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La Cina, i viaggi, le scienze e la modernità
di Giuseppe Galasso
“La flotta dei tesori” di History Channel, noto canale storico televisivo, è un programma dedicato ai viaggi della marina cinese sotto l’imperatore (uso, per tutti i nomi che seguono, la vecchia grafia) Yong-lo (1402-1424,) e Hsüantê (1425-1435) della dinastia Ming. Si fa notare che cent’anni prima di Colombo (vuol dire prima che gli europei si dessero alle grandi navigazioni; ma che c’entra?; e poi non è del tutto esatto: gli europei erano già alle Canarie e alle Azzorre, e da tempo stavano circumnavigando l’Africa alla ricerca della via delle Indie) i cinesi hanno attraversato il Pacifico e l’Oceano Indiano e sono arrivati al Golfo Persico, al Mar Rosso, e di qui alle coste della Somalia e del Tanganika, eseguendo fra il 1405 e il 1430, al comando di un valente eunuco, Cheng Ho, ben sette viaggi. Si afferma che le navi cinesi erano più grandi e tecnicamente più avanzate di quelle europee. Si esaltano i risultati dei viaggi e lo spirito che li ispirava: uno spirito non volto, come viene definito quello europeo, alla conquista, colonizzazione e sfruttamento, bensì a fini di commercio e di informazione. Poi si dice come dopo Hsüan-tê la Cina rinunciasse alla potenza marinara, per cui, se così non fosse stato, la storia dei rapporti fra europei e cinesi e la storia del mondo sarebbero andate diversamente. Con una flotta cinese come quelle di Cheng Ho, ci si chiede, avrebbero potuto i portoghesi nel ’500 stabilirsi a Macao?
Si potrebbe dire, all’inglese, che si tratta di amenities. Curato da cinesi, il programma di History Channel risponde alla costante preoccupazione dei cinesi, fortemente accresciutasi negli ultimi anni, di rivendicare un proprio primato in ogni campo dello scibile e delle attività umane. È quello che accade immancabilmente quando un paese, un popolo, un regime conoscono grandi fasi di crescita e di affermazione sulla scena del mondo e impera l’esigenza di mostrare a tutti, innanzitutto al proprio interno, che la floridezza e i successi del presente sono la conferma di destini già evidenti nel passato. Lo stesso accade, peraltro, anche, assai spesso, quando si marcia sull’opposto sentiero di una decadenza o di un rischio più o meno reale di declino e di soggezione, e l’esaltazione del passato non ha soltanto l’ufficio di esaltare e sollecitare ulteriormente le energie e gli entusiasmi in atto, bensì anche quello di compensare e, in qualche misura, se possibile, di invertire, almeno a livello psicologico gli avversi destini del presente infelice o del temuto futuro. Come è chiaro, non è questo secondo il caso della Cina attuale, che attraversa la fase che tutti sanno di trionfalismo, vivendo l’odierna ennesima giovinezza della sua storia plurimillenaria. Le rivendicazioni dei primati e delle glorie cinesi hanno assunto perciò il ritmo incalzante, di cui il programma di History Channel è una testimonianza minore, ma non meno significativa.
Quella dei grandi viaggi ne è un caso esemplare. Si rivendica, fra l’altro, alla Cina anche la scoperta dell’America, perché navi cinesi sarebbero approdate sulle coste orientali dell’America meridionale molto tempo prima di Colombo a Hispaniola, senza rendersi conto che, chiunque sia giunto in America prima del 1492, è come se non vi fosse mai stato, perché l’unica scoperta americana che fece epoca e cambiò la storia del mondo fu quella, appunto del 1492 e, soprattutto, senza rendersi conto della rivoluzionaria modificazione che Colombo apportò all’esplorazione del mondo per il modo come sostenne e giustificò il suo tentativo, ossia fondandolo sull’ipotesi scientifica della rotondità della Terra.
Le imprese navali cinesi di cui parla “La flotta dei tesori” sono, comunque, note e apprezzate da sempre. Tecniche e viaggi hanno poi ricevuto anche di recente, in Cina e altrove, varie e importanti conferme archeologiche, come anche History Channel fa vedere. Questo, dunque, non è in alcun modo in discussione. Dà, invece, da riflettere il modo in cui queste cose sono presentate: un modo che si riassume in un confronto grossolano fra l’agire e la storia dei cinesi e quelli degli europei, in cui i cinesi fanno sempre la parte buona e brillante, gli europei la parte cattiva e opaca di prepotenti arricchitisi con la violenza; i cinesi sono sempre i più avanzati nella scienza e nelle tecniche e i più umani e tolleranti nei rapporti con gli altri, i più grandiosi nelle concezioni e nelle realizzazioni.
Le cose stanno davvero così? Molto se ne può dubitare già seguendo il programma di History Channel. Vi si spiega, infatti, che il compito di Cheng Ho era di far riconoscere ai sovrani dei paesi toccati dalla “flotta dei tesori” (le “navi dei gioielli”, come traducono altri) la superiorità cinese e ottenere, con ciò, il pagamento di un tributo. Si ricorda che, essendosi un sovrano dello Sri-Lanka (che per questo viene gratificato dell’epiteto di “insolente”) rifiutato di pagare tale tributo, Cheng Ho sbarcò le sue truppe e impose il tributo dopo una battaglia ritenuta la maggiore combattuta dai cinesi fuori della Cina. I tesori o gioielli del nome dato alla flotta evocavano, appunto, le ricchezze raccolte in tali viaggi.
Di disinteresse non è, quindi, il caso di parlare. Si sa bene che quei viaggi miravano ad arricchire il tesoro imperiale e servivano alla grande politica di potenza, che impose il predominio o il protettorato cinese nell’Asia sud-orientale, portò alla conquista alcuni paesi e obbligò altri a pagare un tributo (anche il Giappone). Si sa pure che ai viaggi si rinunciò perché apparivano costosissimi e senza benefici economici corrispondenti, benché aprissero nuove vie al commercio e all’emigrazione cinese verso l’Asia sud-orientale, mentre si riteneva che la Cina, forte della sua potenza continentale, non avesse bisogno di simili iniziative per affermare la sua posizione e mantenere il prestigio e la sicurezza desiderati. Si sa che i viaggi erano anche un tentativo di compensare il Sud del paese, tradizionalmente il più attivo nei traffici, del trasferimento della capitale a Pechino. Insomma, come in ogni tempo o luogo, una “normale” politica di espansione economica e di ampliamento di una sfera di influenza politica, sullo sfondo di una particolare struttura politica del grande e complesso paese che era la Cina. Dove l’esibizione della propria forza e la diplomazia non bastavano, puntuale era il ricorso alle armi.
Così, del resto, i cinesi avevano fatto da sempre, costruendo una delle civiltà umane di maggiore importanza e successo, e trasformando le loro etnie originarie in un grande popolo imperiale, che ha sottomesso e assimilato nella cultura e nella lingua quelli di altra etnia e cultura in uno spazio vastissimo, di ampiezza continentale (oggi, Tibet compreso, oltre 9,5 milioni di Kmq.), in cui i non assimilati sono attualmente meno dell’8% dell’enorme popolazione del paese. E così hanno fatto tutti i popoli costruttori di imperi: persiani o macedoni, romani o arabi, spagnoli o portoghesi, olandesi o inglesi, francesi o russi; e sempre nella politica degli imperi la violenza si è accompagnata ai processi di assimilazione, quando non di genocidio, dei popoli sottomessi, e la grandezza imperiale esaltata, a giusta ragione, per gli imperi di maggiore rilievo storico presenta un’altra faccia della medaglia, che gronda di lacrime e di sangue.
Quando, perciò, si sente parlare della mite politica di tolleranza di questo o di quello dei grandi imperi del passato, accade spesso che non si sappia ridere o piangere. I romani, si dice, erano tollerantissimi in tutto, religione compresa, poiché lasciavano che qualsiasi dei popoli da essi dominati adorasse i propri dei, ma era notoriamente meglio non mettere alla prova il loro spirito di tolleranza, e, al caso, la guerra preventiva di annientamento, oltre che di dominio, rientrava appieno nella loro pratica imperiale. Gli arabi in breve tempo imposero il loro dominio, la loro lingua e la loro religione dal Pacifico all’Atlantico, in un’area vastissima, abitata da popoli di grande e antica civiltà e di tutt’altra lingua e religione. Lo fecero distribuendo fiori e ramoscelli di olivo nei paesi conquistati? Quanto ai turchi, chiedetelo ai popoli balcanici o agli armeni. E bisognerebbe domandarlo anche alle popolazioni cristiane rivierasche del Mediterraneo, vittime per secoli di terribili incursioni, piraterie e razzie dei corsari turchi e degli stati-pirati barbareschi (Tripoli, Tunisi e soprattutto Algeri), che procurarono la morte e la schiavitù di migliaia e migliaia di persone ogni anno: imprese feroci ed estremamente redditizie, per le quali – sia detto per inciso – nessuno ha mai avanzato un po’ di quelle clamorose scuse in cui si prodigano gli europei (quale delicata coscienza!) per le crociate e per altre loro non meno gentili imprese. Interessante sarebbe poi sentire il punto di vista dei popoli dominati dagli aztechi, che fornivano a questi ultimi le vittime per il pio rito dei sacrifici umani da essi praticati, sulla mitezza sprovveduta e ingenua degli stessi aztechi, contrapposta alla feroce, subdola e sanguinaria furia di distruzione e di dominio degli spagnoli.
E si potrebbe, invero, continuare senza limiti, con gli assiri o coi mongoli o con qualsivoglia altro popolo costruttore di imperi. Non è più semplice riconoscere che Adamo ed Eva, Caino e Abele sono progenitori comuni e sempre attivi dell’uman genere, e sembrano intenzionati a restarlo “finché il sole risplenderà sulle sciagure umane”? E ciò tanto più in quanto la pratica della crudeltà, l’intolleranza, lo spirito di dominio e di oppressione, i genocidii fisici e culturali rappresentano ciò che – ahimé! – vi è di più caduco nella storia degli imperi, così come lo sono la loro potenza e i giorni dei loro trionfi e splendori, e ciò che resta di essi nella storia è quel poco o molto di patrimonio costituito dalle opere di ingegno e di civiltà che essi realizzarono, è quel poco o molto per cui contribuirono allo sviluppo delle capacità operative e delle conoscenze dell’uomo e all’incremento dell’ethos e della humanitas nel sentire, nell’agire e nel pensare degli individui e delle comunità umane. Ed è, dunque, su questi punti che si misurano la grandezza e il valore degli imperi, il loro diritto a figurare come tappe epocali nella storia dell’umanità. Ed è su questi stessi punti che quanto hanno fatto gli europei nell’età moderna – diciamo, dal XV al XX secolo – ha nella storia un solo riscontro, ha riscontro solo in quanto fecero le comunità umane che, a partire da meno di diecimila anni fa, e nel giro di qualche millennio, portarono gli uomini a farsi agricoltori da cacciatori e raccoglitori, dalle caverne alle città, dall’uso della pietra a quello dei metalli, dai segni e dall’oralità alla scrittura.
Gli europei si sono avvalsi in questa impresa di contributi fondamentali di altre epoche e civiltà? E chi lo ha mai messo in dubbio? Nessuno, che si sappia, ha mai definito europei i numeri arabi (in realtà, indiani), l’algebra, gli algoritmi, il numero zero, la polvere da sparo, e tante e tante altre invenzioni e scoperte, senza delle quali le tecniche e le scienze europee non potrebbero nemmeno essere immaginate. Né è da pensare che il patrimonio di conoscenze scientifiche e di ritrovati tecnici di altre civiltà, di gran lunga distanziate dalle moderne scienze e tecnologie europee, non possa ancora offrire a queste ultime, oggi, elementi e cose da ritenere, accogliere, sviluppare o modificare in senso utile e positivo per esse, e, dunque, per tutti e per tutto; e già si sa che una gran parte della cultura e della scienza occidentale è appunto in tal senso orientata e si muove. Oggi, però, per una sorta di “sindrome cinese”, sulla quale sarebbe da condurre tutto un discorso ad hoc, il riferimento per questi debiti europei è focalizzato, si può dire, esclusivamente sulla Cina.
Ciò si deve anche e soprattutto a quel grande studioso che fu il biochimico inglese Joseph Needham. Fu lui a rivendicare un enorme patrimonio prettamente e, in pratica, esclusivamente cinese di invenzioni e di scoperte, fiorito pressappoco fra il V e il XVI secolo, con un’opera semplicemente ammirevole di ricerca e di studio, pubblicata fra il 1954 e il 1995. Rimarrà sempre valido il lavoro qui fatto di dissoluzione dei vecchi pregiudizi circa il carattere non pratico, del tutto casuale, più da ingegnosa curiosità che da seria applicazione a temi e problemi di pratica rilevanza, della scienza e della tecnica in Cina. E fu da quest’opera che sorse la Grand Needham’s Question, ossia la questione relativa alla ricchezza e multiformità dello sviluppo tecnico e scientifico della Cina rispetto al mondo occidentale e al mondo tutto e il debito storico che, conseguentemente, ne nasceva nei riguardi della stessa Cina.
Non è, però, accettabile neppure questo. Bisognerebbe, altrimenti, dimenticare ciò che si deve ai popoli islamici, o agli indiani, tanto per dire. Bisognerebbe dimenticare quel che si deve ai popoli dell’antico Oriente mediterraneo, dalla Mesopotamia all’Egitto e all’Anatolia, che restano (e pochi dubbi sono al riguardo possibili) quelli verso i quali il “cammino della civiltà” (una volta si diceva così) è più in debito. Bisognerebbe dimenticare quel che l’Europa deve, nell’ambito della sua più propria tradizione, al mondo ellenistico-romano, indubbiamente, a sua volta, il più cospicuo deposito di scienza, tecnica, scoperte e invenzioni, insieme con quello cinese, prima del grande balzo della moderna civiltà europea. E a ciò, prima di tornarvi su, aggiungiamo che bisognerebbe, altrimenti, trascurare il fatto che molte volte, e sotto tutti i cieli, e sempre, molte riscoperte o reinvenzioni autonome di conoscenze e di tecniche sono impropriamente attribuite a derivazioni o importazioni da altri ambiti di civiltà.
Questo ultimo punto va, anzi, posto in grande evidenza, poiché porta a considerare quanto occorra essere prudenti e attenti nel ritenere che tutto quanto è stato fatto in Cina sia puntuale precorrimento o vera e propria anticipazione e precedenza cinese rispetto a ciò che appartiene al patrimonio tecnico, scientifico, culturale dell’Europa moderna, nei confronti della quale soprattutto è stata agitata la Needham Question. Lasciamo pure stare il confronto fra ciò che era l’Europa dei secoli XII-XV e la Cina dello stesso periodo. Basterà limitarsi qui a dire che considerare l’Europa di quei secoli come la parente povera del ristrettissimo gruppo delle aree mondiali più avanzate è più che discutibile. Il punto che vogliamo mettere qui in evidenza è che bisogna guardarsi dal cadere nell’inganno di fallaci, per così dire, illusioni ottiche di storia comparata.
Tanto per fare un solo esempio, negli scorsi anni Ottanta il noto storico americano David Landes, specialista di tali questioni, vanificò in maniera convincente l’affermazione di Needham, secondo la quale gli orologi astronomici cinesi azionati ad acqua precorrevano gli orologi orari meccanici europei. Landes toccava appunto il punto a cui accenniamo: un punto che impone di valutare appieno l’autonomia e la specificità di cose così delicate e, al tempo stesso, complesse come sono, fra le altre, quelle della storia culturale e tecnico-scientifica, e impone ancor più di rendersi conto della ben diversa incidenza che elementi eventualmente simili (quando, però, non siano false friends) hanno avuto nel progresso della conoscenza e dell’innovazione (un esempio addirittura classico di ciò è la scoperta americana di Colombo, che davvero ha cambiato la storia del mondo, rispetto alle vantate scoperte precedenti di altri, vichinghi o cinesi che fossero).
Irragionevole, prima ancora che inesatto, è, dunque, parlare della Cina dei secoli V-XVI come un mondo in cui era stato scoperto tutto o quasi quel che c’era da scoprire nella storia dell’uomo prima della “rivoluzione industriale”. Che in quei secoli vi sia stato in Cina un grande accumulo di scoperte e invenzioni (il catalogo redattone da Needham, pur se discutibile in varii punti, è semplicemente impressionante) che mettevano quel paese, specialmente nell’ultima parte di quel periodo, in posizione eminente, da questo punto di vista, nel panorama mondiale è indubbio. Ma nel periodo precedente questa posizione era stata del mondo ellenistico-romano, e nel corso del tempo è stata di varie altre culture e civiltà, mentre negli stessi secoli della massima fioritura cinese in materia hanno visto le grandezze della cultura islamica, bizantina, indiana, di non minore rilievo di quella cinese, anche se nell’ultima parte di quel periodo si può effettivamente parlare di una preminenza cinese (non è un caso, del resto, che qualche studioso abbia potuto proporre all’attenzione di tutti «the Indian Half of Needham Question», e, per fortuna, l’aritmetica storica, contrariamente a quella matematica, consente la divisione di una unità in parecchie metà).
Inesatto, inoltre, quel parlare della Cina nel modo sopra richiamato è anche per qualche altra ragione. Se, infatti, è pura presunzione credere che la moderna civiltà europea sia nata tutta intera, come Minerva armata dal cervello del Giove europeo, non meno irragionevole è credere che il grande patrimonio scientifico e tecnico della Cina sia nato a sua volta tutto intero come Minerva armata dal cervello del Giove cinese. Gli studi posteriori hanno messo in rilievo, ad esempio, il debito o le connessioni cinesi con altre culture, come l’indiana o quella islamica e, attraverso quest’ultima, quella ellenistico-romana. E, naturalmente, ciò non vuol dire che la Minerva moderna non sia indubbiamente figlia legittima del suo padre naturale europeo, così come la Minerva cinese lo è del suo padre naturale.
Altra – e per lo meno altrettanto, se, in effetti, non più, importante questione – questione è perché altrove non si è fatto come hanno fatto gli europei, mettendosi sulla strada rivoluzionaria della modernità. Perché la modernità non è iniziata nel mondo ellenistico-romano (per il quale pure si è parlato di capitalismo, come faceva, fra gli altri, già più di un secolo fa, quell’acuto studioso italiano che fu Giuseppe Salvioli) o in Cina (come si è chiesto il Needham, formulando, così, soprattutto in questo senso la sua Grand Question)? Eppure, quei mondi avevano raggiunto livelli altissimi di uno sviluppo tale da sembrare, nel contemplarli storicamente, che non sia mancato ad essi altro che l’ultimo tocco per entrare trionfalmente nella modernità. Perché, dunque, la loro, al contrario di quella europea, appare, come in molti ritengono, una “storia spezzata” (secondo una definizione ripresa da Aldo Schiavone per il mondo ellenistico-romano) o un destino interrotto per qualche misteriosa, e magari ingiusta, ragione?
In realtà, nulla vi è in ciò di misterioso o di ingiusto. Siamo noi a far nascere un problema in sé insussistente, chiedendoci, ad esempio, con Needham, perché in Cina non si sia passati da Leonardo (scienza e tecnica allo stadio, oltre che dell’intuizione, di procedure puramente empiriche e cumulative) a Galilei (scienza e tecnica allo stadio di una metodologia rigorosamente articolata e inserita in un contesto sistematico progressivamente e cumulativamente integrato con le nuove acquisizioni, a fondamento esclusivamente sperimentale e razionale, e quindi tutt’altra cosa dalla sistematicità che non mancava né nella scienza tradizionale europea pre-moderna, né nelle attività scientifiche e tecniche di altri mondi, fra cui quello cinese, ma su tutt’altri fondamenti rispetto a quelli della scienza moderna). È insussistente perché la storia degli uomini condiziona tutto e profondamente il loro presente, ma trarre il futuro da questo condizionato presente è affare degli uomini. Nulla vi è di fatale o di inevitabile o di automatico. Tutto – progresso, arresto, regresso – è sempre in gioco.
La modernità degli europei non è stata un caso, né una piratesca o fortunata loro appropriazione di qualcosa che stava lì, dietro l’angolo, a disposizione di chi ne profittasse. Il grande problema del quale dibattono tanti acuti e raffinati ingegni del “perché non prima? perché non altrove?” ha una risposta semplice e assai poco sofisticata o raffinata: “perché così non fu”.
La modernità europea è stata il frutto di una volontà, di una seduzione della fantasia e delle passioni, di un’apertura intelligente e attiva alla spinta di molteplici e forti interessi politici ed economici o di altro genere, di uno spirito di iniziativa, di uno sforzo di ingegno e di una fatica, pertinacia e determinazione, per certi versi, eroica. In ciò non entrano per nulla, o davvero assai poco, il cosiddetto “spirito faustiano” o i varii “miracoli”, a cominciare da quello greco, o l’universalismo e altre qualità eccezionali attribuite in esclusiva alla civiltà e alla cultura europea. Vi entrano, invece, largamente anche i particolari caratteri della storia politica e sociale dell’Europa (come proprio rispetto alla Cina già metteva ai suoi tempi in rilievo la robusta riflessione di Carlo Cattaneo). Tutte queste cose altrove o prima non vi furono perché... perché non vi furono. Dove sta il mistero? Perché trovare ragioni, risolutive soltanto nella presunzione di chi le formula, come la schiavitù per il mondo ellenistico-romano (come un po’ già diceva Salvioli) o una particolare etica religiosa e una certa sclerosi sociale per il mondo cinese (come pensa Needham), al fine di spiegare perché in questi mondi non nascesse la modernità? Non lo vollero, non vi posero mente, non lo desiderarono con la passione che queste cose richiedono, non ne sentirono il bisogno, non ebbero così acuto l’ingegno da presentirne o intuirne la possibilità e le potenzialità, ritennero le loro esigenze ragionevolmente soddisfatte al punto al quale erano giunti. Non basta?
Basta, e ne avanza, dice il buon senso storico, cioè il buon senso umano. Il quale (essendo, come diceva con la sua profonda finezza il nostro Manzoni, tutt’altra cosa dal senso comune) consiglia, semmai, di rendersi conto che la modernità europea è stata quella che sappiamo, ma una modernità ellenisticoromana o cinese sarebbe stata diversa. Di poco o di molto, preferibile o non preferibile, non sappiamo, ma certamente un’altra modernità. Perché non era scritto non solo che la modernità vi fosse, ma neppure quale dovesse essere. La nostra è stata così, e neppure essa è sicura per sempre.
Soprattutto, poi, oggi che gli europei appaiono attualmente seduti sul loro passato (per di più, spesso e in gran parte rinnegato), come stanchi di alcuni secoli di frenetica agitazione, e mostrano per segni evidenti di non riuscire né a proseguire la modernità, né a superarla in qualcosa di altro. Sembrano aver deciso di lasciare queste incombenze alle varie Europe nate e fiorite fuori dell’Europa. O, magari, a coloro che alla modernità sono approdati alla scuola degli europei, a cominciare da giapponesi e cinesi. Salvo – si aggiunga – a invidiare e ad avversare coloro che a proseguire o a superare la modernità in questo si provano, in quelle altre Europe che si ritrovano nel mondo, e, per converso, a sentire un irragionevole quanto deleterio senso o complesso di inferiorità verso coloro che al di fuori delle altre Europe si provano a fare lo stesso, siano cinesi, indiani o altri, verso coloro, cioè, per quali la modernità è stata una modernizzazione importata dall’Europa (ma tra costoro, per un riflesso psico-politico e psico-culturale che meriterebbe di essere debitamente approfondito, non figura più allo stesso modo che fino a ieri il Giappone).
Anche, però, nel caso dell’Europa di oggi non vi è alcuna storia spezzata, nessun destino interrotto. C’è soltanto la storia, una storia.
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