Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno IX - n. 5 > Documenti > Pag. 452
 
 
«Il Teatro di Napoli»
di Emma Giammattei

La nostra città, ripeto, ha fondamenta scritte, inventate.
G. Marotta



1.    Tra intérieur e passaggio.

Come nasce un lieu de mémoire? E, soprattutto, rispetto a questa localizzazione attivatrice della identità storica1, a sua volta stratificata in memoria aperta, come si articola nello spazio reale e nella coscienza dei contemporanei il raccordo fra lo «stato nascente» ed il «già-sempre»? In una fisiognomica della cultura napoletana, chiamata a dar conto dell’immagine complessiva della Città negli ultimi tre secoli, ovvero del riverbero estetico-mitologico che è funzione scattante, generativa e non ‘seconda’, della macchina urbana, il posto del San Carlo rimane una postazione strategica non discutibile. Ancora oggi esso non è affatto una metafora spenta, ormai laterale, nel fianco della Biblioteca. Tutt’altro. Ancora oggi nell’immaginario sempre fumante del labirinto napoletano, il suo destino si gioca tra meta e passaggio, tra luogo verso il quale è puntato il flusso della realtà, «capolinea» di intelligenze come, sino all’inizio del secolo scorso, di diligenze, e luogo invece di transito, che mette in contatto e comunicazione spazi sociali contigui ma altrimenti incomunicabili: infine, tra Laboratorio, WunderKammer, Galleria.
Certamente, nel 1737, la decisa ri-semantizzazione di un Teatro che comunichi innanzi tutto se stesso, corona con plenario emblema quell’integrale rinnovamento urbanistico sul quale tanto è stato scritto, che spostò il centro e l’asse della vita cittadina, in una corrispondenza organica di funzioni e di simboli, di divieti e soluzioni – anche di continuità – che instaurano nuove soglie nell’uso mentale degli spazi.
Ciò che a lungo permane, innervata nella storia del teatro, è l’aura inaugurale ma nello stesso tempo subito-in-opera, l’evidenza clamorosa ed enigmatica di teatro senza inizio, che sostituisce con fulminea modalità iconica (270 giorni!) un altro teatro, il quale scompare all’improvviso dalla scena cittadina2. Come si sa bene, alle spalle ci sono due narrazioni magiche, due utili «fandonie» come vennero presto definite, aneddoti-féeries che raccontano e spiegano al popolo la dislocazione reale e metaforica del nuovo teatro. E il dipanatore dell’intreccio mitologico-ideologico è stato naturalmente Benedetto Croce, in quel romanzo-selva, gremito di notizie, di immagini e di micro-racconti, dei Teatri di Napoli3: è il libro che di fatto apre l’itinerario del grande storico, all’insegna di un modello di erudizione appassionata ed evocatrice, con una rubrica sempre fittamente incrementata sino agli ultimi anni, se si pensa che è del 1946 il lavoro dedicato al carteggio fra «una vecchia conoscenza» del filosofo, la cantante Vittoria Tesi, diva del San Carlo, e il futuro papa Piccolomini4.
Già ripercorre e riassume rispettosamente le pagine crociane sulla nascita del San Carlo, il critico e cronista musicale Saverio Procida nel consegnare l’immagine della Napoli teatrale al Novecento, nel bel volume di Pierro Napoli d’oggi: «Due storielle ugualmente apocrife, sono insite nella fondazione del San Carlo. Ed è strano che il credito, che anche oggi trovano nel popolo, sia stato loro accresciuto dall’autorità di due scrittori come il Florimo e lo storico Pietro Colletta»5. Si trattava, in verità, di due historiettes, esempi illustrati, convocati a presentare i sovrani con tratti familiari, con umanissime pulsioni e reazioni, si vorrebbe dire in borghese, ragionevolmente capricciosi. Nel primo caso la regina impaurita dalla caduta dei cavalli sulla strada malagevole che conduceva al teatro San Bartolommeo avrebbe giurato di mai più recarsi in quel teatro. Il secondo racconto, più significativo ed implicante, divulgato dal Colletta, dispiegava in forma di leggenda la ragion di stato dell’avveduta politica culturale di re Carlo che teneva aperto il tragitto tra il Palazzo e la Scena. Ed anzi, abbattendo «mura grossissime, formando ponti e scale di travi e legni» e creando un percorso diretto tra reggia e teatro si attraeva quest’ultimo in un Interno. D’altronde, com’è stato già rilevato, in virtù della vastissima estensione, questo luogo dalla manifesta funzione pubblica, diventava l’interfaccia del palazzo verso la Città: e questa, di fatto, veniva accolta e immaginata ed auto-percepita dentro il cuore stesso del Regno, insomma il Regno, per dir così, come volontà e come rappresentazione. E la gran parte di questo progetto totalizzante veniva investita sulla Capitale: «Tutto il bello, il grande, il magnifico delle opere di Carlo stava intorno alla città», precisa lo storico. Del resto, nella Storia del Colletta risultava agevolmente il carattere funzionale dell’aneddoto, appunto come exemplum o spot comunicativo, sottomesso ad una raffigurazione storiografica e moraleggiante dove veniva innanzi anche la parabola individuale del Carasale, la fortuna e sfortuna dedalea del grande architetto:
Il teatro ch’ebbe nome di San Carlo, il passaggio interiore, il merito, la fortuna del Carasale furono subbietto per molti giorni a’ racconti della reggia e della città. Laudi funeste; però che l’invidiato architetto, richiesto de’ conti, non soddisfacendo a’ ragionieri, fu minacciato di carcere. […] e poco appresso il Carasale, menato nella fortezza di Sant’Elmo, fu chiuso in prigione, dove campò ne’ primi mesi per gli stentati aiuti della famiglia, e poi dell’amaro pane del fisco. Restò nel carcere alcuni anni e vi morì; i suoi figli si perderono nella povertà; e nulla rimarrebbe del nome del Carasale a’ dì nostri, se la eccellenza e le maraviglie dell’opera non ravvivassero nella memoria l’artefice infelice6.

Con queste credenziali narrative e favolose, il nuovo teatro acquisì in modo esattamente orientato – dal Re versus le gerarchie sociali a loro volta disposte concentricamente nella Guckkastenbuhne della Città – lo statuto di motore rappresentativo che gli competeva, luogo primario di elaborazione e smistamento di scene, immagini, situazioni, cornici scenografiche. E di certo, con ragione si è voluto indicare la stretta congruenza fra quella forma e il tessuto connettivo del repertorio che immediatamente vi si organizzò, il Tutto Metastasio, almeno dal 1737 al 1776, persino con «annate monografiche»7, a siglare il mito del Settecento e del Poeta a Napoli. Da una parte, c’è l’elemento decisivo sempre sottolineato dagli studiosi, vale a dire «l’abilità del Metastasio nel ‘preordinare’ attraverso il testo drammatico le soluzioni sceniche» e quindi la particolare adoperabilità della rilevante componente visiva insita nel testo, in vista di una scena che, nella realtà come nell’immaginario, avanza verso la platea in un gioco di specchi e di innata meta-teatralità8. Il dramma metastasiano si faceva dunque in quei primi anni, «concerto totale», dove il senso profondo che veniva inoculato, cioè la contraddizione ognora sedata o differita, rinviava ad una sorta di antropologia musicale, aderente ad una volontà di potere organizzato e bloccato, appunto, in Scena. Fu un caso che si verificasse nel Teatro Massimo di Napoli, in quello scorcio straordinario, la rappresentazione ideologica ed estetica del «ripensamento anti-tragico»? Anche in virtù di quella memoria, Settembrini avrebbe stabilito nelle sue Lezioni che Napoli aveva strappato, nella evoluzione del melodramma, il vanto della musica alla Toscana.
Ma intanto, in sincronia, la densità mitologica e l’egemonia teatrale vengono misurate in parallelo lungo una duplice via, esterna ed interna: c’è la ricezione del teatro come struttura e come mondo teatrale nel registro dei viaggiatori e c’è, come vedremo, il viaggio testuale e intertestuale della parodia. La parodia, che è intrinsecamente forma di omaggio e di attestato di esistenza di un modello originario, configura una sequenza sulla stessa scena sancarliana, nel caso, esemplificato da Roberto de Simone, del Socrate immaginario di Paisiello. Qui era messa in atto la caricatura, nella figura di Saverio Mattei, di tutto un mondo teatrale, ma passando attraverso il riecheggiamento e la citazione dell’Orfeo di Gluck, rappresentato nel 1774 pochi mesi prima9. Oppure, per tutto l’Ottocento, come si vedrà, la parodia sarà il modo organico di divulgare opere e immagini del Teatro maggiore nella scena speculare del San Carlino. Né può essere sottovalutata, a partire dai primi anni dell’Ottocento, l’attestazione pittorica, probabilmente catalizzata dalla presenza attiva di uno scenografo e incisivo concertatore di visione come il Niccolini. Gli anni centrali del Settecento costituiscono, comunque, il momento in cui si delinea il topos, vale a dire, una forma infinita «che può venir riempita di volta in volta di un contenuto inteso attualmente» e quindi definita nelle sue variazioni storiche. Le pagine dei grandi viaggiatori, da de Brosses a Saint-Non a de Sade, sono troppo note perché ci si soffermi in modo puntuale. Importa, semmai, entro quale topografia letteraria il San Carlo venga posto e raccontato, cioè secondo quale assiologia culturale, di giudizi e di immagini. Il tema sempre sviluppato dai viaggiatori, nella comparazione con le capitali europee di provenienza, è quello della vastità, dell’illuminazione, degli specchi, e il fatto che si tratti di uno «spettacolo in sé» superiore all’immaginazione. Per questo rispetto, il San Carlo con la sua esagerazione di veduta interna – se è lecita la contraddizione – rappresenta nell’ambito artificiale ciò che il Vesuvio è nell’ambito naturale, con le sue immani «rappresentazioni». È un binomio, talora oppositivo, culturale/naturale, che sarà esplicitato e reso evidente da Stendhal, quando paragonerà l’eruzione ad uno spettacolo del ballerino Viganò. Salvo poi, per i viaggiatori-antropologi esprimere delusione o fastidio per la eterogeneità degli spettacoli, non sempre conformi alla serietà dell’opera lirica, e per ciò che accade nei palchi, a cominciare da quello reale, e in platea, dove si registra ogni volta il gran chiasso, secondo un motivo ricorrente delle pagine odeporiche, ben oltre l’acida intonazione delle giudicanti pagine dell’inglese Sharp. Comincia ora ad affermarsi il tema della raffinata barbarie, del paradosso napoletano di una decadenza preventiva che sembra essere, anche nei momenti alti, il contro-canto di una civiltà. Si devono però alla capacità d’osservazione del Marchese de Sade – in attesa delle memorabili pagine, affatto mitopoietiche, di Stendhal – talune variazioni di grande interesse: intanto il San Carlo viene considerato, come aveva prescritto il Mattei, in un sistema teatrale, in una topografia dei generi e della fruizione – che nel tempo, si deve aggiungere, si rivelerà sempre meno rigida. Ed è rivelatrice la notazione sadiana che «il teatro fa parte del palazzo Reale».
Di solito si riflette poco sul fatto che Napoli e il suo Teatro, in pieno Settecento, lungo una rotta già obbligata e obbligante, sono il luogo nel quale quegli sguardi e quindi quei testi spesso si incontrano e interferiscono, in un ingorgo di informazioni già adeguate in metafora – se è vero che metafora è ogni cadenza che si ripete – e/o in stereotipo, secondo una traccia di ripetizioni ancora da districare per via filologica. A Napoli, ad esempio, nel 1778, si sovrappongono le presenze simultanee, e le relazioni di viaggio, di due scrittori significativi: dell’inglese Swinburne, che pubblica tempestivamente nel 1782 un vero testo-pilota del genere, guida di viaggio e di scrittura di viaggio, e del diplomatico (e disegnatore, narratore e amatore) Vivant Denon, quest’ultimo per conto dell’ormai malato abate di Saint-Non, come direttore della spedizione iconografica e descrittiva che doveva risultare nel celebre Voyage pictoresque10. Ebbene, Denon inviava giorno per giorno il suo diario all’abate, che vi si ispirò largamente per il suo Journal, mentre le mirabili pagine del diplomatico, il quale sarebbe rimasto sei anni a Napoli prima dell’incontro determinante con Napoleone, sono state pubblicate con la prefazione di Pierre Rosenberg solo dieci anni fa. Qui niente di sovrapposto o di effettuoso. Un incedere con telecamera in spalla, piuttosto: si entra in città, lentamente, dalla parte di via Foria non ancora completamente aperta e «plus on avance et plus le théatre s’elargit», fino al Palazzo Reale e di lì fino a Santa Lucia e al mare. Lungo questa linea direttrice, fenditura originaria, la città si articola, si dipana e si raddensa in punti di vista «riants et terribles», in un alternarsi rapido di luoghi affollati o solitari. Il Teatro vi occupa il centro, descritto e giudicato nel suo impianto pre-niccoliniano con sicurezza di gusto, non senza una sdegnosa battuta per Rousseau, «cet homme bizzarre», il filosofo sedentario, l’appartato non-viandante, e per il suo astratto invito musicale «Va, cours à Naples […] ». E a proposito dello spettacolo infinito delle bougies qui se répètent dans les glaces, l’impressione, di natura opposta, è quella di una oscurità dove più nulla si distingue: «[…] comme si on ne savait pas ancore à Naples que le premier principe de décoration est de présenter les effets en cachant les moyens». Eppure, alla fine, tutti appaiono felici: «[…] tout le monde est à son aise, acteurs et spectateurs, et même compositeurs». Perché il San Carlo è un luogo da abitare, un «chez soi», non ci si va, ma ci si sta, per cinque ore durante le quali si riceve, si conversa, si mira e si è mirati, sullo sfondo sonoro di parole e musica, in uno scenario di luci e colori. Al San Carlino, il teatro che già nel nome «parodiait celui du théatre de Saint-Charles» Denon deve, diversamente, registrare una stretta corrispondenza fra spettacolo e spettatore: «[…] le seul spectacle où j’ai vu les spectateurs attentifs»11. Ed ecco che quello stesso anno, una personalità artistica differente da Denon, ma dall’attenzione altrettanto prensile, il pittore di Cardiff Thomas Jones, poteva annotare nei Memoirs la sua prima ed ultima volta al Teatro San Carlo:
C’era una serata di gala, alla presenza della corte, ma il rumore in sala era così forte che non si riusciva a sentire gli attori e il bagliore delle candele riflesse negli specchi era talmente accecante da stordire, così fummo ben lieti di andarcene a casa dopo il secondo atto; il primo era un balletto che riproduceva le manovre militari e il secondo una specie di pantomima12.

E inoltre, dichiarata la sua passione per lo spettacolo sempre in opera del Vesuvio, aggiungeva che, invece, le commedie del Goldoni e, soprattutto, l’Opera Buffa «in genere sono un ottimo modo di concludere le fatiche o i piaceri della giornata». In queste pagine «dal timbro innocente, ma ricche di effetti speciali», come scrive la curatrice, c’è tutta l’aria del tempo della Città, attraverso la vita quotidiana di una fervida comunità inglese di artisti e musicisti. Altro è ciò che lo interessa: le Case di Napoli viste dalla lastrica, in alto, in fantastiche immote combinazioni di tetti e di cupole. E un’altra luce. Nel 1787, in singolare sintonia con Jones, Goethe invertirà genialmente la rotta della visione, dal chiuso all’aperto, dallo spettacolo preordinato alla rischiosa molteplicità del reale. Anche per lui il San Carlo, emblema del Teatro europeo di ancien régime e di quella sociabilità che attrarrà lo Stendhal desideroso di seduzione romantica, non può più esaurire la brama di forme esotiche, si vuol dire di esotismo naturale e sociale:
la natura è sempre l’unico libro, di cui ogni pagina abbia un grande contenuto. Al contrario il teatro non mi soddisfa più. Durante la quaresima qui si rappresentano degli oratori, per null’altro dissimili dalle Opere profane, se non per l’assenza dei balli durante gli intermezzi: per il rimanente, bizzarri fino al possibile. Al S. Carlo si dà «La distruzione di Gerusalemme per opera di Nabucodonosor». Ma a teatro mi sembra di trovarmi in una camera ottica; temo d’aver perduto il gusto per simili cose13.

Sarà il ’99 come Sacra Rappresentazione e mattanza, a svelare il backstage tremendo che è dietro lo Spettacolo, e a rimescolare le carte del mito e della iconografia sancarliana, sulla scena più ampia ma anch’essa chiusa e bloccata della Città. E i “patrioti” Cimarosa, Paisiello, saranno il punto di raccordo, auspici Salvatore Di Giacomo e Benedetto Croce, con il mito settecentesco del San Carlo nell’Ottocento a Napoli.


2. La scena e il racconto.

Una notte si apprese il fuoco al magnifico teatro di San Carlo, e fu caso. Le poche genti che lì stavano per le prime prove di un dramma, fuggirono spaventate, e le grida e i globi di fumo divolgando il pericolo, si accorse da tutte le parti della città, ma già tardi. Crebbe l’incendio: esce il re e la famiglia dalla contigua reggia; la immensa mole del tetto, superata dal fuoco, rende fiamme impetuose e lucenti, tanto che le riverbera il monte Sant’Elmo e ‘l sottoposto mare: attonito e mesto il popolo rimirava. Il cielo da sereno diventò procelloso, ma tale il vento spirava, che le fiamme lambivano i nudi ripari del Castelnuovo; […] Al dì vegnente entrammo nell’arso edifizio, e n’era l’aspetto come delle antiche rovine di Roma o Pesto; se non che le presenti, per la fresca memoria de’ superbi dipinti del Niccolini, e delle armonie del Rossini, ci apparivano più gravi e più triste.[…] Nell’anno istesso magrezza di ricolto fu ‘a poveri cagion di fame […]14.

È ancora Pietro Colletta, esule a Firenze, negli anni Trenta, a conferire valore di allegoria e di presagio all’incendio del San Carlo, offrendo quasi l’ecfrasis dei disegni che il Niccolini realizzò, in diretta, delle rovine del Teatro arso al centro della Città, a loro volta leggibili come potenziali scenografie. Si trattò di un evento di per sé topico, come testimoniano i dipinti del Fergola e soprattutto il quadro scintillante del Pitloo, che mostra in contemporanea l’incidente, in un singolare anticipo di realismo urbano. E se ne ricorderà, in un registro di parodistica iperbole, quell’ironico metteur en scène di memorie di viaggio di esatta invenzione, Stendhal, quando racconta di una sera del 1817 in cui il teatro si riempie di un fumo nero: «Mi venne subito in mente l’incendio Schwartzemberg», ma ecco che dalla tragedia si passa alla corporalità della farsa. Dall’odore di quel fumo, ne comprende la natura e ne informa la bella dama napoletana che gli è accanto: «È nebbia, non fumo, è il calore di una tale folla che fa asciugare una sala tanto umida». Per questo tipo di notazioni eccessive, Stendhal precisa e riassume il carattere metropolitano e nello stesso tempo esotico del Teatro, «palazzo di qualche imperatore d’Oriente», dove Viganò, rappresentando il Balletto Li Zingari, propone al pubblico «una buffa verità: ossia che i costumi nazionali del Napoletano sono esattamente i costumi degli zingari»15. Più tardi Salvatore di Giacomo, appassionato ed esclusivo evocatore del Settecento teatrale napoletano, riprenderà quell’impressione di spazio occidentale/orientale, e di Napoli come Samarcanda o Baghdad.
Ma intanto con il Niccolini, già studioso di un diverso impianto, soprattutto acustico, del teatro, si era trovato a dialogare il consigliere Vincenzo Cuoco, sulla questione di una efficace evocazione visiva dell’antico, e sulla verosimiglianza delle scenografie archeologiche di talune opere16.
L’Ottocento è davvero il secolo che fa registrare, accanto alla innegabile perdita del primato musicale come corrispondenza organica fra un repertorio e un pubblico, lo sfrangiarsi del mito negli infiniti rivoli nutrienti di racconti e di immagini, nelle tante variazioni e messe a frutto del teatro e della letteratura. Il San Carlo rimane una matrice e un punto di riferimento: certo, a partire dall’Unità, sempre meno europeo, ma di contro adesivamente innervato nella storia pur sempre propulsiva e produttiva, di Napoli «roccaforte dell’immaginario» della nuova Italia. Prima dell’incendio, soglia strutturale e visiva di un’altra stagione, il segno di rottura c’era già stato, nel marzo 1808, con l’opera che commemorava la Rivoluzione del ’99, I Pittagorici, risultato dell’incontro felice del Monti con Paisiello, il musicista napoletano caro a Napoleone. Dentro gli schemi della archeologia utopistica del Platone in Italia, il complesso romanzo del Cuoco, qui si sperimentò felicemente «la formula romantico-risorgimentale (la storia del passato remoto rivestita di simboli e passioni attuali) che avrà tanta fortuna in seguito»17. Non è irrilevante ricordare, a questo punto, che uno dei primi romanzi europei ed il primo pubblicato in Francia, ovvero Fragoletta, di Henri de Latouche, svolse nel 1829 il genere della storia contemporanea intorno al ’99 e nel tragitto decisivo Napoli-Parigi. Al centro è la figura scabrosa ed allegorica, per qualche verso erede dei celebri castrati del Settecento, di un ermafrodito. Inoltre, il significato politico vi è reso da due scene contrapposte: la casa di Eleonora Pimentel Fonseca dove, in una pièce improvvisata, si recita la farsa della corruzione della Corte e dell’ignoranza di re Ferdinando, e il Teatro San Carlo. Qui, in una serata di gala, alla noiosa glorificazione mitologica della famiglia reale fa riscontro lo spettacolo vivo del re nel suo palco, mentre mangia, con ostentata voracità, maccheroni. E nell’impasse fisico del(la) protagonista, nella mancata comunicazione tra le due capitali, sembra già vibrare la clausura spaziale e la temporalità bloccata della non-storia.
È un tracciato particolarmente significativo, benché qui sommariamente descritto, nella prospettiva di una cultura napoletana post-unitaria che si affermò come campo di invenzione unificato – intreccio di testi attraversante le arti – garantito dal racconto letterario e storiografico. Il mito e la rappresentazione del San Carlo, di per sé laboratorio dell’immaginario, configurano un luogo doppiamente connotato della geografia urbana, come mondo di suoni e di figure, infine come speciale spazio sociologico.
E dunque, il discorso che qui interessa, sul rapporto fra rappresentazione narrativa e immaginario urbano, tra articolazioni, giunture, situazioni del racconto, e forma topografica della Città, implica, per ciò stesso, rispetto al San Carlo, un cospicuo supplemento di metafore. Si tratta appunto di un lieu de mémoire due volte attivo, come luogo esterno-interno, dove si sovrappongono anche i molti tempi delle opere rappresentate e, a vario titolo, dei protagonisti in diacronia. A partire dal 1860 entrano, ad esempio, nel campo della raffigurazione romanzesca, nuove tipologie di personaggi connesse alla storia di questo Teatro. Diventa personaggio il maestro Florimo, L’amico di Bellini, nel racconto autobiografico del critico e testimone Edoardo Boutet18, e il maestro di musica autore di romanze celebri, Francesco Capponi nel racconto digiacomiano «Avea le trecce bionde…» dove il suicidio del maestro caduto in disgrazia diventa metafora della crisi della grande musica a Napoli, nel tempo ormai della canzone19. E personaggio comico sarà il «bigliettinaio del San Carlo» nel quaderno di viaggio dell’umorista e viaggiatore post-unitario Yorick, pseudonimo di Pietro Ferrigni, in San Carlo, prima dispari (in Vedi Napoli e poi…, 1878).
Anche su questo versante bisognerà riconoscere la tempestività del Mastriani, il quale nei Misteri di Napoli. Studi storico-sociali (1870) nel lungo capitolo Libertinaggio trova il modo di inserire non solo il teatrale incendio del 1816, ma anche la figura del famoso impresario Domenico Barbaja, vero protagonista della Napoli primottocentesca, «autentico eroe balzachiano»20, e l’altrettanto celebre episodio del sequestro del Rossini perché concluda l’opera commissionatagli. Tutto un paesaggio di nomi, di volti, di aneddoti e parabole comincia a vivere, fra finzioni narrative, autobiografie, racconti eruditi, pezzi di colore, resoconti giornalistici e cronache mondane, ad attestare innanzi tutto la vitalità della cultura napoletana post-unitaria, la quale chiama a raccolta, nel presentarsi all’incontro con le altre culture regionali, i suoi ricordi identitari. In quel momento davvero le antiche gerarchie si modificano: in luogo del Regno di Napoli ora c’è, solitaria y final, Napoli. Nel passaggio dall’aura settecentesca alla secolarizzazione romanzesca, che è poi il carattere dell’Ottocento, il San Carlo è ora un teatro dentro una rete nazionale di pubblici e di molteplici livelli e riverberi di fruizione, oltre che, come vedremo, un vero snodo narratologico. Si incrementa, frattanto, l’uso parodico di materiali sancarliani, grazie a Petito, con incredibili soluzioni meta-teatrali che prevedono persino l’annullamento di uno spettacolo, in dipendenza della mancata rappresentazione al Teatro Massimo21. La parodia è simultanea, indice esagerato della dimensione up-to-date della commedia di attualità. Ma è anche il segno che nella stagione della proliferazione di giornali e riviste, la notizia produce l’evento. Come data-limite si segnala, nel 1908, la parodia preventiva nel poemetto di Puck – avatar dell’umorista e poeta Ugo Ricci –, La Nave a San Carlo22 dove si mette in burla, in absentia, il dramma dannunziano con musica di Pizzetti rappresentato a Roma in quell’anno.
L’ultimo ventennio dell’Ottocento è senz’altro, in questo ambito di attestazioni ed omaggi letterari, determinante. I due maggiori scrittori di questo periodo, e rappresentanti a diverso titolo del realismo urbano, Di Giacomo e la Serao, trasformano il Teatro da topos in paratopia, vale a dire in spazio dell’immaginario che risulta da una sorta di negoziato combinatorio con il luogo reale. Con una capitale differenza: Di Giacomo rivisita e commemora il San Carlo identificato con il suo primo tempo, il Settecento, secolo con il quale, come aveva dichiarato a Croce, per lui «la Storia è finita»; la Serao, al contrario, ne sottolinea la versione contemporanea, dove si rappresentano Meyerbeer e Wagner, in sequenze-modello che anticipano e significano la trama che vi si ambienta. Nell’opera digiacomiana splende una serie di narrazioni teatrali, come il racconto Il Teatro San Carlo. La prima sera, fantasia che riporta in vita il passato, la magica notte dell’inaugurazione del San Carlo, raccontata con brio in una lettera da una dama napoletana ad una amica veneziana: la ricostruzione si avvale di tutto lo strumentario erudito dell’autore della Storia del Teatro San Carlino e della Storia della prostituzione in Napoli, vivificato da una empatica e contagiosa nostalgia. La medesima atmosfera diventerà operetta, con musica di W. Borg, nel 1898, col titolo L’abate, e intermezzo giocoso nel 1907 nell’ Abbé Perù, che mette in scena una società completamente, per dir così, metastasizzata, la quale trovava nel San Carlo il proprio habitat quasi naturale. E ci sono piccole novelle napoletane, tra le prime del giovane Di Giacomo, nelle quali circola una nobiltà in decadenza o una piccola borghesia di lavoratori del teatro, di coristi e di orchestrali, racconti che sin nei titoli rivelano la temperie sancarliana tra Cimarosa e Bellini, come Minuetto Settecento (1881) e Ah, non credea mirarti… (1883).
Pure, spetta alla Serao il primato dell’uso narrativo del San Carlo e delle sue rappresentazioni, probabilmente anche in virtù della straordinaria esperienza di cronista di “Api mosconi e vespe”, la rubrica dove ogni classe si affacciava sull’altra col proprio ruolo e parte, in una continua interferenza di per sé spettacolare. Nei suoi racconti e romanzi – e bisognerà citare almeno Scuola normale femminile e i romanzi Addio, amore! (1885) con il sequel del 1893 Castigo, e La ballerina (1899) – l’opzione per questa o quella musica connota e determina personaggi e situazioni, lo spettacolo teatrale possiede il valore di traccia allusiva, certo sul modello indicato da Flaubert nella scena in cui Emma Bovary assiste alla Lucia di Lammermoor. Ma con la connotazione ulteriore di un luogo esso stesso dotato, nell’immaginario napoletano ed europeo, di densità figurale, di prestigio fantastico. In particolare, nel romanzo erotico-mondano Addio, amore, la rappresentazione degli Ugonotti, «il gran poema musicale di odio, e di collera, di generosità, di amore, di pietà», duplica e accompagna e rivela lo svolgimento luttuoso della passione. Soprattutto, ai fini del nostro discorso, il Teatro San Carlo diventa, negli spostamenti dei personaggi di Castigo, lo spazio erotico da cui si diparte la trama, lungo quella linea che, attraverso Toledo e via Foria, giunge al cimitero di Poggioreale23. Ebbene, si tratta di un asse narratologico, di un percorso, dentro l’immagine urbana di Napoli, già articolato simbolicamente nella percezione profonda della città, rivelata e portata alla luce dalla letteratura.
Significativamente, in questi stessi anni il racconto storico-erudito mette a punto i suoi materiali nel gran libro crociano – contiguo ai lavori di Di Giacomo, di Raffaele de Cesare (La fine di un Regno, 1895) e al romanzo topografico, tra passato e presente, intessuto dalla rivista «Napoli Nobilissima». I Teatri di Napoli nella prima redazione, del 1891, posseggono un impianto micro-erudito e una intonazione narrativa che, proprio intorno alla storia e alle storie del Teatro Massimo, nel mentre consuma con oltranza l’estraneità rispetto alla astrattezza degli hegeliani di Napoli, prepara la riflessione e la pratica superatrice, di lì a poco, della Storiografia sotto il concetto generale dell’arte, cioè, per Croce, si sa, come Racconto24. Si aggiunga che questo libro fastoso potrebbe essere ripubblicato con profitto nella sua originaria configurazione, per dir così «prazzesca» ante litteram, come attestano certi muti prelievi operati da Mario Praz, ad esempio quando ricorda l’episodio, di smagliante evidenza iconografica, della cantante sancarliana Giuseppina Grassini, gettata dalla nave al largo del golfo di Napoli dall’amante, il Principe Augusto d’Inghilterra, e capace, però, di guadagnare la riva a svelte bracciate25.


3.    Sottopassaggi novecenteschi. Per un ri-epilogo

Insomma l’hai visto il sottopassaggio? Ci sono sottopassato due volte. Sono sbucato tra Piazza San Ferdinando e Piazza Plebiscito, poi in tre o quattro vie di rappresentanza, col San Carlo la Galleria eccetera come i mobili nel salotto buono delle famiglie decadute: nelle altre stanze meglio non gettare lo sguardo altrimenti dicono che denigri il buon nome. Ma qui un po’ di belletto e il buon nome è salvo, restaurato con poca spesa e qualche brutto neo il volto borbonico dei bei tempi. Bei tempi per chi?26

Colui che ritornava a Napoli, per le vecchie vie, in Ferito a morte (1961), si consegnava riluttante all’agnizione del «volto borbonico» della Città, all’uscita di un sottopassaggio che oggi non c’è più. Quanto a luogo letterario implicato nelle curvature del racconto, sono forse questi gli anni, per il San Carlo, del minimo storico. Non così nell’immediato dopoguerra, quando esso era stato emblema superstite di Napoli, dove Eduardo rappresentò il 25 marzo 1945 Napoli Milionaria!, incastrando l’antro proletario del basso dentro la scena profonda del teatro. E così, in modo omogeneo, nel 1947, nelle pagine di San Gennaro non dice mai no, del ritornante Marotta, San Carlo è identificazione immediata, catacresi di Napoli senz’altro, non lo si descrive, vi si accenna, come punta di un giacimento di memoria cittadina, o punto di un incrocio dove s’arresta una fiumana di irregolari e nottambuli che scende da Via Nardones, e non lontano dal Teatro del Pallonetto. Bisognerà poi aspettare il réfoulement settecentesco, quando tornano, insieme, Borboni e ’99, in cooperazione antagonistica, perché la vita carsica del mito del San Carlo riemerga in nuove variazioni. Saranno gli anni delle pagine della Macciocchi sulla Pimentel Fonseca, della Sontag, (L’Amante del Vulcano,1992) e soprattutto dell’importante romanzo di Striano, Il resto di niente (1986), dove lo spettacolo del San Carlo scandisce, di capitolo in capitolo, l’itinerario ad mortem di Lenòr, in una visione che si avvale del senno romanzesco di poi, della letteratura come conoscenza ultima:
Nel maggio Napoli sfolgorò di sole e feste. Il re tornò da Portella con la sposa, per la città che tripudiava, in corteo memorabile, che lei applaudì con Sanges e gli altri al Largo di Palazzo. La sera al San Carlo, per il «Peleo» di Bassi e Paisiello, scritto apposta.
La prima volta che vedeva il famoso teatro: splendido nel tepore scarlatto, nello scintillio delle luci, dei gioielli, nel chiaro delle carni. Dava sensazione d’isolare dal mondo, per tener lì racchiusi, tutti insieme, gli arìstòi, i diversi, i benedetti da fortuna, abilità, talenti, in luogo frutto d’arte, intelligenza, bellezza, che a sua volta rigorosamente chiedeva arte, bellezza, intelligenza.
Ma erano entrati a teatro mezzo vuoto, dopo un po’ dové ricredersi. Le dame dalle scollature fulgenti strillavano da un palco all’altro, senza ritegno né eleganza. Non diversamente si comportavano generali, abati, principi, magistrati. Voci, saluti, lazzi, espressioni triviali; c’era addirittura chi mangiava e beveva, con piatti e bicchieri.
È ciò che mi dà rabbia – disse Sanges, scuotendo la testa. – M’avvilisce. Questa sarebbe la classe dirigente. A Napoli27.

Dove si commemora un’altra Storia, che opera nel tempo con la sua pressione fantasmatica, come assenza.
Analogamente, ma sotto l’insegna dell’utopia negativa invece che del romanzo post-storico, Giuseppe Montesano in Di una vita menzognera (2004) avrebbe convocato nel finale l’immagine del San Carlo, culmine della teatralizzazione carnevalesca e infernale di «Eternapoli»: qui tutto, uomini e cose, è stato svuotato di senso e alienato, come nell’apocalisse fantascientifica dell’Invasione degli ultracorpi. Infine, si vuole porre qui, a mo’ di provvisorio epilogo, ad indicare i molti livelli possibili dell’uso e della fruizione del motivo sancarliano, un giallo napoletano recente, del 2007: un romanzo di ottima fattura e di buon successo, Il senso del dolore. L’inverno del commissario Ricciardi, di Maurizio de Giovanni. La trama: nella Napoli fascista del 1931, il tenore di fama mondiale Arnaldo Vezzi, amico del Duce, viene trovato ucciso nel suo camerino del San Carlo, prima della rappresentazione dei Pagliacci. Tra cantanti, sovrintendenti, sarte e costumisti, ecco che il Teatro si configura come Scena del delitto, ancora una volta metafora integrale. Il libretto dell’opera di Leoncavallo serve al commissario, un sensitivo, ad afferrare l’aria del dramma accaduto e a dipanare l’intrigo indiziario, in una inchiesta che si amplia e coinvolge, nelle ultime pagine, la riflessione dell’introverso Ricciardi su Napoli come non-spazio, non-tempo: forse atto mancato.



NOTE
1 Cfr. P. Nora, Présentation à Les lieux de mémoire, 3 volumes, Paris, Gallimard, 1984, vol. I, pp. 10 sgg.^
2 Cfr. F. Mancini, Il Teatro di San Carlo 1737-1987. La storia, la struttura, Napoli, Electa Napoli, 1987.^
3 I Teatri di Napoli. Secolo XV- XVIII, Napoli, Pierro, 1891.^
4 B. Croce, Un prelato e una cantante del secolo decimottavo. Enea Silvio Piccolomini e Vittoria Tesi. Lettere d’amore, Bari, Laterza, 1946.^
5 S. Procida, I Teatri, in Napoli d’oggi, Napoli, Pierro, 1900, pp. 361-386.^
6 P. Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, con una notizia intorno alla vita dell’Autore scritta da Gino Capponi, Tomo I, Torino, L’Unione Tipografico Editrice, 1860, p. 76.^
7 G. Morelli, Castrati, primedonne e Metastasio nel felicissimo giorno del nome di Carlo, in Il Teatro di san Carlo 1737-1987. L’opera, il ballo, a c. di B. Cagli e A. Ziino, Napoli, Electa Napoli, 1987, pp. 33-59.^
8 Cfr. E. Sala Di Felice, Metastasio. Ideologia, drammaturgia,spettacolo, Milano, Angeli, 1983; e F.C. Greco, Libretto e messa in scena, in Il Teatro di San Carlo, Napoli, Guida, 1987, al Cap. La parola metastasiana.^
9 R. De Simone, Il mito del San Carlo nel costume napoletano, in Il Teatro di San Carlo, cit., pp. 413-441.^
10 Si veda la puntuale ricostruzione della vicenda testuale in M. Couty, Introduction à V. Denon, Voyage au Royaume de Naples, préface de P. Rosenberg, Paris, Perrin, 1997, pp. 11-40.^
11 V. Denon, Voyage…, cit. , pp. 77-79.^
12 Viaggio d’artista nella Napoli del Settecento. Il diario di Thomas Jones, a c. di A. Ottani Cavina, Milano, Electa, 2003, pp. 146-147.^
13 W. Goethe, Viaggio in Italia, <1786-1788>, Firenze, Sansoni, 1980, p. 202.^
14 P. Colletta, Storia…, cit. pp. 200-201.^
15 Stendhal, Rome, Naples et Florence, ed. de P. Brunel, Paris, Gallimard, 1987, pp. 311-350, passim.^
16 V. Cuoco, Al Signor Antonio Niccolini Architetto dei Reali Teatri, «Monitore delle due Sicilie», 18 dic. 1811, in Scritti giornalistici, a c. di D. Conte e M. Martirano, 2 voll., Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 1999, vol. II, pp. 396-398.^
17 G. Folena, L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi, 1983, pp. 342-351.^
18 Sua Eccellenza San Carlino. Macchiette e scenette, Roma, Società Ed. Nazionale, 1901, pp. 54-61.^
19 S. di Giacomo, Napoli, figure e paesi, in Opere. Il Teatro e le cronache, a c. di F. Flora, Milano, Mondadori, 1967. pp. 474-480.^
20 P. Isotta, La Musica, in Real Teatro di San Carlo, a c. di C. de Seta, Milano, Franco Maria, Ricci, 1987, p. 126.^
21 È il caso, ad es., della parodia della Virginia del Mercadante: cfr. Virginia e madama Virginia (1866), in Tutto Petito, a c, di E. Massarese, Napoli, Luca Torre ed., 1978, II tomo, pp. 13-108. Sul rapporto in diretta fra parodia e modello, e sui cantanti celebri che accorrevano al San Carlino per assistere alla propria caricatura, si veda Vita artistica di Antonio Petito dal 1822. Sino al 1870. Autobiografia, in Tutto Petito, cit., tomo I, pp. 37-59.^
22 Napoli, presso Perrella ed., MCMVIII.^
23 M. Serao, Addio, amore!, Milano, Treves, 1914. E cfr. Castigo, Milano, Barion, 1932, pp. 357-397.^
24 Se ne veda la storia redazionale in G. Galasso, Nota del Curatore, in B. Croce, I Teatri di Napoli. Dal Rinascimento al secolo decimottavo, Milano, Adelphi, 1992.^
25 Cfr, M. Praz, Un ritratto di Giuseppina Grassini, in Motivi e figure, Torino, Einaudi, 1945, pp. 66-72. E si veda B. Croce, I Teatri di Napoli. Secolo XV- XVIII, cit, pp. 644-647.^
26 R. La Capria, Ferito a morte, Milano, Mondadori, 1984, p. 146.^
27 E. Striano, Il resto di niente, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 1997, p. 77.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft