazioni nel napoletano convento di San Domenico Maggiore giunge a definire una figura del tutto singolare nel panorama culturale, filosofico-religioso ed etico-civile di una difficile stagione dell’età moderna. Filippo-Giordano Bruno recita bene la sua parte, dal primo atto nel chiostro domenicano napoletano alle fasi veneziane del processo, delle accuse e della difesa, di abile interprete e polemista e di portatore di idee nuove, una sfida all’Europa della cristianità, cattolica e riformata.
Una storiografia inconsistente, per quanto allettante nelle sue ipotesi di studio, che boriosamente ha finito per chiudere in nicchie troppo strette di letture suggestive ma inconcludenti la controversa opera bruniana, pur avendo già a disposizione copiosi materiali documentari in via di altri arricchimenti, ha fondamentalmente trascurato il grande affresco che poteva ricavarsi dalle vicende esistenziali-intellettuali dell’eretico Bruno, una rappresentazione in cui campeggiano grandi tensioni speculative sullo scenario di una vita tutta spesa nelle disavventure e nei conflitti ideologici. Servono ancora le serie ricostruzioni di una storiografia più attenta, che sappia aprire più che sul vuoto di gracili spunti offerti peraltro dalla stessa ricchezza metaforica che è dentro i testi bruniani, sulla rappresentazione di sé, di una inquieta soggettività che trasferisce nelle tramature e negli orditi filosofici le intuizioni geniali e le scelte teoriche radicali che riesce a fare? E certamente che la lunga dimestichezza con gli scritti di Bruno, italiani e latini, la padronanza dei grandi temi attorno ai quali ruota la riflessione del nolano, la non improvvisata scala di lettura messa alla prova attraverso studi, monografie, edizioni critiche di testi, possono ancora movimentare gli orizzonti di comprensione, come avviene ora con l’ultima, originale indagine di Michele Ciliberto, il maggiore studioso italiano, e non solo, di questa figura centrale della cultura del Rinascimento. Occorreva un grande storico della cultura filosofica come Ciliberto per avere un nuovo, fresco profilo del forte intreccio tra biografia e filosofia, un tracciato autobiografico che fa sentire ancora di più la rilevanza del pensiero etico-civile di Giordano Bruno. E poteva riuscirvi proprio Ciliberto che sa usare con grande raffinatezza gli strumenti dell’erudizione e dell’analisi filosofica.
I più significativi momenti di vita, sottolineati nel libro, hanno come indici temi che accendono ed aizzano il vulcanico pensiero e la fremente vena polemica del frate in continua rivolta. A volere percorrere con Ciliberto, attraverso i dieci capitoli, con un “preambolo” ed un “epilogo”, della sua affascinate ricerca, le tappe decisive del drammatico e rischioso viaggio intellettuale del domenicano sempre in fuga, ci si trova di fronte ai punti caldi della rivolta ma anche della apertura su di una cosmologia, una antropologia ed un’etica cui Bruno affida la sua “novità”. Sul terreno della teologia Bruno trova tanti pretesti per spingersi verso una “renovatio” che scardina tutta una concezione dell’uomo e del mondo, a partire dal momento in cui si affaccia alla mente del filosofo, tra le pieghe di una polemica teologica sulla incarnazione e la trinità, sulla figura del Cristo (un “Cristo traditore”), il concetto di infinito «vero punto archimedeo di tutta la esperienza bruniana», il rapporto tra incommensurabile e commensurabile, tra infinito e finito appunto. Ma, dappertutto, non c’è un orizzonte separato dove guerreggiano dottrine teologiche e filosofia, un al di qua e un al di là, di vita, teatralità, scenicità e fredda riflessione, rigide asserzioni morali, rigorose demolizioni di certezze dogmatiche. In misura maggiore nel Candelaio (1585), «un geniale testo teatrale», un «eccezionale bilancio autobiografico», «il vero archetipico dell’opus bruniano», ma un empito esistenziale, un impulso che nasce dalla vita, si ritrova in tutto l’arcipelago delle idee bruniane. Le pagine che Ciliberto dedica a questi intrecci così fitti tra circostanze, situazioni, insofferenze personali, asprezze di rapporti e affermazioni di principio, risolute prese di posizione, scorrimento di vedute etico-filosofiche caparbiamente contrapposte, con veemenza e violenza, ai vari ambienti che rifiutavano ed osteggiavano il frate ribelle, hanno una straordinaria densità. E però nel resoconto che facciamo di questo affresco della “peregrinatio” di un intellettuale avventuroso trafitto nella carne dai chiodi di un inquieto pensiero e dalla intolleranza di ambienti ecclesiastici arroccati su immutabili verità, necessariamente abbiamo dovuto lasciar fuori un vero tesoro di acute analisi e di riferimenti testuali che rinnovano nel lettore una forte attrazione verso la singolare figura di un filosofo vittima delle sue grandi passioni e delle incomprensioni e violente (le fiamme di un rogo!) rivendicazioni della eternità di un credo ed una fede ostile a tutte le inquietudini di un mondo che sta vivendo la sua eccezionale modernità. Lo spericolato cammino intellettuale non conosce soste, non ha tregua: con straordinario ardore e passione difende la sua “verità”, la sua idea di “vicissitudine” senza la quale non c’è vita né divenire. Dappertutto dispute, scontri, contro tutti i mali che scaturiscono da una “barbarie profonda”, in Inghilterra, a Parigi, questo «straniero per nascita, esule, fuggitivo, trastullo di fortuna», difende con coraggio la “libertà filosofica” violata, e poi a Praga, in Germania, sempre teso nel grande impegno di individuare una “nova religio”; ed infine da Francoforte a Padova, a Venezia dove, «condotto alle preggioni di questo Sant’Officio»,comincia, tra il 22 e 23 maggio 1592, il processo che si concluderà otto anni dopo con il rogo di Campo de’ Fiori. In tutte le fasi del processo, Bruno si difese in modo serrato e sagace, dando il meglio di sé «come filosofo e come grande attore», chiarendo in modo brillante i livelli diversi, quello filosofico, quello della religione dove, se aveva peccato, ciò era per ragioni filosofiche, sui quali piani si era mosso seguendo sempre il “lume naturale”. Ed arriva anche a “genuflettersi” ed a pentirsi, dichiarandosi «pronto a rientrare nei ranghi della Chiesa». Ma Bruno è tutt’altro che domato: nelle carceri non trova nessun modo di placarsi. Con l’estradizione da Venezia, Bruno passerà nel carcere romano dell’Inquisizione e da qui, sommerso dalle accuse alle quali abilmente, con astuzie e raffinate argomentazioni, tenta di sottrarsi, mentre con la censura dei suoi libri si prepara la inesorabile sentenza, il dramma si avvia alle ultime battute: conclude Ciliberto, «era un vero filosofo, ma anche un grande uomo di teatro, capace di congiungere in ogni momento esperienza della vita e rappresentazione teatrale». Dopo la lettura della sentenza, l’atteggiamento di Bruno che rigetta sui giudici un “timore” che egli non prova, ha davvero l’aspetto di quella che lo studioso chiama una “trasfigurazione”, un esito di grandioso e tragico effetto scenico.
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