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Verso una politica europea bipartisan
di Adolfo Battaglia
In una lectio magistralis tenuta all’Università di Madrid nel gennaio dello scorso anno1, il Presidente della Repubblica ha sintetizzato i termini di una condizione europea che non riesce ancora a trovare superamento. Giorgio Napolitano rilevava la contraddizione tra la percezione della responsabilità dell’Europa nel mondo, che è larga sia nella dirigenza che nell’opinione pubblica europea, e «i sostanziali scetticismi sulla possibilità di una effettiva funzione ed azione dell’Unione come attore globale, capace di contribuire alla promozione di un più profondo giusto ed equilibrato ordine mondiale». E questi scetticismi, aggiungeva, «fanno tutt’uno con residue illusioni circa la possibilità di protagonismo sul piano internazionale dei maggiori Stati membri» e con la correlativa «riluttanza ad attribuire poteri adeguati e maggiori risorse alle istituzioni dell’Unione». C’è il rischio, concludeva, di un «oscuramento dello stesso equilibrio fondativo della invenzione comunitaria», ovvero dell’impegno a portare avanti «quel processo di integrazione che ha distinto fin dall’inizio la costruzione europea rispetto ad ogni tradizionale alleanza fra Stati sovrani».
Questi pregnanti giudizi riassumevano una situazione che è stata variamente discussa2 con analisi che si possono conclusivamente riassumere come segue.
La crisi odierna del vecchio continente deriva da una serie di fattori che si sono accumulati in breve tempo e hanno operato congiuntamente. Hanno pesato anzitutto gli storici eventi che hanno chiuso il secolo scorso e inficiato ulteriormente la centralità politica dell’Europa: la caduta del comunismo mondiale, la fine del bipolarismo internazionale, l’accelerarsi dei processi di globalizzazione, l’avvio di uno sviluppo sostenuto in vaste aree asiatiche. Cadevano, contemporaneamente, le grandi ragioni politiche che avevano sospinto le prime Comunità europee: l’esigenza della pace continentale, la minaccia sovietica, il destino della Germania. A tutto si accompagnava poi una rivoluzione tecnologica senza pari, che nella nuova competizione globale ha indebolito la struttura economica e sociale dell’Europa. Ha accelerato questo ciclo, infine, l’allargamento ad est dell’Unione: grande e necessario evento che però, di fatto, ha deviato il tragitto perseguito dagli europei per quasi mezzo secolo. Mentre la seconda guerra irakena ha spaccato il continente in schieramenti contrapposti sul fondamentale tema del rapporto con la superpotenza americana.
In pochi anni, così, l’Europa si è trovata di fronte a un vero e proprio tornante della storia. Il vero problema che si pose allora alle forze politiche favorevoli all’integrazione fu quello di definire nuovi obbiettivi e nuove posizioni, coerenti al mutato quadro mondiale. Non vi si riuscì: e non è riuscito più a passare anche il progetto di Costituzione europea, che doveva segnare la ripresa dei processi unitari e ne ha invece espressa la crisi. Sembra dunque oggi che il problema numero uno sia rimasto lo stesso. In effetti, nulla in Europa sembra più opportuno che ricalibrare l’Unione sulla realtà internazionale in cui opera e ritrovare in tale “aggiustamento” lo spirito politico perdutosi negli ultimi anni: senza il quale la costruzione europea potrebbe diventare non lenta, come è inevitabile sia, ma stagnante.
Nell’anno e mezzo passato dal discorso di Napolitano la condizione di fondo del vecchio continente, in certo senso storicamente data, non poteva mutare; ma un po’ d’acqua è passata sotto i ponti e le pale del mulino europeo hanno ricominciato a muoversi. Sono spariti, in effetti, alcuni dei fattori politici che ebbero peso. Si è svuotata l’ambizione nazionalista della Francia di dominare politicamente il continente, da sola o in asse con la Germania: una linea De Gaulle-Chirac che in passato, come si ricorderà, ebbe periodici ritorni. Sotto l’urto degli eventi si sono frantumate anche due illusioni che purtroppo sedussero non solo tutti i neutralisti ma anche molti europeisti: prima, quella di un’Europa terza forza tra Usa e Urss, poi quella di un’Europa potenza autonoma e di contrappeso politico agli Stati Uniti nel quadro dell’Occidente. Si è altresì rivelata inconsistente l’idea di una parte rilevante della classe dirigente britannica di poter controllare la costruzione europea restando a mezza strada tra la partecipazione all’Europa e la relazione speciale con gli Stati Uniti.
La maggiore novità è stata tuttavia la modifica che è intervenuta quando interessi nazionali sono tornati ad essere prevalenti nel sistema europeo e gli Stati-nazione hanno riacquistato ruolo. Così, anche se non è scomparsa dai cuori, è scomparsa dall’orizzonte politico l’idea dell’unità politica sovranazionale quale era stata concepita per cinquant’anni: o nella forma massima degli Stati Uniti d’Europa, come si pensò al tempo della Ced, o in quella della Federazione di Stati nazionali, su cui si ripiegò con Delors. Si mirava in verità a questo secondo obbiettivo ancora negli anni ’90. E si identificava anzi la moneta unica decisa a Maastricht come un importante passo avanti verso esso. Era un obbiettivo difficile da raggiungere, ma era un grande obbiettivo comune.
Oggi, non se ne parla più, e non perché l’obbiettivo sia divenuto più difficile ma semplicemente perché non è più comune. Il continuo, inevitabile processo di allargamento ad est dell’Europa e il connesso ritorno degli Stati nazionali hanno deviato il problema politico dell’integrazione.
Non è dubbio che l’integrazione economica abbia avuto grandi successi, e che quanto è avvenuto in Europa dopo secoli di lotte sanguinose già costituisca, com’è stato detto, un piccolo “prodigio” della storia3. Ma una cessione di sovranità dei 27 (o 29) Stati nazionali in favore dell’Unione Europea, per darle poteri sovrastatuali nel campo della difesa, della sicurezza, della politica internazionale, della politica economica, della fiscalità, ebbene, quest’idea trova quasi sempre buone parole da parte di tutti ma non riesce mai a trovare reale consenso da parte di nessuno. Né dagli Stati fondatori delle prime Comunità europee, né dai paesi nordici che poi vi hanno aderito, né tanto meno da quelli dell’est che vi sono entrati recentemente. E pur con tutte le cautele che occorre avere per non emanare giudizi apodittici, occorre probabilmente partire da qui, da questa situazione constatata, per ogni discorso relativo a ciò che adesso può farsi. Un passo utile è stato l’accordo raggiunto a Lisbona, che ha varato gran parte della progettata Costituzione e introdotto, come più avanti si dirà meglio, nuovi ed utili strumenti d’azione. Ma più importante è l’inserimento nella politica europea di alcune iniziative che, a ben vedere, possono costituire il minimo di base necessaria per “ripartire”; con processi e percorsi, però, abbastanza diversi da quelli del cinquantennio iniziale.
La prima iniziativa, com’è noto, è stata quella della Germania: quando, appena costituitasi, la coalizione post-Schroeder di Angela Merkel non ha esitato a rovesciare il negativo rapporto con gli Stati Uniti creato dalla linea francotedesca sulla questione irakena. La relazione Europa-Usa è così tornata ad essere un pilastro portante della politica tedesca: e, per questa via, della politica europea. L’idea lanciata dal Cancelliere tedesco di un mercato unico transatlantico fu per la verità accolta con freddezza a Washington. Ma la mossa della signora Merkel aveva carattere politico più che economico, e ha poi seriamente contribuito a determinare nuove posizioni della Francia e della Gran Bretagna.
In ambedue i paesi non è sfuggita l’impressione che la Germania cominciasse a considerare più attentamente una vecchia tentazione: giocare nella cornice europea un ruolo politico più forte protendendosi verso i paesi ex-comunisti dell’Europa orientale e costruendo con la Russia un nuovo e complesso rapporto4. La Germania non solo è il paese economicamente più robusto del vecchio continente ma è anche quello che è più riuscito, negli anni scorsi, ad introdurre riforme e ristrutturazioni. Da entrambe è stata protetta, almeno parzialmente, nella crisi dei sub-prime e dei prezzi alimentari, divenendo così in Europa, comparativamente, ancora più forte. Per protendersi credibilmente ad est, però, la Germania deve non solo continuare a garantire la propria sicurezza ma anche tenere strettamente conto della esigenza numero uno dei paesi ex-comunisti: quella di essere protetti dalle mani forti del grande vicino russo. E sotto questi profili c’era e c’è bisogno, essenzialmente, non dell’Europa ma degli Stati Uniti. Appunto, non è stato solo per questioni di simpatia che la coalizione della signora Merkel ha messo nelle retrovie l’asse franco-tedesco, del resto ormai consumato dalle prove, e afferrato nuovamente un rapporto stretto con l’America.
Così la Francia, stretta tra la nuova posizione tedesca e l’antica propensione britannica al legame con gli S.U., rischiava l’isolamento. D’altra parte, era chiaro che l’antiamericanismo non aveva accresciuto ma ridotto il peso politico di Parigi nell’Unione a 27 Stati. La posizione francese è stata perciò modificata, ed è passata rapidamente dalla rottura chiracchiana con gli Stati Uniti al nuovo rapporto d’intesa varato da Sarkozy: subito tradottosi in importanti fatti politici con la decisione di rientrare nella struttura Nato e di inviare nuove truppe in Afghanistan a sostegno della posizione americana.
Ma chi è in Europa il migliore alleato degli Stati Uniti, se non la terza media potenza che è stata anche l’avversaria storica della Germania? Ecco dunque la nuova svolta della Francia. Che allo stentato mantenimento dell’asse franco-tedesco, unisce ora il “formidabile” asse franco-britannico creato a Londra nella visita del nuovo Presidente francese. I giornali italiani, con sano spirito d’analisi, hanno esaminato quella visita essenzialmente sotto il profilo della presenza della signora Bruni, senza dubbio graziosa. Ma un analista politico ponderato, che è anche uno storico stimato, ha notato giustamente che i colloqui di Londra tra Brown e Sarkozy hanno creato un fatto nuovo: si è ricreata in Europa la storica “intesa strategica” tra Francia e Gran Bretagna5. Ed essa, al di là di specifiche convenienze dei due paesi, ha molti sicuri lati positivi di ordine generale: riequilibra nella costruzione europea il peso della Germania, completa il restauro del rapporto tra l’Europa e gli Stati Uniti, e riattiva quel traino della Gran Bretagna verso il vecchio continente che era nella direttrice iniziale, un poco spentasi, dei governi laburisti.
Quell’intesa ha il serio inconveniente, però, che torna a profilare in Europa la formazione di un direttorio politico. Per essere a tre Stati, esso non sembra in verità molto più accettabile di un direttorio a due. Mentre ancor meno recepibile è quell’eventuale direttorio a sei o sette che alcune diplomazie adesso delineano (aggiungendo Italia, Spagna, Polonia, Svezia) e che spaccherebbe l’Europa facendola arretrare ad una condizione precedente a quella delle adesioni degli ultimi dieci anni. Mentre il problema sembra invece esattamente l’opposto: portare a maggiore integrazione la costruzione europea quale si è storicamente formata, per ragioni certo diverse da quelle iniziali ma non per questo meno cariche di ragioni. Si può essere sicuri che se si tornasse a dividerla in zone di serie A e di serie B, una sorta di moderna Yalta post-bipolare, l’esito non potrebbe che essere quello di squassare il bene primo faticosamente creato, la stabilità del continente6.
Evitare questa jattura significa anzitutto tener conto che la situazione europea è oggi in movimento: e che il recupero della relazione Euopa-Stati Uniti, l’espansione dei còmpiti della Nato, le nuove posizioni dei tre maggiori Stati europei, l’accumulo di inedite questioni su non risolti problemi costituiscono complessivamente una trama nuova. È su essa che passa oggi il filo dei processi unitari di nuovo tipo che il vecchio continente può consentirsi e a cui deve mirare.
Il quadro politico di tali processi è dato dal contemporaneo esaurirsi dei fuochi d’artificio del neo-nazionalismo europeo e del neo-conservatorismo americano. Ma esso si sostanzia soprattutto della riflessione sul mondo contemporaneo che è stata imposta dalla forza degli eventi. Sono divenuti planetari i problemi, di portata mondiale le difficoltà, infinite le opportunità; sorgono nuove potenze e si sviluppano paesi storicamente poveri; esplodono crisi energetica, fabbisogno alimentare, questione climatica; si rischia di dare altre esche al disordine mondiale e al terrorismo islamico. Può farcela l’Europa, da sola? Per esempio, è in grado, da sola, di produrre una politica energetica efficace? Di portare allo scioglimento del nodo arabo-israeliano? Di intervenire militarmente dove fosse indispensabile? Ecc. Si consolida in Europa la (corretta) convinzione che essa non è una potenza in grado di determinare da sola aspetti importanti del quadro mondiale. Come rispondere allora al problema di inserirvi un’influenza europea più rilevante di quella odierna? Oltre tutto, la democrazia si è venuta straordinariamente estendendo nel pianeta e una serie di nazioni – pur molto differenti dall’Occidente per storia, cultura, tradizioni e struttura sociale, – sono regolate dagli stessi principi politici e civili affermatisi inizialmente nel mondo euro-americano: quasi una sorta di “secondo Occidente”.
Un gigantesco iceberg di problemi interconnessi avanza dunque verso l’Occidente “storico”. E i suoi due pilastri sono inesorabilmente più deboli se l’affrontano separati. Per l’Europa, respingere la prospettiva di contribuire a guidare l’Occidente, e dividere le forze rendendo configgenti le posizioni, significa solo auto-confinarsi nell’impotenza politica. Una scelta di stranezza che non si riesce neppure a capire come possa essere sostenuta. Gli Stati Uniti sono più forti: ma tutto dimostra che senza una base d’intesa tra Europa e Stati Uniti ogni decisione in sede internazionale è ritardata, più difficile, di più dubbio esito7. Non a caso se in Medio-Oriente fallisce la presenza dell’alleanza euro-americana l’America è colpita ancora più dell’Europa. L’alleanza è in certo senso “inevitabile”8.
Con un grado o un altro di maturazione è tutto questo che, alla fine, accomuna oggi i paesi europei. Attraverso i percorsi più diversi essi sono giunti a convergere su una visione politica d’ordine generale, che implica scelte conseguenti di politica estera. In altri termini, l’Unione Europea a 27, al contrario della Comunità europea a 15, sembra più disponibile a intendersi sul terreno politico che su quello economico. Non è solo un fatto nuovo da registrare: è una chiave diversa con la quale affrontare i problemi di una Unione divenuta più larga. Apre uno spiraglio di ottimismo. Non si torna naturalmente alle nostre antiche speranze di federalisti. Non si deve pensare alla possibilità di salti sovrastatuali. Si costituisce nell’Unione, però, la piattaforma generale che è indispensabile per realizzare intese unitarie su questioni specifiche. Intese che sarebbero difficili, anzi impossibili, se mancasse l’intesa sulla questione delle questioni, cioè la basilare posizione internazionale dei paesi europei al di là delle loro differenze economiche e sociali.
In altri termini lo spiraglio di ottimismo si identifica in una duplice constatazione: che l’Europa sembra tornata a considerarsi più sicura e influente se opera in rapporto stretto con l’altro pilastro dell’Occidente; e che l’aver raggiunta questa conclusione ha creato la condizione di base per riprendere processi unitari, sia pure di nuovo tipo, da tempo bloccati.
L’interesse a una più forte intesa atlantica dipende dall’esperienza ormai compiuta. Tanto l’Europa quanto gli Stati Uniti hanno serie difficoltà (differenti, ma egualmente reali) ad affrontare una serie di grandi problemi: la sicurezza energetica, il Medio Oriente, la lotta al terrorismo, l’armamento nucleare iraniano, la politica di sviluppo dei paesi poveri, le strategie di incremento dell’offerta alimentare, la riforma delle istituzioni internazionali. Sono tutte questioni che – insieme ad altre di reciproco interesse – richiedono azione politica, inventiva non burocratica, riconoscimento dei ruoli, disponibilità a vedere alcune questioni nazionali nel quadro più ampio imposto dalle cose. Sono le doti di cui la classe dirigente euro-americana diede prova già una volta, nei primi decenni post-bellici. Non è facile che essa torni oggi ad avere quella qualità. È bene tuttavia che si cessi di mascherare resistenze economiche e riflessi particolaristici dietro divergenze di strategia politica che sembrano, come si diceva, superate. E con una seconda punta di ottimismo si può forse dire che la signora Merkel pare muoversi verso la formazione d’una nuova classe dirigente europea e che questa sembra perciò non del tutto irrealizzabile. D’altra parte, il punto non è solo che un’Europa dotata di valori, forza economica e soft power ritrovi gli Stati Uniti in costruttive iniziative comuni. È anche, e forse soprattutto, che gli Stati Uniti ritrovino con l’Europa il rapporto che ebbero in un tempo assai diverso. La nuova dirigenza americana eletta in novembre sarà cruciale. Ma che cosa sarà l’America del dopo-Bush, quella di Obama Mc Cain e Clinton? I pensieri americani non sono fissati più sul destino dell’Europa. Certo, sono gli SU che chiedono all’UE un aiuto più forte per stabilizzare Irak ed Afghanistan, e un’opera politica in Iran, Libano e Siria.
Tuttavia è un fatto che nel mondo globale l’unica superpotenza esistente è spinta a concentrarsi non sull’Europa ma, appunto, sul mondo globale, in particolare sul Pacifico. Comprensibile: per esempio, nel 2007 la percentuale del Prodotto mondiale lordo rappresentata dagli Stati Uniti, calcolata col metodo della parità del potere d’acquisto, era il 21,4% e quella rappresentata dall’Eurozona il 16,1%; mentre nell’area del Pacifico, unitariamente considerata, la percentuale ascendeva a quasi il 45%9. Non sarà facile far tornare l’America al ripensamento della vitale importanza politica della relazione con l’Europa.
Occorrerebbe in questo senso uno sforzo particolare della dirigenza europea: e un’occasione da non perdere, per il suo carattere irripetibile, verrà presto. Nel 2009 infatti entreranno in funzione insieme il nuovo presidente degli SU e il nuovo presidente dell’UE previsto dal trattato di Lisbona. Il primo, con l’obbiettivo di realizzare un nuovo corso politico degli SU che torni a rendere “attraente” il modello di presenza americana nel mondo10. Il secondo, con il compito di dare voce alle virtù, al soft power e alle potenzialità economiche che vengono generalmente riconosciute all’Europa e che forse non possono essere trascurate da una dirigenza americana impegnata a esprimere un nuovo volto credibile.
Il nuovo Presidente UE, dunque, non sarà solo il numero telefonico ricercato da Kissinger. Egli ha la chance di rappresentare al Presidente USA una visione sostanzialmente unitaria del rapporto euro-americano, focalizzandolo sui problemi mondiali che anche l’Europa ha interesse ad affrontare con politiche comuni. Potrà dunque discutere con gli Stati Uniti avendo dietro di sé non un gruppo di nazioni ma l’intera Unione; e davanti a sé non sei mesi ma cinque anni di lavoro. Operativamente, egli è dotato di strutture diplomatiche ed amministrative, e sarà inoltre affiancato da un reale ministro degli Esteri (seppure diversamente chiamato). È certo qualcosa che nel rapporto euroamericano non è mai esistita e che contribuisce un po’ ad equilibrarlo anche sotto il profilo del funzionamento delle istituzioni.
Si potranno intendere i due Presidenti? È sperabile. E se riuscissero soltanto a dare qualche struttura al mercato transatlantico, a chiudere il problema del rapporto tra Nato e forze europee, inquadrato a Londra da Brown e Sarkozy, e a mettere in moto una politica energetica più sicura per ambedue i continenti, diminuendo il potenziale di ricatto cui sono esposti, avrebbero già fatto un lavoro straordinario. Se poi un rapporto più convinto SU-UE riuscisse a definire le linee di una politica comune per rimettere sul binario giusto lo sviluppo equilibrato e rispondere alla domanda mondiale di prodotti agricoli sospingendo così i negoziati di Doha sul commercio, i caratteri di una svolta tanto rilevante difficilmente potrebbero essere disconosciuti nel mondo.
L’Europa stessa riparte da qui, dalla politica. Non ha più senso che il suo primo e condizionante problema – appunto, la posizione internazionale – dipenda da ciò che i padri fondatori avevano chiamato “solidarietà di fatto” su questioni economiche11. Il fatto nuovo è in Europa non sono più i legami economici a generare i legami politici ma l’inverso. Del resto si è visto bene che l’affidare le politiche di settore a ministri di settore non porta più da alcuna parte. E si tentò già una volta, non per caso, di istituire una istanza di carattere politico al vertice dell’ordinamento comunitario. Tuttavia, il Consiglio dei capi di Stato e di Governo ha di fatto funzionato poco. Si può cercare di migliorarne l’efficienza. Ma lo snodo decisivo diventa adesso il Presidente dell’Unione.
Con l’autorità che gli deriva dal ruolo e dai contatti internazionali, e con la continuità d’azione a lui possibile sulla dirigenza europea, egli dovrebbe essere in grado di svolgere un’azione efficace. Informare, discutere, comprendere, tener conto, riformulare: e giungere infine ad armonizzare nuove posizioni su questioni irrisolte o in ritardo. La scelta è ampia: dalla rete di infrastrutture europee alla liberazione di almeno parte dei fondi di bilancio impegnati in una politica agricola insensata; da una maggiore armonizzazione della fiscalità ad una normativa sulla vigilanza bancaria più efficace, a un allargamento dell’euro-zona appena possibile. Ha relativa importanza che passi avanti su questi o altri terreni si formalizzino in fatti istituzionali. Conta, in pratica, ciò che rende l’Unione più efficace e più sostanzialmente unita, rendendola più forte nella vita internazionale e più sicura delle sue prospettive. Vale in certo senso l’osservazione fatta recentemente dall’«Economist» per la Fiat: per compiere il “miracolo” di risanarla, i suoi dirigenti non sono partiti dalla crisi aziendale ma da una forte idea costruttiva12.
Essenziale però è avere nella vita interna dell’UE ciò che è ormai necessario in tutte le democrazie contemporanee: un leader, una figura capace di disperdere stanchezza e diffidenze con un’azione energica. In questo senso, bisogna decidersi a focalizzare il punto che la nomina del Presidente dell’UE non solo rappresenta la massima svolta istituzionale possibile, ma modifica il modo stesso di lavorare dell’Unione. Spetta a lui la funzione di proposta e di propulsione politica che il Parlamento deve controllare ma difficilmente può svolgere in proprio. Il Presidente dell’UE, d’altra parte, è legato ad esso dal voto di fiducia: e la elezione del 2009 apre per il Parlamento la fase di una collaborazione con un’entità politica più forte della Commissione. D’altra parte, il Presidente presiede il Consiglio europeo che lo designa; e sul terreno internazionale è coadiuvato dalla continuità d’azione del nuovo ministro degli esteri, che diventa vice-presidente della Commissione e ne dirige un intero settore di lavoro. È naturale che tutto questo modifichi i vecchi equilibri fra le istituzioni; contrasti la negativa tendenza ad accentuare il loro carattere intergovernativo; e crei invece fra gli organismi europei una nuova interconnessione a carattere comunitario, che inizialmente, forse, può creare qualche problema ma alla lunga può solo giovare alla integrazione dell’Unione.
Può avere una parte specifica l’Italia in questi sviluppi, auspicabili e possibili? Parlando francamente, potrebbe averla solo sulla base di una nuova politica europea bipartisan. Ed essa può nascere solo se i due poli riescono a modificare una parte delle loro precedenti posizioni.
È un fatto, peraltro, che la caduta di Bush e il superamento della sua politica implicano di per sé la modifica dell’indirizzo seguito dal centro-destra e un riposizionamento internazionale del terzo Governo Berlusconi. Ed è un fatto che il centro-sinistra, a sua volta, non può più stare sugli equilibri che hanno caratterizzato la breve Legislatura in cui la sinistra antagonista è stata condizionante sul terreno della politica estera: con posizioni molto diverse da quelle che si leggono nel programma presentato agli elettori dal Partito Democratico.
In sostanza, i poli del sistema politico possono ormai prendere atto entrambi della condizione internazionale ed europea, e delle opportunità che essa apre sia sul terreno dell’unità continentale sia su quello dell’unità occidentale.
E già la battaglia per la nomina del Presidente dell’UE potrebbe costituire occasione di intesa, basata sull’individuazione di una figura politica realmente qualificata, di valore europeo, capace di iniziativa. Sapendo che se la scelta fosse annacquata da compromessi scoloriti su persona egregia e debole, l’Unione perderebbe una grande occasione, e farebbe risultare ancora più evidente la differenza di capacità decisionale e di presenza politica tra il Presidente dell’UE e i Presidenti americano e russo con quali quello europeo sarà inevitabilmente confrontato. Questo non è dunque un punto come un altro.
Su un nome o un altro si gioca una concezione politica. Ed è il fissarla, con la sicurezza di una battaglia coerente all’interno della diplomazia e del Consiglio europeo, che permetterà una convergenza fra le forze politiche italiane.
Una seconda grande questione si porrà nei prossimi anni per gli europei: l’aumento della spesa militare e il rafforzamento dell’impegno sul campo, che saranno entrambi richiesti, anche all’Italia, dalla nuova amministrazione americana.
Non è facile rispondere positivamente e sarebbe sbagliato rispondere negativamente. Il punto è che nuove assunzioni di responsabilità europea su ambedue i terreni provocherebbero difficoltà nell’opinione pubblica se non fossero precedute da un accordo bipartisan, inquadrato e giustificato in un disegno e in una prospettiva europea.
Si apre dunque lo spazio per concretare ciò che tutti hanno sostenuto: che i grandi indirizzi di politica estera, così come le riforme dell’ordinamento costituzionale, non sono roba da partigiani faziosi ma occasioni di costruzione d’un paese normalmente democratico. Se i due poli effettivamente si accordassero, sarebbe una gran bella cosa. E speriamo dunque non sia impedita dall’opera dei bravi pasdaran che non mancano mai in entrambi gli schieramenti.

P.S.
Se ci si domanda poi perché una stretta intesa tra Europa ed America, pur contrastata com’è da tutto l’estremismo intellettuale e sociale del vecchio continente, sia sentita come rassicurante dalla opinione pubblica europea, non si può fare a meno di andare ad una differenza di tratto segnante tra il Novecento e il nuovo secolo.
Dagli storici ai sociologi e ai giornalisti, pressocché tutti oggi rilevano il senso di preoccupazione o di paura che percorre l’Occidente. Curiosamente, è un senso di paura che non percorre né la Cina ne l’India né i paesi poveri o in via di sviluppo. È difficile dunque che sia generato da problemi di pura natura economica. Più probabile è che si tratti di un fenomeno strettamente legato alla storia e alla vita dell’Occidente, come tale di carattere non tanto economico quanto intrinsecamente complesso, in certo senso esistenziale. Il turbinio delle scoperte scientifiche, per esempio, si genera prevalentemente nei paesi occidentali e incide sulla loro vita e i loro problemi assai più di quanto può avvenire in regioni dove la condizione generale è inesorabilmente diversa dalla nostra. La ricerca astrofisica che scopre un macrouniverso infinito; quella biologica che individua le stupefacenti potenzialità del microcosmo genomico; la dilatazione degli spazi conoscibili consentita a chi ne ha le possibilità dalle comunicazioni e dai trasporti; il contatto con genti incomprensibili che invadono il territorio; la intensità di percezione di eventi come il cambiamento climatico, le epidemie, l’inquinamento delle aree urbane: ebbene questi ed altri consimili fenomeni sono quasi esclusivamente “nostri”, occidentali. Nei paesi in via di sviluppo i fenomeni sono ben diversi: la miseria e i tifoni. E nell’opinione pubblica occidentale si diffondono perciò un pathos e un ethos che appena sfiorano altre regioni del mondo, e là talvolta neppure hanno senso.
Questo è il grande sfondo sul quale, in Occidente, si inseriscono le questioni di carattere economico determinate dalla globalizzazione. Peraltro, un welfare moderno e ben concepito potrebbe controllare tali questioni in modo simile a quello in cui il welfare nel Novecento controllò la sicurezza del reddito e della salute. Comunque, altro è valutare gli aspetti economici del problema dell’insicurezza, altro è affrontarlo con un approccio economicistico. E altrettanto unilaterale è l’approccio opposto, che si potrebbe definire dell’ordine pubblico: centrato, essenzialmente, sul carattere criminogeno dell’immigrazione irregolare, e ignaro apparentemente che nella società di 50 come di 100 anni fa reati analoghi a quelli odierni erano puramente italiani e il funzionamento della polizia e della giustizia era altrettanto incapace di reprimerli quanto oggi. Il forte rilievo che è dato ovunque al problema dell’ordine pubblico è ovviamente ben comprensibile. Ma esso è generato non tanto da analisi obbiettive quanto piuttosto da quell’elemento emozionale che è vivo nelle società attuali ed è largamente derivante dall’impatto di una comunicazione televisiva molto più diffusa che nel passato e basata inoltre sull’immediatezza delle immagini piuttosto che sulla mediazione della cultura dell’informazione.
In tutti i paesi europei ambedue gli approcci pesano molto, come i risultati elettorali dimostrano. Ma in essi, come si diceva, si è creata una vera montagna di questioni differenti: e al loro culmine sta, com’è naturale, quell’elemento sempre e dovunque unificante che è la politica. Sta, precisamente, la politica internazionale, come momento più alto e impegnativo della globalità.
È esatto naturalmente che le questioni internazionali possiedono tutte questa natura, fonda e grave: e dunque si comprende bene che esse, in modo anche inconsapevole, abbiano un impatto diretto sulla condizione “morale” delle persone.
È questo che si vuole dire quando si rileva che a garantire il sentimento di sicurezza di ogni nazione sta, alla base, non tanto la polizia di quartiere o il nuovo welfare quanto la vita internazionale. E una politica che sia ondivaga, instabile, timorosa, poco precisa, poco pronta, non può che apparire poco rassicurante. L’idea dunque che l’Europa possa spostare il suo barometro verso il bel tempo con l’isolarsi, chiudersi, ed erigersi in fortezza, invece di unirsi e di legarsi in una cordata comune contro ciò che la minaccia, è un’idea intrinsecamente infantile e dispiace che una parte (minoritaria) della nostra intellettualità non la consideri tale. Lo è del resto anche un’altra concezione che è propria di opposti estremismi: secondo cui la misura dell’autorità e della indipendenza dell’Europa è data dalla sua lontananza dagli Stati Uniti. Sfugge all’estremismo che essa dipende invece dal rifiuto delle posizioni, tutte interne al continente, che attanagliano il suo cammino unitario e la possibilità di influenza mondiale dell’Occidente. Si tralascia, per amicizia, di notare che in Italia c’è poi sempre qualcuno che ha la buona idea di combattere l’insicurezza tornando al protezionismo economico, al nazionalismo politico, al localismo della terra natia, ecc.




NOTE
1 G. Napolitano, Radici antiche e nuove ragioni dell’unità europea, in «Il Mulino», n. 2, marzo-aprile 2007.^
2 R. Perissich, L’Unione Europea. Una storia non ufficiale, prefazione di G. Napolitano, Milano, Longanesi, 2008; A. Giddens, Europe in the Global Age, Cambridge (Uk), Polity Press, 2006; T. Garton-Ash, Free World, Milano, Mondadori, 2005; J.P.Fitoussi, J. Le Cacheux, L’état de l’Union Européenne, Paris, Fayard, 2006; A. Alesina, F. Giavazzi, Goodbye Europa. Cronache di un declino economico e politico, Milano, Rizzoli, 2008; Rhi-Sausi, G. Vacca, Rapporto 2007 sull’integrazione europea, Bologna, il Mulino, 2007. Mi permetto di ricordare anche il mio Aspettando l’Europa, prefazione di R. Prodi, Roma, Carocci, 2007; e di segnalare altresì l’interesse della discussione tra B. De Giovanni e G. Galasso in «Mezzogiorno Europa», n. 3, luglio-agosto 2007.^
3 G. Galasso, La via dei trattati, in «L’Acropoli», 8 (2007), p. 658.^
4 La Germania, com’è noto, è il principale partner economico e commerciale della Russia e realizza con essa il gasdotto del Baltico. Ciò che tuttavia non impedisce al Cancelliere tedesco una grande fermezza nella difesa dei diritti civili e politici violati in Russia.^
5 T. Garton-Ash, La nuova alleanza tra Londra e Parigi, in «la Repubblica», 28 marzo 2008.^
6 Sono molti gli scritti che mettono in guardia contro i rischi di direttori, cooperazioni rafforzate et similia. Da ultimo cfr. R. Perissich, L’Unione Europea, cit., pp. 308-314; e S. Fagiolo, Il rischio di un’Europa ad “alleanze variabili”, in «Il Sole-24Ore», 29 gennaio 2008.^
7 G.S. Nye, Il paradosso del potere Americano. Perché l’unica Superpotenza non può più agire da sola, Torino, Einaudi, 2002.^
8 V.E. Parsi, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, prefazione di A. Panebianco, Milano, Università Bocconi Editore, 2006; G.J. Ikenberry, America senza rivali?, Bologna, il Mulino, 2004.^
9 Cfr. IMF, World Economic Outlook 2007, in www.imf.org.^
10 G.J. Ikenberry, Il dilemma dell’egemone, gli Stati Uniti tra ordine liberale e tentazione imperiale, Milano, Vita e Pensiero, 2008.^
11 È l’osservazione, in verità fondamentale, di R. Perissich al termine del volume sopra citato.^
12 «The Economist», Miracle at Turin, 26th April 2008.^
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