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Fra cronaca (Italia 2008) e storia (20 settembre 1870)
di G. G.
Per una volta, non dedichiamo il nostro editoriale a nessuno specifico argomento dell’attualità politica italiana o non italiana.
Materia ve ne sarebbe in abbondanza: innanzitutto, le elezioni americane e almeno la questione del conflitto russo-georgiano (“conflitto” è il termine più proprio per indicare ciò di cui si tratta), fuori d’Italia; e in Italia, tanto per fare solo qualche esempio, la questione della riforma della giustizia, quella del federalismo fiscale, la tenuta del governo in quanto innegabilmente migliore di quel che si prevedeva, la tenuta dell’opposizione (e in particolarissimo modo quella del Partito democratico) in quanto altrettanto innegabilmente più problematica di quel che si prevedeva, le condizioni del Mezzogiorno e in particolare di Napoli e della sua area, il discutibile accordo italo-libico con la sorprendente e incomprensibile clausola di un impegno italiano a non associarsi ad azioni antilibiche degli Stati Uniti e/o della NATO (e clausola tanto più incomprensibile vista la differente interpretazione che se ne è data rispettivamente a Roma e a Tripoli: non sarà che Tripoli ha fatto artatamente introdurre negli accordi una clausola siffatta al fine di avere un pretesto per rompere alla prima occasione favorevole o vantaggiosa il patto appena firmato, liberandosi così degli obblighi nascenti da questi accordi, e/o per sostituirli con patti ancora più vantaggiosi di questi, che lo sono già molto, o per no sostituirli più con nulla, facendo, così, cadere Roma in una trappola di cui vi sono altri esempi nella storia delle relazioni internazionali e della diplomazia?).
Ci limitiamo per ora a dire soltanto che le elezioni americane si prospettano ancora più incerte di quanto era apparso in un primo momento. È già ora disdetto chi pensava a una marcia trionfale di Obama nella scia della straordinaria (e positiva) novità della candidatura di un afro-americano alla Casa Bianca, nonché, se non ancora di più, nella scia del suo felicissimo motto “we can” e delle idee di riforma e di apertura democratica al quale egli l’ha intelligentemente collegato. Ma disdetto già ora è chi aveva pensato che il mondo dei democratici americani non avrebbe retto all’impatto di una candidatura come quella di Obama e si sarebbe immobilizzato largamente da se stesso, o magari addirittura spaccato su un tale contrasto; e disdetti sono, e forse ancora di più, i non pochi che si erano professati sicuri che Mac Cain avrebbe stritolato facilmente il giovane e seducente candidato democratico, che non può vantare quasi nulla di simile, nella morsa della sua lunga esperienza politica e della autorevolezza che vi ha acquistato, per non parlare del prestigio del candidato repubblicano come soldato che ha servito nelle forze armate del suo paese in guerra con un valore e con uno spirito di sacrificio da tutti riconosciuti.
Quanto alla Russia, l’atteggiamento che essa ha assunto nella questione delle regioni a maggioranza russa oggi comprese nella Georgia è destinato ad aprire una fase nuova della politica internazionale, sicuramente in Europa, ma con tutta probabilità anche fuori dell’Europa. Ritorno della Russia a una politica da grande potenza più che continentale? Che la Russia possa tornare al grado di potenza della dissoltasi Unione Sovietica dovrebbe essere escluso dal novero del futuro prossimo prevedibile, e per ragioni talmente evidenti, interne ed esterne, da non abbisognare di essere precisate. oltre che per l’esito della guerra, fortunatamente rimasta sempre fredda, ma non per ciò meno epocale e grandiosa, che si combatté fra Stati Uniti e Unione Sovietica per oltre quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Le dimensioni della grande e grandissima potenza non sono, però, soltanto quelle della potenza planetaria. Sul piano planetario non si vede per ora neppure in prospettiva chi possa competere, sia pure soltanto a distanza ravvicinata, con gli Stati Uniti (e, detto per inciso, fanno piuttosto ridere coloro che si affannano a proclamare il declino e la fine imminente, o del tutto prossima, dell’“impero americano”, che a uno sguardo meno superficiale non può che apparire ancora nella sua prima giovinezza). L’interesse della fase storica che sembra aprirsi con l’iniziativa russa in Georgia sta, però, proprio nel sancire definitivamente, come fino ad ora non sembrava altrettanto chiaro, che i livelli della potenza possono essere molteplici fra il primato o, se si preferisce, l’egemonia planetaria americana e il livello, alla resa dei conti, poco più che continentale di qualsiasi altra potenza. E, comunque, se dovessimo affacciare una previsione a questo riguardo, diremmo senz’altro che l’iniziativa russa è molto più preoccupante e tocca molto più da vicino e dall’interno l’Europa e i paesi europei che non gli Stati Uniti. Aggiungiamo, inoltre, che l’eccesso compiuto colpendo soprattutto la Serbia nella dissoluzione, così tenacemente perseguita, della ex Jugoslavia, fino a consentire senz’altro all’indipendenza del Kossovo e del Montenegro, mette l’Occidente tutto, ma in particolar modo l’Unione Europea in una posizione non del tutto agevole, almeno sul piano ideologico, se non su quello dei principii (e, detto anche questo per inciso, quella nella ex Jugoslavia rimane una mossa dell’Unione Europea delle più problematiche a valutarsi fra le iniziative della politica estera dell’Unione, generalmente considerata, a ragione, una delle maggiori carenze della nascente potenza unitaria del Vecchio Continente).
Per l’Italia, con il nuovo governo Berlusconi sembra aver fatto pienamente tesoro dell’esperienza del 2001. Allora egli e la sua maggioranza letteralmente sprecarono la posizione di enorme vantaggio acquisita con la vittoria elettorale del 2001. Il premier, in particolare, si dedicò alla politica internazionale, sostituendo ben presto di persona il dimissionario ministro Renato Ruggiero, insofferente, giustamente, dei paletti (e dei pali) posti alla sua posizione e attività nel governo. La politica internazionale, diceva Berlusconi, lo divertiva; andava allacciando amicizie personali (Bush, Putin, o chiunque altro) che erano per lui la vera sostanza della presenza internazionale dell’Italia; faceva il monello scherzoso nelle riunioni di ministri e capi di governo e di Stato a cui partecipava, con grave disdoro non solo suo, ma anche del paese che rappresentava; distribuiva e accettava sorrisi, strette di mano e pacche sulle spalle come perfetti equivalenti di trattati e accordi internazionali... e via su questa strada (se strada era). Quando dopo un paio di anni riprese un po’ in mano le cose, non si era ridotto solo il tempo a sua disposizione; si era anche deteriorata la sua autorità. Gli effetti furono tali che la coalizione da lui guidata sostanzialmente si sfaldò, e si allontanarono da lui non solo i tipi sempre discutibili come il “giovane” Follini, ma anche personalità più importati come Casini e perfino Fini. Poi Berlusconi cercò di riprendersi, e riuscì a mantenere, sia pure con difficoltà, il suo personale “patto d’acciaio” con Bossi e con la Lega Nord, e, nonostante la continua lesione della sua immagine e della sua guida del governo e della maggioranza operata dagli altri suoi alleati, seppe condurre nel 2006 una campagna elettorale addirittura ammirevole per vigore e felicità di risultati, per cui mancò pochissimo che egli tornasse a vincere in quell’anno come aveva fatto nel 2001, anche se non più con lo stesso margine.
La vittoria di strettissima misura del 2006 fu, peraltro, addirittura letale per il centro-sinistra tornato al potere. Il gioco delle sinistre estreme con Prodi e la sua maggioranza fu addirittura più micidiale di quello dei suoi alleati con Berlusconi; la condotta del governo Prodi, pur con alcuni meriti, fu nell’insieme tutt’altro che soddisfacente, e ancora di meno lo fu nelle impressioni e nei giudizi dell’opinione pubblica; il varo e il primo avvio del Partito Democratico non furono felicissimi; la campagna elettorale della coalizione di centro-sinistra lo fu addirittura di meno. A Berlusconi giovò tutto questo, e gli fu di vantaggio perfino la rottura di Casini con la coalizione di centro-destra. Dopo di che, rinsavito, per così dire, come abbiamo notato, egli ha ingranato con il suo attuale governo una marcia in avanti, alla quale non pare che l’opposizione sappia opporre alcunché di concreto e, soprattutto, di efficace.
Il motivo dell’interesse personale di Berlusconi nel condurre una certa azione di riforma della giustizia appare ormai del tutto spuntato, e crescono invece quelli che nell’opposizione pensano che una riforma in questo campo non solo non si possa fare che con Berlusconi, ma anche che sia opportuna e urgente. Il motivo che il governo pensa a riforme di questo genere mentre le famiglie non arrivano alla quarta settimana del mese è un motivo più che spuntato, poiché tutti ricordano che questo era precisamente il motivo che la coalizione berlusconiana agitava contro il governo Prodi, e tutti, quindi, sono confermati nell’idea che si tratti di un motivo agitato volta per volta dalle forze politiche di opposizione in modo opportunistico e demagogico. Che le telefonate intercettate siano cattive telefonate se sono quelle di Berlusconi per i suoi cari, e siano invece trasparenti e innocenti conversazioni se sono quelle di Prodi per i cari suoi, sarà vero, ma nessuno lo crede davvero. Che il governo sia responsabile della scarcerazioni dei giustamente famigerati ultras napoletani dopo gli assurdi e criminosi disordini del 31 agosto, fa chiaramente ridere tutti: imputati e rei sono in Italia, fino ad ora, carcerati e scarcerati dalla magistratura, e, in ciò, il governo non può e non deve interferire, come continuamente ripete la sinistra avversa alla riforma della giustizia sostenuta da Berlusconi. Perfino su quella che è stata finora l’azione meno persuasiva del governo, ossia l’accordo con la Libia al quale abbiamo già accennato, la contestazione antiberlusconiana è stata molto debole. E non parliamo della polemica sulle misure adottate per i Rom, bollate dall’opposizione come discriminatorie e contrarie alle norme dell’Unione Europea, con le quali si sarebbe venuti in contrasto, meritando la riprovazione, e, invece, alla fine pienamente approvate dall’Unione come senz’altro rispondenti alla sua normativa. Si può quindi immaginare quanto siano persuasive le contestazioni di indubbi successi del premier, quale è stato in particolare quello riportato nella questione dei rifiuti napoletani e campani; e quanto sia persuasiva la svalutazione dell’altro indubbio successo berlusconiano costituito dall’esito per l’intervento per l’Alitalia (e l’ironia di Veltroni sulla “compagnia di bandierina” che si realizzerebbe è stata e generalmente appare come una delle sue uscite meno felici, mentre sul problema degli esuberi di personale della stessa Alitalia non è compatto verso il governo neppure il fronte dei sindacati, visto che almeno la Cisl e la Uil hanno dichiarato positivo l’operato del governo).
Quel che, però, nel campo dell’opposizione è più sconcertante è la difficoltà, che sembra progressivamente maggiore, nella quale appare muoversi il neonato Partito Democratico. Di Pietro e il dipietrisno si stanno rivelando per esso uno spillone più tormentoso e dannoso di quello costituito finora dalla sinistra estrema, confermando così nella loro opinione quelli che all’alleanza con Di Pietro nelle elezioni ultime erano decisamente ostili, ritenendo tale aggregazione fonte solo di guai e di complicazioni che conveniva evitare. Non si riesce a capire se la leadership di Veltroni si indebolisca quanto sembra all’apparenza o se, tutto sommato, regga, e bene. Di strategie del partito che permettano di parlare di un suo “disegno italiano” non si vede neppure l’ombra, mentre del programma elettorale del 2008 è significativo che nessuno più parli: dimostrazione fin troppo evidente della sua dimostrata insufficienza di contenuti e di proposte. Si vedono, invece, benissimo, le divisioni interne del partito, che ne fanno sospettare per molti versi uno stato precoce di rapida consunzione che nessuno (o quasi) si sarebbe aspettato tale. Nelle logiche (logiche?) di tali divisioni non entriamo qui adesso, poiché ancora troppo poco se ne capisce. Bisognerà soffermarsi su di esse appena si sarà raggiunta al riguardo una qualche maggiore chiarezza di idee. Per ora sembra potersi dire soltanto che rimane una mera speranza quella, irrinunciabile, a nostro avviso, di salutare nel nuovo partito un elemento rinnovatore e risolutore almeno dei problemi di funzionalità e (sia detto tra virgolette) di “normalità” della vita politico-amministrativa del paese, a cominciare dai settori di idee democratiche, nonché un deciso salto di qualità sul piano etico-politico, come sembra essere esigenza primaria e massima dell’Italia di oggi.

* * *


Sullo sfondo di questo panorama, italiano e non, ci è sembrata una boccata di aria fresca l’idea di Marco Pannella di promuovere e realizzare a Londra un grande convegno politico-culturale, che con rigore di visione storico-critica, ma anche con passione e pregnanza di attualità, appunto, politica e culturale, ricordi la data del 20 settembre 1870, non considerandola soltanto come una data italiana, bensì nella sua ampia significazione e ripercussione internazionale, e innanzitutto europea, ossia in tutta, insomma, la sua non sempre appieno e ben percepita portata politica e religiosa, ideologica e culturale. Ed è questa la ragione per cui ci sembra opportuno spendere qui qualche parola sulle ispirazioni e le ragioni di questa iniziativa, quali appaiono a noi anche grazie a una illustrazione che ne ha fatto lo stesso Pannella.
È appena il caso di dire, intanto, che non si tratta di una iniziativa antiqualcosa, e in modo particolare contro la Chiesa cattolica che del 20 settembre fu l’oggetto (e, dal suo punto di vista, la vittima) più appariscente. Non si tratta di un ritorno ai modelli del “vecchio anticlericalismo di stampo ottocentesco”, come ritualmente ci si esprime da certe parti in tali occasioni. Senza contare che il “vecchio anticlericalismo” aveva ragioni di cui sarebbe doveroso ricordarsi e verso le quali conviene portare il dovuto rispetto, permane, certo, la necessità di far fronte alle spinte e alle posizioni di parte ecclesiastica, che in forma rinnovata e più sottile, ma anche in forme, in altri casi, tracotanti e bellicose, continuano a contrastare il movimento del libero pensiero prima ancora che i suoi diritti. Diciamo, peraltro, questo non pensando – come dovrebbe essere chiaro – soltanto alle chiese di tutte le religioni (cristiane, dell’Islam, indù o di qualsiasi altra confessione), bensì anche alle chiese politiche, la cui persistenza in forme diverse e sorprendenti perdura e offende le ragioni della libertà più elementari, malgrado la fin troppo decantata “fine delle ideologie” e il crollo di imperi che si volevano millenari o universali e conclusivi della storia.
Il 20 settembre è, da questo punto di vista, un eccellente punto di riferimento. Eccellente anche perché con esso non passò solo agli atti della storia la fine di un potere temporale millenario e assolutista, ormai inconciliabile con la maturità dei tempi della libertà moderna. Eccellente è il 20 settembre anche perché coincise con una data conciliare importante come quella del Vaticano I, le cui proclamazioni di principio contro il liberalismo, la democrazia, il socialismo, il libero pensiero, la scienza furono tali che anche la Chiesa cattolica se ne è dovuta, nei decennii successivi, allontanare non poco, sebbene lo abbia fatto con la sua consueta arte di governo lenta e prudente, ma accorta e tenace nel campo di queste cose. E anche in questo caso il valore simbolico del 20 settembre non è confinato nell’area di contrasto e di urto con una specifica confessione religiosa (qui: la cattolica), ma riguarda qualsiasi concetto o realtà di chiese operanti non solo e non tanto quali comunità religiose, di fede e di comunione spirituale di fedeli coi loro istituti e con le loro pratiche e convenzioni rituali, e quindi quali comunità insindacabili e, anzi, sempre da sostenere nei loro diritti alla piena libertà, quanto piuttosto quali istituzioni o pulpiti protesi a imporre un’inaccettabile tutela ideale e di fatto sulla vita civile e politica in nome dei loro principii, e a limitare, di conseguenza, il libero sviluppo di tutte le altre potenzialità ed espressioni culturali e sociali presenti nel rispettivo contesto e, quindi, in sostanza, la pienezza della vita del mondo contemporaneo nel suo complesso.
Dopo di che, occorre dire che le stesse istanze valgono per noi contro le chiese politiche, ideologiche e di ogni altro genere, che, senza neppure il pretesto religioso, pretendono a una posizione e a un ruolo sociale uguale o addirittura più ampio e invasivo di quello delle chiese a fondamento religioso? Certo non occorre, e lo abbiamo qui, del resto, già chiaramente detto nelle righe che precedono. La spinta della libertà e delle sue ragioni vale, ovviamente, per noi, come suol dirsi, su tutti i 360 gradi dell’orizzonte storico e umano.
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