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I sentieri dell'inferno
di Fausto Cozzetto
Già a pochi mesi dall’uscita della prima edizione (gennaio 2008, editore Rizzoli) il romanzo di Luigi Guarnieri I sentieri del cielo, dedicato al brigantaggio cosentino post-unitario, appare come una ben riuscita operazione editoriale, frutto – e non è certo da stupire, trattandosi di una importante casa editrice – di una sicura conoscenza delle aspettative dei lettori italiani, in particolare di questo genere letterario. Libri aventi come argomento temi legati alla grande criminalità organizzata, espressione di gravissime patologie sociali del presente o anche del passato, si sono imposti, in questi ultimi anni, all’attenzione della critica conseguendo un notevole successo di pubblico, come ad esempio Gomorra di Roberto Saviano. L’opera di quest’ultimo, da cui di recente è stato tratto un film, incentrata sulla camorra dei nostri giorni, oscilla tra un piano propriamente narrativo tipico del romanzo e quello dell’inchiesta e resoconto giornalistico, come ha sostenuto Elisa Novi Chavarria («L’Acropoli», novembre 2006). Più o meno analogamente, il libro di Guarnieri, pur proponendosi, al dire dello stesso autore nella Nota finale, come «un romanzo, non [come] un testo storico», ha cercato «ugualmente di raccontare i fatti e lo sfondo sociale che li ha generati col massimo rispetto delle fonti, che sono numerosissime e della natura più eterogenea».
Parte della critica ha espresso un giudizio positivo sull’opera di Guarnieri e il favore del pubblico sembra essere testimoniato dal fatto che ad appena un mese dalla prima edizione la Rizzoli abbia prodotta la seconda. Il lavoro appare caratterizzato da soluzioni narrative che riprendono, in maniera abbastanza prevedibile, gli schemi della guerra tra pellirossa ed esercito americano nel Far West, il cui contesto storico, a metà Ottocento, può apparire in qualche modo vicino a quello del brigantaggio post-unitario meridionale. Ma di tanta letteratura, americana e non, dedicata alle vicende del Far West, trasposta con notevole successo di pubblico nella cinematografia mondiale del XX secolo, la scelta narrativa del Guarnieri sembra avere preso a modello quella dei primordi cinematografici del genere western, al meglio degli anni Cinquanta o degli anni Sessanta del secolo passato. L’esercito italiano che reprime nei primi anni post-unitari l’insorgenza del brigantaggio è certamente rappresentato nel romanzo di Guarnieri in maniera più credibile e meno retorica di quanto non avvenga per l’esercito americano nei film di John Ford. Eppure la società calabrese rappresentata nel romanzo nella sua stratificazione presenta i connotati puramente violenti dei selvaggi urlanti che attaccano la diligenza in Ombre rosse. Guarnieri predilige qui la descrizione accurata della violenza perpetrata sugli esseri umani, la quale viene offerta abbondantemente al lettore, con particolari truculenti, tali da coinvolgere le più forti pulsioni distruttive del pubblico che predilige questa narrativa. In una delle pagine centrali del libro, il capitano Spada, un ufficiale dell’esercito italiano, viene catturato dalla banda di Evangelista Boccadoro. Trattato con un certo riguardo dai briganti, assiste alla scena di una vendetta del capobrigante nei confronti del figlio di un proprietario silano che non aveva ceduto ai suoi ricatti. Il giovane viene legato a un palo,
alcuni energumeni avvinazzati si avvicinarono a turno ad Antonio Pietramala, semisvenuto, e gli sventolarono sotto il naso mazze, accette, spiedi e scuri. C’erano anche le due giovani donne vestite da mandriano, che danzando selvaggiamente nella polvere lo ricoprirono di sputi e di insulti […] poi il capitano Spada vide i banditi spostarsi di colpo mentre Boccadoro si avvicinava al palo portando a tracollo una borsa di pelle di gatto. Tirò fuori dalla borsa un paio di forbici, un martello e un pugnale col manico d’osso filettato d’argento e tempestato di gemme. […] poi afferrò l’orecchio destro del ragazzo e lo fece saltar via con le forbici […] Antonio Pietramala gridò ma Boccadoro gli stampò una martellata sulla mano destra […] il capitano Spada vide Boccadoro prendere il pugnale, piantarlo nell’orbita sinistra del ragazzo e rotare a fondo la lama. Dopodichè manovrò il manico d’osso con la perizia di un macellaio, e quando sollevò il pugnale il bulbo oculare era infilzato sulla punta della lama. (p. 129)

La pagina successiva contiene particolari ancora più orripilanti, che giungono fino alla dissoluzione fisica del giovane figlio del proprietario calabrese.
Dunque un romanzo dalla parte dei “Nordisti”, come li chiamava, anni fa, Gaetano Cingari? Una ripresa, pur a distanza di un secolo e mezzo, di quella letteratura d’appendice sostenitrice della causa dell’unità italiana. fiorente negli anni a ridosso del brigantaggio, secondo quello che un paio di decenni fa ha documentato Raffaele de Magistris1, in cui il brigante veniva rappresentato come un folle che squartava, si nutriva delle interiora delle sue vittime e, naturalmente, stuprava fanciulle?
Niente affatto, perché i comportamenti dei soldati, “nordisti” e italiani, non sono meno disumani nell’usare torture efferate e omicide per ottenere informazioni sui briganti da pretesi manutengoli di costoro:
Il maggiore Albertis gli strofinò la punta della fiaccola sotto i piedi . Si sentì uno sfrigolio, poi dalla carne ustionata si sprigionò un odore acre, penetrante […]. Il maggiore Albertis lanciò uno sguardo d’intesa al tenente Gaetani. L’ufficiale medico, gli fece capire che poteva proseguire […] il fuoco divorava i piedi dell’uomo con uno scricchiolio monotono, finché non rimasero che un sottile pennacchio di fumo e due moncherini carbonizzati.

Contro le aspettative dell’ufficiale italiano il guardaboschi calabrese, sospettato di collusione coi briganti, non parla. Allora il maggiore accende con la fiaccola i capelli del malcapitato fino a che la sua testa viene carbonizzata (pp. 27-28).
E’ da chiedersi a quale tradizione letteraria e storiografica su quel brigantaggio si rifaccia, perciò, il Guarnieri, anche se nella sua Nota conclusiva, egli sostiene di avere «consultato un imponente numero di volumi e documenti […] dagli scritti preziosi e ormai quasi introvabili di G.B. Maone sull’etnologia e il folklore delle montagne silane alle note dei militari dell’esercito italiano e ai diari dei numerosi sequestrati dai “briganti”».
Ora, con tutto il doveroso rispetto per le letture etnologiche del Guarnieri, le opere del Maone – un direttore didattico che ha profuso la sua passione civile nella scuola e, al di fuori di essa, come tanti studiosi locali innamorati del “natio loco”, in questo caso Savelli e il contesto silano – ha scritto molto su di esso, ma con risultati alquanto modesti, una cinquantina di anni fa. I suoi lavori, puramente descrittivi, non sono affatto introvabili, bensì disponibili nelle biblioteche comunali calabresi e in quelle private di Savelli, in provincia di Crotone, e degli altri centri dell’antico Marchesato, e sono quasi dimenticate poiché appartengono a un universo letterario senza tempo, come i centoni di argomento sei-settecentesco, che ugualmente costituiscono le fonti privilegiate di questo tipo di lavori. Così, se da una descrizione delle pietanze servite in un matrimonio di Savelli, si apprende, non senza sorpresa, che tra le prime vi era «pastina in brodo», i temi più accattivanti sono quelli caratterizzati da un eros casereccio ammantato da pretese letterarie, del tipo rappresentato dalla ripresa di proverbi come «Tira cchiứ nu pielu a ll’iertu ca nu sciartu a llu pendinu (tira più un pelo di donna in salita che una grossa fune in discesa)»2.
Quanto alle descrizioni ambientali del Guarnieri, il meno che si possa dire è che le sue conoscenze del territorio che fa da sfondo al suo lavoro appaiono molto approssimative. Le sue invenzioni degli itinerari di marcia di un drappello di militari italiani tra i villaggi della provincia cosentina lasciano oltremodo perplessi. Ci si può ben chiedere perché nella pagina d’apertura del suo romanzo l’autore faccia peregrinare il reparto del già famigerato, per il lettore di queste note, maggiore Albertis, da sud-est dell’altopiano silano, tra il fiume Mucone e la Serra di Buda, in primo luogo verso nord-ovest (Santa Sofia d’Epiro), per risalire per nord-est (San Demetrio Corone) e sempre più verso nord-est verso San Cosmo Albanese, il cui territorio lambisce la piana di Sibari. Pattugliamento del territorio, è dato da pensare: ma la sua missione doveva portare l’Albertis al villaggio di Pagania di Vallone Cupo, dove era previsto un incontro con un suo superiore per ricevere istruzioni sulla cattura del capobrigante Boccadoro, la cui vicenda è lo sfondo di tutto il romanzo. Ma Pagania è frazione del comune di Acri e si trova in direzione opposta a quella seguita dal maggiore, che si dirigeva, invece, verso la Marina di Corigliano. Per giungere a Pagania l’ufficiale perciò avrebbe dovuto tornare indietro, in direzione sud-ovest, compiendo con i suoi uomini un viaggio di più di un centinaio di chilometri, stupidamente e pericolosamente percorsi senza un itinerario prestabilito. E, al contrario di quanto disattentamente scrive il Guarnieri, il regio esercito piemontese (poi italiano) aveva una solida tradizione logistico-militare, ed era espressione di uno stato-caserma (il dominio sabaudo), non a caso da alcuni confrontato, per questo, addirittura con la Prussia di Federico II.
Nelle pagine del libro l’attenzione già ai dati topografici del territorio appare scarsa. Ma si noti la non meno scarsa attenzione verso le dotazioni civili di cui i villaggi e gli ambienti qui descritti sarebbero dotati. Guarnieri parla, ad esempio, di strade e cimiteri, presso uno dei quali fa svolgere una scena centrale, come si vedrà, del romanzo. Le une e gli altri, all’epoca di cui egli tratta, nei centri silani in cui è ambientata la storia erano inesistenti. Nel centro maggiore del territorio sopra descritto, l’Acri di Vincenzo Padula, gli esponenti dei gruppi politici e intellettuali locali più avanzati, tra cui lo stesso Padula, sostenevano con le loro lotte la modernizzazione attraverso l’investimento in queste dotazioni civili, senza, però, riuscire a superare l’inerzia politica e finanziaria dello Stato borbonico. Chi scrive ha avuto modo di notare che
quel partito della modernizzazione si batte altresì, per tutto l’ultimo ventennio, per collegare il centro urbano (Acri) ai centri nevralgici delle sue attività produttive, la Sila Greca, di Là Mucone, i villaggi albanesi di S.Sofia e S. Demetrio e, ovviamente, il capoluogo provinciale. Si tratta, inoltre, di far giungere presso i grossi insediamenti di coloni che si situano, a di Là Mucone, Vallone Cupo [Pagania], a Gioia anche forme di assistenza religiosa con la costruzione di chiese rurali nelle adiacenze delle più importanti nuove aggregazioni coloniche. Ciò sia per sostenere la formazione spirituale dei contadini che vi abitano, sia per attrarvi nuovi insediamenti di famiglie coloniche, anche attraverso una politica di censuazioni a titolo gratuito di fondi del demanio comunale, con il solo obbligo di pagare le spese fondiarie sostenute per quei fondi dal comune di Acri. Nel 1845 il decurionato fa pressione sull’Intendenza perché sia fatto obbligo ai proprietari del luogo di cedere il terreno necessario per la costruzione delle chiese e contribuire alle spese di edificazione, nonché per far gravare sulla chiesa di Santa Maria Maggiore l’obbligo di celebrazione delle funzioni liturgiche nelle nuove strutture ecclesiastiche extraurbane. Ma l’intendenza si oppone poiché sostiene che non si possono obbligare i proprietari a questa contribuzione 3.

Quanto ai cimiteri, le resistenze rispetto alla realizzazione di una rete viaria erano ancora più forti, perché alimentate dai pregiudizi degli ecclesiastici e di gran parte della popolazione, che non ne voleva proprio sapere di essere sepolta fuori da una chiesa4, nonostante le periodiche epidemie coleriche, che l’affliggevano e che avevano costretto l’amministrazione borbonica a emanare leggi perché i cimiteri extraurbani si facessero, ma a spese delle popolazione locale. Quando, poi, vi era la volontà politica da parte del ceto dirigente locale, sopraggiungeva, perciò, l’inesistenza di finanziamenti pubblici. Il sindaco di Belsito, un comune presilano, così scriveva, a rischio di carcerazione, all’intendente della provincia di Cosenza, nel 1842:
io e questo decurionato vorremmo eseguire gli ordini superiori per riguardo alla costruzione del camposanto impressa comune; a tale oggetto ci siamo riuniti e lo stesso ha deliberato come da verbale che allego. Mi do il dispiacere dirgli che non sono pretesti e scuse, le cause di impotenza e miseria , ma evidenze di fatto per le gravezze de pesi che soffre. Eccoli: peso fondiario annuo ducati 1.170; ruolo di transazione ducati 285,70; per le cantaia di sale ducati 480; per tabacchi circa ducati 100; per carte di passaggio ducati 30 […]. Quindi questo comune paga annualmente la somma di ducati 2.075 e più; oltre la carta da bollo, registro ed ipoteche; nel mentre prima del Decennio [francese] tutti i pesi fiscali: testatico, industria e tutt’altro estendevano a soli ducati 600 di più le rendite che mancano per causa delle intemperie. È la popolazione quasi generalmente composta tutta di contadini. Si veggono costretti emigrare dal comune diramandosi in Salerno, Sicilia ed altre province del Regno, a solo fine di procacciarsi il pane per necessario vitticare. Le spese comunali, mediante una rigorosa economia, si sono ridotte quasi a meno del necessario. Le pubbliche fontane, le strade, la chiesa parrocchiale ed il campanile particolarmente richieggono accomodi urgentissimi da più anni, e non si è potuto accorrere a veruna manutenzione per mancanza di mezzi. Ecco lo stato miserabile in cui geme questa popolazione: ed ecco il verace motivo che ci fa credere sordi alle premure de superiori […]5.

Dispiace dirlo, ma l’ambiente urbano e rurale descritto dal Guarnieri, è forse quello dei western, ma si presenta come uno scenario di cartapesta per vicende ambientate nella Calabria di metà Ottocento.
Tutto questo è solo la buccia della vicenda narrata nel romanzo storico di Guarnieri. Per altro verso, la gravità delle disattenzioni (come le abbiamo definite) fino ad ora evidenziate del giovane intellettuale scade a peccato veniale, e perciò di scarso conto, quando si giunge a ciò che riguarda il dato “storico” sulla cui base egli fa muovere i suoi personaggi e che a un certo punto, giunto quasi al termine della sua narrazione, sente il bisogno di rivelare al lettore.
Lasciamo stare le non proprio originalissime reminiscenze letterarie, alla Nievo, con cui introduce un vecchio ultracentenario che il capitano Spada, un altro dei militari italiani, incontra nel cimitero di Cerenzia. Da bravo aedo del suo tempo, il borghese-contadino (ha un badile nelle mani, ma veste panni, sia pure sdruciti, di evidente consuetudine borghese), da intellettuale organico della sua Calabria, parla un italiano perfetto e non solo offre una ricostruzione del passato, bensì si lancia in una inevitabile previsione (nefasta) del futuro. Ed è questo il nocciolo delle convinzioni storiche, politiche e civili che Guarnieri offre al lettore:
Da queste terre in rovina erano passati tutti. Greci e romani, arabi e normanni, svevi e angioini. Poi alla fine, per ultimo, era arrivato persino la stato italiano. Tutti famelici come battaglioni di locuste, tutti nocivi come una malattia mortale. Chijcate juncu ca la china passa,dicono i saggi dei paesi […]. Per secoli e secoli, nessuno si era mai sognato di alleviare la miseria e l’ignoranza della popolazione e così in fondo mai nulla era cambiato, e nulla sarebbe cambiato in futuro[…]. Il popolo rifiuta l’Unità d’Italia, perché ha portato solo tasse, servizio militare e galera in un paese maledetto.

Quando il capitano gli chiede se conosce Boccadoro, nativo appunto di Cerenzia, questo Omero del brigantaggio calabrese riprende senza esitazione il suo discorso e celebra il suo “grande” conterraneo:
Non si era mai lasciato imbrogliare dalle autorità dello Stato italiano, che gli chiedevano continuamente di intavolare trattative di resa promettendogli grossi sconti giudiziari. Non aveva mai voluto nella sua banda ufficiali stranieri, spagnoli o austriaci o francesi, che gli avrebbero ordinato cosa fare e come e perché. In realtà non aveva mai combattuto per i comitati reazionari e legittimisti e nemmeno per i Borboni, anche se fino al dicembre 1862 aveva ricevuto un assegno (sic) mensile dal governo pontificio per conto di Franceschiello, allo scopo di mantenere in agitazione le province di Catanzaro e Cosenza. Ma se qualche volta aveva sventolato gli stendardi dei Borboni l’aveva fatto solo per ottenere finanziamenti, denaro e viveri. Si sarebbe schierato anche al fianco del diavolo, se il diavolo avesse promesso di distribuire ai bifolchi le terre rubatre dai grandi proprietari.

Ma la guerra del novello Robin Hood silano,
come tutte le altre guerre, l’avrebbero vinta i nemici dei bifolchi della Sila. I baroni e i galantuomini che rubavano e usurpavano le terre demaniali, lo stato italiano che li appoggiava e opprimeva il popolo privandolo della libertà. E soprattutto loro, i militari dell’esercito piemontese, che erano il braccio armato del nuovo potere. Un potere criminale[…].

Poi l’aedo calabrese diventa profeta:
La guerra vera, però quella che sarebbe durata nel tempo, alla lunga lo stato italiano l’avrebbe persa. Perché il Sud non poteva diventare una parte d’Italia solo grazie alla forza delle armi, e comunque non avrebbe mai fatto parte della nuova nazione finché il suo popolo fosse rimasto segregato nella miseria e nell’ignoranza, e quindi condannato all’illegalità e al crimine.

Definire tutto ciò come visione storiografica e concetto politico del preteso fallimento dell’unità italiana perché fatta contro i contadini meridionali e, nello specifico, contro i bifolchi silani, è davvero, questa volta, un peccato mortale. Guarnieri mette insieme un coacervo di osservazioni che confondono in maniera inesplicabile una idea immobile della storia del Sud con l’idea di un Mezzogiorno sempre preda di conquistatori; esprimono un vittimismo congenito che giustifica la passività e la mancanza di vita morale da parte dei “vinti meridionali”, ammesso e non concesso che sia solo questa la storia civile del Regno, come colpa esclusiva dei vincitori; presumono di profetizzare ex post e senza appello la fatale liquidazione di tutto il patrimonio risorgimentale e una inevitabile e, per Guarnieri, attuale disunione d’Italia.
E’ questa, a ben vedere, la motivazione ultima di un’opera che lascia oltremodo perplessi per il suo impianto narrativo, per non parlare dei luoghi, dei fatti e delle forze politiche e culturali che effettivamente furono il teatro e i protagonisti del brigantaggio post-unitario e della lotta con la quale lo si piegò. Guarnieri si candida, invece, senz’altro a partecipare, nei termini sopra esposti, all’assai mediocre dibattito politico sulla disunità d’Italia, passato, attraverso il nuovo autonomismo siciliano dei Lombardo, più che discutibile imitazione dell’ormai alquanto datato indipendentismo leghista, al coraggio “ciclopico” di un sindaco calabrese, esibitosi questa estate nel martellare fino a romperla l’insegna che nel ricordo di Garibaldi indicava la piazza principale del suo comune, sotto gli occhi, stupiti da tanto coraggioso ardore, dei media televisivi nazionali. Il “romanzo-verità” di Guarnieri sintetizza efficacemente i motivi ispiratori di questo calderone di luoghi comuni, che impazzano pure sulla rete web, e che sono quelli di un localismo esasperato, ammantato di “cultura meridiana” e di una ideologia senza idee, ruotante intorno al così mal predicato superamento dell’identità nazionale. Il tutto, inoltre, nella prospettiva delle celebrazioni del non lontano centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale.
In realtà, il lavoro di Guarnieri ha poco o nulla a che fare con l’ampia storiografia italiana e straniera relativa al fenomeno del brigantaggio e del banditismo, e in particolare sui fenomeni di protesta sociale post-unitari. Il che è nel suo diritto di romanziere, e non si presta ad alcuna discussione, ma non è più nel suo diritto quando egli scrive con la presunzione di lanciare un messaggio storico-politico ammantato dei panni della riscoperta e ristabilimento di una verità storica. Gli studi sul fenomeno saranno stati certamente consultati dall’autore – che cita nella Nota il Molfese6– ma a me pare che non ne abbia tratto il dovuto conto sul piano della comprensione del carattere molteplice e complesso del fenomeno, soprattutto, poi, rimanendo del tutto al di fuori delle più accreditate e credibili interpretazioni dello stesso fenomeno che ne hanno dimostrato il carattere tutt’altro che nuovo, e anzi cronico e antico, nella storia del Mezzogiorno, legato alla disgregazione e alla contraddizioni tradizionali del tessuto politico-sociale dello stesso Mezzogiorno7. Il che – giova ripeterlo – va bene per il romanziere se risponde a esigenze della sua rappresentazione artistico-letteraria, ma non va più bene per il romanziere che si atteggia a storico ed evangelista di una presunta verità, che per di più non aggiunge nulla a cose dette e ridette e ben risapute dai giorni dei fatti del romanzo a oggi. E a fronte di ciò resta il fatto delle diversità anche antropologico-culturali, come spesso allora furono sentite, fra il Sud e il Nord d’Italia,e che il brigantaggio rappresentò anche da questo punto di vista una delle difficoltà più gravi. Resta che le mene borboniche e le congiure clericali e reazionarie non bastano a spiegare l’intenso pullulare di agitazioni e di lotte antiunitarie in quegli anni. Resta che l’azione del governo di Torino, per il modo come procedette, spesso non illuminati da grande intelligenza delle cose di cui si trattava, fu, a suo modo, un oggettivo incoraggiamento di tali agitazioni e lotte. Resta che vi ebbero parte in varie ragioni e maniere gli atteggiamenti e i comportamenti di vecchie e nuove classi dirigenti e proprietarie del Mezzogiorno. Resta soprattutto che si rivelarono anche allora i nodi di problemi e drammi di antica sedimentazione nel Mezzogiorno, e già rivelatori di storiche e insuperate caratteristiche della storia di queste regioni. Ma resta che «la ragione di una storia superiore condannava, comunque, il brigantaggio alla sconfitta radicale, che ad esso in pochi anni toccò»8.
Superiore questa storia e così già allora la intese Vincenzo Padula, un intellettuale di Acri, e tra i maggiori di quel Mezzogiorno, che soffrì e patì moltissimo, come tanti altri meridionali, per il distacco dalla tradizione della patria napoletana nell’adesione alla patria italiana. Quella patria divenne un Stato moderno e liberale nell’Europa del secondo Ottocento e contribuì non poco all’avanzamento liberale e democratico e al progresso materiale del paese, di tutto il paese, malgrado l’insorgere, ben presto, della “questione meridionale”. Poi, quando l’Italia fascista prese altra strada, vennero tempi grigi e tempi neri per l’Italia e per l’Europa; e le radici di quei tempi grigi e neri hanno non poco in comune con i valori che si ritrovavano nei sentieri dell’inferno, nella metafora proposta dal libro di Guarnieri.





NOTE
1 Idem, La Letteratura in Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno (1860-1870), Catalogo - Mostra presso Museo Diego Aragona Pignatelli Cortes - Napoli - 30 giugno / 18 novembre 1984, Gaetano Macchiaroli editore, Napoli 1984.^
2 P. e G.B. Maone, Savelli nella tradizione e nella storia. Vol. secondo. Folclore silano, Napoli, Laurenziana, 1966, p. 141.^
3 F. Cozzetto, Politica e amministrazione ad Acri ai tempi di Vincenzo Padula, in Dipartimento di Storia Università della Calabria, «Miscellanea di studi storici», 12 (2002-2003), pp. 96-97.^
4 Cfr.. Ivi, p. 96.^
5 Citato in R. Sicilia, Istituzioni, economie,società. Belsito, Cosenza, Editoriale Progetto 2000, pp. 73, 75.^
6 F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1966².^
7 Si veda ad esempio per questo G. Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del Sud, in «Archivio Storico per le province napoletane», n. CI, a. XXII, terza serie, 1983, pp. 1-16.^
8 Ibidem.^
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