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Berlusconi III
di G. G.
Il risultato delle elezioni italiane del 13 aprile è stato quello che da mesi i pronostici delle più accreditate società di sondaggi in questo campo avevano previsto. Nelle ultime settimane da parte di Veltroni era stato diffuso il messaggio di un forte recupero da parte del suo schieramento: un recupero tanto forte da far dire e ripetere insistentemente, alla fine della campagna elettorale, che si era ormai a un vero e proprio testa a testa, e che addirittura non si escludeva una sconfitta, sia pure di minima misura, dello stesso Berlusconi, con una iterazione, quindi, del risultato del 2006, che aveva, per l’appunto, visto una striminzita vittoria della coalizione guidata da Prodi e una mezza sconfitta e una mezza vittoria (per la difformità dei risultati tra Camera dei Deputati e Senato) di Berlusconi. Anche i maggiori organi dell’informazione e i loro commentatori più autorevoli avevano, perciò, prospettato in ultimo la possibilità che si ponesse di nuovo per il Senato lo stesso problema di ardua governabilità che nella Legislatura 2006-2008, per cui si poteva prevedere che la nuova Legislatura e l’eventuale maggioranza berlusconiana durassero altrettanto poco; oppure che la forza delle cose portasse fatalmente alle “larghe intese”, non escluse quelle di governo, delle due maggiori forze politiche e in ciò in cui si vedeva la possibilità di effettuare riforme (a partire da quella elettorale) che fossero da esse giudicate, di comune accordo, di interesse nazionale; o ancora che anche per questo si sarebbe trattato di una Legislatura breve, in cui l’intesa (come ora si ama dire) “bipartisan” avrebbe, però, consentito di sciogliere qualche nodo della difficile stagione, anzitutto economica, che il paese sta vivendo senza cadere nel grossolano gioco delle parti che in tali stagioni è così facile e ricorrente… Insomma, una serie di ipotesi che i mutati pronostici elettorali facevano fiorire con ricco sfoggio di varianti e di subordinate.
I risultati delle votazioni del 13 aprile hanno immediatamente spazzato via la ridda delle ipotesi e delle loro varianti e subordinate. Il verdetto delle urne è stato drastico e ha dato a Berlusconi la vittoria che egli fino all’ultimo aveva previsto, affermando che i sondaggi della prima ora erano stati indebitamente revocati in dubbio e che essi continuavano a essere validi e a dare la medesima previsione di sua vittoria. È la seconda o terza volta che questo accade e che le previsioni dello stesso Berlusconi in materia di risultati elettorali sono confermate pressoché alla lettera contro tutte le affermazioni degli avversari in contrario. Sarà perché egli ha la possibilità di avvalersi di società demoscopiche più affidabili?
Dobbiamo dire, però, che la forzatura previsionale di Veltroni è più che comprensibile e merita di più che una semplice indulgenza. Era uno dei pochi modi a disposizione del
leader del Partito Democratico per tentare di compattare e galvanizzare in una difficile competizione elettorale una forza politica, un partito ancora allo stadio della vita neonatale.
E, anche se l’operazione non ha fatto registrare un risultato roseo, nessuno può immaginare come le cose si sarebbe messe se Veltroni non avesse suonato la carica.
Contrariamente ad almeno una parte dei commenti, i risultati delle elezioni, prescindendo dagli interessi di parte, non sono stati affatto cattivi.
Innanzitutto – la semplificazione che essi hanno introdotto nello schieramento politico italiano è un evento da salutare col massimo favore, e ciò per ragioni così evidenti che non hanno nemmeno bisogno di essere illustrate. In secondo luogo – le urne hanno consegnato a Berlusconi una maggioranza tranquilla in entrambi i rami del Parlamento, evitando così il rischio di un’altra fase di incerta e difficile governabilità (né crediamo che gli potranno fare molte difficoltà la Lega o qualche altra componente della sua parte). In terzo luogo – la completa sparizione della Sinistra Arcobaleno dalle aule parlamentari non è affatto quella triste evenienza della democrazia che in molti (davvero troppi!) si sono affrettati a proclamare, ed è, al contrario, la felice determinazione di una circostanza che potrà persuadere le forze della sinistra (la più e la meno radicale) nel suo insieme a una visione più moderna e funzionale della lotta politica e delle sue prospettive. In quarto luogo – il disimpegno del Partito Democratico da responsabilità di governo potrà consentire a questa ancor giovane forza politica di strutturarsi e di articolarsi secondo le migliori esigenze di un paese moderno quale l’Italia aspira ad essere e che finora non è riuscita politicamente a diventare. In quinto luogo – la drasticità dei risultati elettorali promette di rendere possibile il superamento del quindicennio che il paese sta vivendo dal momento della cosiddetta “tangentopoli” e che si è dimostrato finora inconcludente, come lo stesso Veltroni ha sentenziato con apprezzabile franchezza nel corso della campagna elettorale. In sesto luogo – se il problema sono le “riforme” tanto invocate e sospirate, ma molto meno precisate e dettagliate, le nuove condizioni le permettono più, di certo, di quanto lo abbia finora permesso o consentito la situazione determinatasi in questo quindicennio.
Vogliamo dire con ciò che si apre una fase rosea per il paese? Naturalmente, no. Ci sono tutti i problemi di prima delle elezioni, e ci sono i problemi del dopo-elezioni, sia dipendenti dalle elezioni stesse, sia dovuti all’evolvere delle cose, non governato dalle scadenze elettorali. Avremo ampio modo di intrattenerci su questa materia nei prossimi mesi. Per ora si deve prendere atto che le elezioni del 13 aprile sono state anche più importanti e sconvolgenti di quanto per lo più si prevedesse. Il precedente analogo più immediato è senz’altro quello delle elezioni del 1994, che segnarono l’avvento, del tutto imprevisto, e ancora meno ritenuto possibile, nonché probabile, dell’astro di Berlusconi nel firmamento politico nazionale. Furono anche le elezioni che, col dissolvimento degli equilibri e dei rapporti di forza del precedente cinquantennio, avviarono la vicenda del quindicennio, che ora sembra concludersi, e concludersi, come si è detto, nel segno dell’inconcludenza (il che non vuol dire, naturalmente, che questi quindici anni siano passati sul corpo e nello spirito del paese come acqua fresca).
Il compito delle forze politiche è, perciò, innanzitutto quello di fare in modo che un periodo nuovo e ben altrimenti concludente e innovativo e costruttivo si apra per il paese, che ne ha estremo bisogno. Si parla addirittura di dubbia permanenza dell’Italia nel gruppo della diecina o poco più di paesi più avanzati (i “Grandi”), dai quali vengono impulsi e, talora, decisioni di primaria importanza nella vita economica internazionale. Si parla della possibilità che entro, più o meno, il 2020 l’Italia si possa ritrovare in Europa al livello (e al rango) di paesi come la Romania. Si parla di un periodo di “crescita zero”, dalla durata imprevedibile, ma dalle prevedibilissime conseguenze.
Siamo, peraltro, convinti che i problemi di ordine economico e sociale, per quanto tali da far tremare le vene e i polsi, non siano, pur sempre, tali da sopravanzare quelli di ordine etico-politico. Lo spirito pubblico, la disciplina sociale (che è poi, in effetti, null’altro che autodisciplina), il senso civico come quello nazionale e quello europeo, la volontà di impegno e di partecipazione (che non è misurata dall’affluenza alle urne, sempre alta in Italia a dispetto di tutte le prèfiche dell’assenteismo e del disinteresse per la cosa pubblica), il discredito della classe politico-amministrativa, la sfiducia generale nei servizi e nelle funzioni pubbliche impongono un compito di costruzione e di ricostruzione proporzionato alle necessità stratificate e cospicue di un paese, che da sempre ha potuto essere definito come una “nazione difficile”.
Questo enorme e primario compito non è, invero, solo della classe politicoamministrativa, né solo delle classi dirigenti. Tanto meno può essere rimesso alla iniziativa partigiana o superficiale dei Grillo, dei Celentano, dei Benigni, dei Dario Fo, dei Moretti and Company, tutti uomini apprezzabilissimi e preziosi nello spettacolo, assai meno in quanto protagonisti di una funzione politica surrettizia, i cui effetti, poi, allo stringere, sono molto modesti; oppure alle recitazioni in video e audio di “anchormen” tanto supponenti e sentenziosi quanto anch’essi, allo stringere, altrettanto poco influenti e ancora meno concludenti. Questo compito dovrebbe avere, piuttosto, fra gli altri partecipanti e protagonisti, gli uomini di cultura, non in quanto insopportabile e vanesia classe degli “intellettuali” (un termine dei meno felici, anche se spesso utile e molto indicativo), o in quanto predicatori, di solito faziosi, di questo o quel verbo ideologico o parola d’ordine politica, né in quanto “tecnici” e “competenti” o “specialisti” di questo o di quello, ma in quanto cittadini come gli altri, e con gli altri impegnati nel dibattito sulle questioni di pubblico interesse e nella ricerca, costruzione e realizzazione di “una certa idea” di quel che è o può essere la vita di una nazione libera, stimabile e moderna.
Purtroppo, le note sul fronte della cultura e degli intellettuali non mostrano di essere nell’Italia di oggi molto più liete che su altri fronti. Ma la nostra non vuole essere una ennesima edizione della insopportabile geremiade nazionale. I problemi e i rischi fra cui si muove l’Italia sono, come abbiamo detto, di enorme spessore. Ma che l’Italia stia tirando le cuoia ci sembra del tutto campato in aria. Se ne sono viste di peggio, e se ne è usciti. E avremo una vista molto distorta, ma a noi l’Italia continua ad apparire come un paese giovane (anche animalescamente giovane, e per questo verso di difficile digeribilità), e per nulla vecchio e decrepito.
Che cosa, comunque, alla luce di queste considerazioni, si deve pensare, intanto, della nuova Legislatura e della composizione del nuovo governo?
Per la Legislatura l’unico dato immediatamente apprezzabile è stato l’elezione dei due presidenti delle due Camere. Elezione che è stata quella prevedibile, e davvero non si è capito perché da parte del Pd si sia lamentato che entrambe le presidenze siano toccate alla maggioranza. È quel che la sinistra fece due anni fa, con l’aggravante di affidare (per fortuna, con ottima scelta) a un suo uomo anche la prima carica dello stato.
Per il governo le sorprese non sono mancate, ma hanno avuto soddisfazione tutte le componenti della maggioranza. Sulle persone è meglio riservare il giudizio alla prova dei fatti, anche perché accanto al ritorno di veterani più che provati (a cominciare da Tremonti) si sono avute molte
new entries, molti debuttanti. Non si può fare meno, tuttavia, di notare la giovane o giovanissima età e la diffusa caratteristica di una scarsa o scarsissima notorietà pubblica di molti dei nuovi ministri. Una carta consapevolmente giocata da Berlusconi per avere una “squadra” più docile, più rimessa alla sua guida? O una consapevole scommessa sulle qualità e le possibilità di questi giovani?
Lo vedremo, ma anche a questo riguardo osserviamo che i commenti della sinistra non sono apparsi i più indovinati. Troppe poltrone, si è detto, nel nuovo governo, dimenticando che nel governo Prodi erano 29 i ministri e oltre 70 i viceministri e sottosegretari contro i 21 e i circa 40 del nuovo governo. e “governo deludente”, si è pure detto. Ma deludente per chi e per che cosa?
A noi questi commenti sembrano superficiali e anche dannosi, come sempre, quando si altera o si disconosce la realtà delle cose (e questo vale non solo per l’opposizione). E, a dirla tutta, non molto più felice sembra anche, per come la si è attuata, l’idea del governo-ombra: lo stesso numero (e gli stessi incarichi) del governo vero, e qualche
new entry non meno sorprendente di quelle berlusconiane. Che senso ha? Il governo-ombra ha un senso se, come in Inghilterra, consiste in un ristretto cabinet destinato a occuparsi dei punti davvero strategici per il paese e nella condotta del governo.
Non è, però, su questo che vogliamo insistere, bensì sui rischi di logoramento sia della maggioranza che dell’opposizione. Se ne hanno varii segnali: nella maggioranza la difficoltà di comporre la “squadra” dei viceministri e sottosegretari, nell’opposizione la visibile frattura Veltroni-D’Alema; nella maggioranza la difficoltà di controllare a sufficienza visceri e umori di una realtà che non ha ancora raggiunto la consistenza mentale e comportamentale di una classe politica sperimentata, nell’opposizione la difficoltà di trattenere entro limiti accettabili l’autonomia di alcuni massi erratici al suo interno (quale in particolare il gruppo Di Pietro).
Il nostro auspicio è che questi segnali restino soltanto segnali, e segnali in progressiva regressione. Ne va dell’interesse generale del paese, che rischia altrimenti di perdere i grandi vantaggi della semplificazione del 13 aprile. E lo auguriamo specialmente per la sinistra, alla quale tocca la responsabilità nazionale di primissimo ordine di svolgere al meglio al funzione dell’opposizione, che è l’indispensabile sale di ogni vero e sano regime liberaldemocratico, e l’ancora più rilevante responsabilità di costruire l’alternativa di un’alternanza che si impone non per le debolezze, le insufficienze, gli errori e, insomma, per la cattiva o pessima prova dell’attuale maggioranza, ma per la forza ideale e politica, programmatica e operativa di ciò che sostiene e promuove e per la sua effettiva idoneità a guidare e segnare i rinnovamenti e gli sviluppi di cui ogni paese ha sempre bisogno, e in particolare – e sappiamo quanto e perché – ha bisogno l’Italia.
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