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Morale privata e identità nazionale
di Elisa Novi Chavarria
Aspirazione e realizzazione dell’unità, oltre che dell’indipendenza e della libertà del popolo italiano, il Risorgimento segnò pure l’occasione per un grande esame di coscienza nazionale. Si discusse allora della qualità morale della nazione e del suo popolo e fu allora che, reale, o in parte ingannevole che fosse, cominciò ad introdursi nella coscienza dei più la percezione della “decadenza” morale e civile che avrebbe avviluppato la vita italiana dei secoli precedenti, dopo la grande e complessa stagione del Rinascimento. Complici in questo i guasti operati dalla Chiesa della controriforma e dalla dominazione straniera, dall’azione inquisitoria e repressiva delle dissidenze e dall’egemonia culturale gesuitica, e il fatale divorzio tra etica e politica che da tutto ciò ne era fatalmente conseguito. Di questo esame, e dei suoi esiti, la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis rimane certo il più alto documento, ma esso non fu l’unico e molte altre considerazioni concorsero a configurare, nella storiografia italiana ed europea dei secoli XVIII e XIX, quel giudizio e quella connotazione così fortemente svalutativi del carattere degli italiani (Per questi aspetti e su tali studi si veda G. Galasso, Dalla« libertà» d’Italia alle «preponderanze» straniere, Napoli 1997).
Bizzocchi, nel libro Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (Roma-Bari, 2008), su cui vorremmo spendere ora qualche riflessione, ci ricorda, ad esempio, che nell’Histoire des Républiques italiennes du moyen âge (1807-1818) Sismondi aveva già abbondantemente concorso alla elaborazione di un tale giudizio. Soggezione politica alla Spagna e servilismo morale alle istituzioni ecclesiastiche avevano trovato in quella trattazione un riconoscimento pari almeno al peso storico di tali avvenimenti, ma Sismondi vi aggiunse in appendice anche un’altra motivazione, a tutta prima a dir poco curiosa: protagonisti della drammatica crisi della morale italiana moderna sarebbero stati niente meno che … i cicisbei. Ovviamente la questione in sé travalicava la portata del cicisbeismo, ma a prenderla sul serio, come in parte almeno fece l’opinione pubblica dell’Ottocento, non c’era dubbio che quel costume potesse apparire come un elemento corrosivo dei pilastri morali e sociali della famiglia, e in quanto tale decisivo, quindi, a determinare la corruzione del carattere degli italiani. Val la pena allora chiedersi – come Bizzocchi appunto fa – chi furono mai costoro e che spazio effettivamente occuparono sulla scena della società italiana.
Espressione della sociabilità nobiliare del Settecento, della galanteria e della civiltà dei salotti e delle conversazioni, i cicisbei – o cavalier serventi che dir si voglia – accompagnavano le dame nelle occasioni mondane; ne erano, come qualcuno ebbe a dire, “i guardiani e i sorveglianti”, assolvevano ad un ruolo di protezione da ogni possibile pericolo, a dimostrazione anche fisica della loro appartenenza ad una rete di tutela maschile (p. 50). Pertanto - osserva Bizzocchi - il cicisbeismo non fu soltanto un costume privato adottato da qualcuno grazie alle nuove opportunità offerte dalla civiltà delle conversazioni illuminate, ma rappresentò anche una delle forme di organizzazione della società aristocratica. Esso ebbe a che fare, infatti, con il processo di formazione dei giovani nobili, i quali, all’uscita dal collegio, erano avviati a occupare il loro posto in società prestando un servizio presso una dama; ha a che vedere con gli alti tassi di celibato maschile, propri della società aristocratica del tempo, e con l’esistenza di un vasto mercato di uomini liberi da un proprio legame coniugale e, quindi, facilmente disponibili; ha a che vedere, infine, con i modelli e le strategie matrimoniali di quel medesimo tempo e di quella società di cui, di fatto, il cicisbeismo costituì un ulteriore tassello nel gioco degli scambi e delle alleanze familiari (e una conferma in tal senso viene anche dagli studi più recenti sul matrimonio, per cui si veda D. Lombardi, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, Bologna 2008).
Spesso assai più giovani delle dame cui si accompagnavano, non di rado a loro legati da qualche seppur lontano legame parentale e da molte affinità e interessi culturali e musicali, i cicisbei, nel contesto di una società molto più di prima proiettata verso la civiltà delle conversazioni e dei salotti, non solo erano utili, infatti, agli equilibri interni della coppia coniugale supplendo, in molte occasioni mondane, al marito impegnato altrove, ma ricoprivano anche un ruolo determinante negli equilibri complessivi delle nobiltà cittadine, costituendo un elemento di moltiplicazione e integrazione delle dinamiche innescate dal solo scambio matrimoniale.
Certo, con qualche sfumatura e variazione sul tema, a secondo dei casi e del contesto. A Genova, ad esempio, sin dagli inizi del secolo il fenomeno del cicisbeismo aveva assunto una dimensione tale da convincere l’inviato francese, incaricato dal Primo Ministro di stendere una relazione sullo stato della Repubblica e della nobiltà cittadina, che esso fosse addirittura la chiave di volta del locale sistema di potere, di tutti gli affari e degli intrighi, grandi e piccoli, che a vario titolo vi si intrecciavano (pp. 165 ss.). Lo stesso si può dire per le altre nobiltà cittadine di Lucca, di Firenze, di Venezia, con l’unica variante ivi data dalla possibile partecipazione degli stranieri all’uso, con le inevitabili complicazioni che ne potevano derivare. A Roma poi, dove la presenza della corte pontificia e delle varie corti cardinalizie costituiva ancora un elemento di attrazione per molti esponenti delle élites internazionali, il gran numero di stranieri residenti o di passaggio, l’affollamento degli ecclesiastici e la loro ascendenza nella vita sociale complicavano ulteriormente tale trama relazionale, conferendole un tono “femineamente prelatizio”, ovverosia un largo ricorrere del fenomeno tra chierici e abatini alla prima tonsura (p. 195). Niente a che vedere, evidentemente, con certe angustie della corte sabauda, o i ritardi accumulati in materia dall’aristocrazia palermitana; pure, anche qui non mancano testimonianze sull’ampiezza dell’uso dei cavalier serventi.
Dove la questione assunse una prospettiva particolarmente interessante, è a Napoli, dove la sociabilità aristocratica e illuministica dovette fare i conti, prima, con il tramonto del modello spagnolo conservatore e, dopo, con l’insediamento di una grande corte sovrana, e dove, in ogni caso, gli esempi di un incremento delle occasioni di socievolezza e di una maggiore libertà di costumi non mancano di certo. L’uso del cicisbeismo si radicò anche qui, infatti, almeno dalla metà del Settecento, in termini quantitativamente incalcolabili, e con una peculiarità di fondo rispetto al rilievo politico-sociale che aveva assunto presso le oligarchie repubblicane delle città del Centro-Nord. Sembra di poter dire, infatti, che a Napoli l’usanza si fosse imposta soprattutto nei suoi aspetti di moda briosa e galante, sullo sfondo di una società aperta alla cultura dei Lumi, al gusto per il collezionismo archeologico e dell’affermarsi, più in generale, di un allentamento della disciplina sociale imposta alle donne e di una sociabilità dai toni più leggeri e brillanti.
Bizzocchi riporta al riguardo un numero davvero sorprendente di testimonianze, tutte desunte da una almeno altrettanto sorprendentemente varia tipologia di fonti. Il lettore è così condotto a rimirare, come in una ipotetica galleria, i quadri di Pietro Longhi e del Tiepolo, rievocando con loro il rito della “Cioccolata del mattino” o de “La passeggiata”, o i tanti altri riti della giornata del giovin signore messi in versi dal Parini; a rileggere le pièces teatrali di Goldoni sui riti de “La villeggiatura” o le sue tirate contro certi coniugi male assortiti, evocati, ad esempio, in “La famiglia dell’antiquario”; a ripercorrere con i viaggiatori stranieri la varie tappe del Grand Tour; a intrufolarsi nell’intimità più segreta di epistolari e diari privati; a sorbirsi i molti predicozzi di moralisti e uomini di Chiesa, vagamente ossessionati dal diffondersi del fenomeno delle conversazioni, e di quelle femminili in modo particolare, tra quanti affidavano loro la cura delle proprie anime. L’Autore indugia tra questi testi con ironia, a volte con un pizzico appena celato di pruderie. Sullo sfondo del suo discorso si delineano a poco a poco allora le varie forme del vivere aristocratico: i nuovi stili e le raffinatezze di spazi ed oggetti di cui la nobiltà prende a circondarsi, i giardini sistemati per ospitare rinfreschi e altre più informali occasioni d’incontro, la cerchia dei rapporti intrecciati tra pubblico e privato, il linguaggio dell’effettività e dell’erotismo e, soprattutto, la maggiore libertà delle donne, la nuova possibilità per loro, seppure entro limiti formalmente definiti e in modi comunque prevedibili, di frequentare salotti e intrattenere relazioni fuori della ristretta cerchia familiare. Al centro di questa affermazione si configurano i modi di una sociabilità ingentilita e affrancata dal conservatorismo, nella quale la buona educazione, la civiltà dei modi, la capacità di un elegante autocontrollo diventavano il nerbo della nuova cultura dei ceti dirigenti e aprivano le porte alla nascita dell’opinione pubblica.
La pratica del cicisbeismo si infrangerà di lì a poco sull’onda montante della nuova morale familiare borghese, dell’idea romantica dell’amore totalizzante e passionale, dell’intimità domestica e della cura affettuosa dei figli, tutti sentimenti incompatibili con la leggerezza libertina. Il colpo decisivo era stato già dato, in effetti, dalla importazione anche in Italia dei principi della Rivoluzione e della nuova etica del matrimonio fissata dal Codice Napoleonico, che tra le molte altre sue conseguenze ebbe anche quella di modificare la vita privata degli italiani. La nuova sensibilità romantica e l’esaltazione della centralità della famiglia faranno il resto. Ma intanto, alla fine di questo intrigante percorso, nelle pagine conclusive del libro, l’Autore ci fa sapere che il fenomeno del cicisbeismo non fu esclusivo delle nobiltà italiane. Espressioni analoghe si ebbero anche in Spagna, a Vienna e, ovviamente, nei salotti francesi (337 ss.).
Forse, è un po’ troppo poco, proprio per ciò che Bizzocchi illustra nel suo libro, per individuare l’indispensabile contesto europeo del fenomeno. Che dire allora? Qualora il problema della identità italiana sia mai passato anche attraverso la configurazione di quel singolare ménage à trois, rappresentato nel Settecento dal fenomeno del cicisbeismo, possiamo affermare che, intensità eventualmente a parte, il problema non sembra porsi in Italia diversamente da come si pone nelle altre società europee illuminate. Anche per questo verso, la presunta “anomalia” del caso italiano ne esce, dunque, fortemente ridimensionata. Evidentemente più si conosce la storia nazionale italiana nel quadro europeo, meglio si comprende quanto, in quel quadro, la storia della identità italiana abbia piena sintonia e sincronia con quella delle altri grandi nazioni europee (affermazione, che ci sembra da condividere, per cui si veda G. Galasso, L’identità italiana: premesse per una storia, in L’Italia s’è desta. Tradizione storica e identità nazionale dal Risorgimento alla Repubblica, Firenze 2002, p. 83).
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