Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno VIII - n. 1 > Saggi > Pag. 9
 
 
La Finanziaria per il 2007: quattro direzioni di marcia, ed un caveat, per ritrovare la crescita
di Massimo Lo Cicero
1. Sommario e contenuti

Nello schieramento di centrosinistra si è discusso con accanimento se sia stata la comunicazione, con cui è stata accompagnata, od il contenuto che essa esprime ad avere generato le difficoltà che hanno progressivamente appesantito il cammino parlamentare del disegno di legge finanziaria. Un secondo interrogativo che si ritrova nell’agenda politica del centrosinistra sembra essere solo nominalistico ma, come vedremo nelle conclusioni di questo articolo, la realtà delle cose va oltre la disputa terminologica. Si tratta, così come il problema viene presentato nelle cronache di stampa, della opposizione terminologica che alimenta il confronto interno all’attuale maggioranza di Governo. Con l’approvazione si è chiusa una prima fase della politica economica o si è solo realizzato un primo passo nella direzione indicata dal programma che aveva unito il centrosinistra prima e durante la campagna elettorale? Se è vera la prima affermazione si tratta, con il nuovo anno, il 2007, di aprire una seconda fase, quella delle riforme, essendo stata la prima quella della stabilizzazione dei conti pubblici e del ripristino dell’equità sociale: danneggiate entrambe dai cinque anni di governo del centrodestra. Esaurita questa sorta di riparazione necessaria, dopo la parentesi Berlusconi, si tratterebbe ora di mettere in movimento un processo riformatore radicale, capace di avviare a soluzione i problemi che paralizzano o rallentano, secondo il giudizio di molti osservatori, il tasso di crescita dell’economia italiana.
Un corollario di questa presunta opposizione - tra difensori della continuità del programma elettorale, attraverso le misure disposte con la legge finanziaria per il 2007, che si proietta sul futuro prossimo del centro sinistra, e coloro che vogliono la discontinuità per marcare un salto di qualità nell’azione di governo, il che implicitamente significa che la qualità della prima fase non sia stata entusiasmante - si ritrova nel confronto in essere sulla nascita e la dislocazione internazionale di un partito democratico, capace di raccogliere sia l’eredità del riformismo cattolico che di quello socialista.
In questo articolo cerchiamo di ricostruire i passi del percorso compiuto, per dare forma alla legge finanziaria, ed offrire ai lettori una chiave di interpretazione sulla disputa che oppone i contenuti alle modalità di comunicazione della politica economica.
Cominceremo dall’analisi dell’impianto politico che ha guidato la campagna elettorale del centrosinistra.
Lo spirito con cui essa è stata condotta si è espresso in una comunicazione deformata circa la situazione dell’economia italiana. Poca chiarezza sulla congiuntura che andava migliorando; sostanziale indeterminatezza sulle cause del declino strutturale - che si è rivelato essere la forbice tra una produttività decrescente, in termini sistematici e sistemici, ed un progressivo apprezzamento dell’euro sul dollaro - ed un eccesso di aspettative suscitate, davvero improvvidamente, se la partenza del nuovo ciclo politico doveva avvenire da un punto tanto basso come quello che veniva descritto. Perché non sarebbe stato possibile rimontare da quella posizione in tempi compatibili con l’esigenza di raccogliere e consolidare il consenso necessario ad un risanamento da “lacrime e sangue”.
Altrettanto improvvidamente, come vedremo, la legge finanziaria ha assunto il connotato di una intensa stretta fiscale e, come tale, ostile alla ripresa congiunturale in atto. Inoltre, anche quando l’amento delle imposte si è tradotto in una diversificazione radicale della spesa pubblica, esso è apparso troppo contenuto ed opaco, negli effetti e nella percezione dei benefici, per chiudere lo scarto tra consenso atteso e sostegno necessario per attivare davvero un processo di cambiamento. Insomma, e per anticipare la conclusione dell’analisi, sembra che il difetto principale sia stato nel contenuto e nel carattere della politica economica proposta e non certo nella modalità con cui essa è stata comunicata alla popolazione 1.
Si può replicare che nel programma elettorale, tanto esteso da essere praticamente illeggibile, erano scritte cose diverse ma il messaggio, che è stato veicolato dal Governo sui mezzi di comunicazione, è proprio la terna che abbiamo richiamato prima: una diagnosi incompleta e fuorviante del ciclo economico in atto; una sottovalutazione delle cause strutturali che frenano la crescita del paese; una manovra finanziaria di alto impatto, perché bisognava “metteva fieno in cascina” , essendo questo il primo appuntamento, e dunque il più lontano dal prossimo ciclo elettorale, con il tema spinoso del riordino dei conti pubblici.
I primi annunci, subito dopo la vittoria elettorale, erano di sapore diverso e si potevano leggere nel DPEF. Accolto positivamente da molti commentatori e dalla stesso Governatore della banca centrale, che, nella relativa audizione parlamentare, confermava come il problema da gestire fosse la crisi della finanza pubblica ma «in assenza di risparmi strutturali di spesa, il risanamento richiederebbe, come in passato, ulteriori interventi di inasprimento del prelievo». Enumerando, di seguito i capitoli di questo programma di riforme necessarie per rendere stabili nel tempo i risparmi nell’impiego di fondi pubblici: pensioni, sanità, pubblico impiego, decentramento ed enti locali.
Un traguardo condiviso di politica economica avrebbe dovuto avere, insomma, da parte dello schieramento di centrosinistra, un disegno razionale, un percorso condivisibile ed una speranza realizzabile.
Non si può dire che la legge finanziaria discussa ed elaborata in Parlamento abbia avuto queste tre caratteristiche.
Il resoconto dell’ultimo Bollettino Economico, aggiornato al 15 novembre e rilasciato dalla Banca d’Italia, la descrive molto crudamente. Mancano, in questa descrizione, gli ultimi episodi parlamentari, con il doppio voto di fiducia alle camere su due liste di commi tanto numerosi da essere incontrollabili da parte della stessa maggioranza, ma si tratta certamente di un quadro realistico sullo stato dell’arte. La crescita economica del 2006 è robusta; il miglioramento dei conti pubblici nel primo semestre è stato brillante.
Le entrate aumentano oltre l’8% rispetto al primo semestre del 2005; le spese solo del 2,9%. Questo il giudizio degli analisti della banca centrale. Le diagnosi del centrosinistra durante la campagna elettorale erano state, in altre parole, eccessivamente negative.
Alla data del 15 novembre, sempre secondo glii analisti della banca centrale, le dimensioni della manovra cifrano 34,4 miliardi di euro: 24 provenienti da maggiori entrate e 10,4 da minori spese. Di queste risorse 15,3 miliardi vanno alla riduzione dell’indebitamento netto; 19,1 miliardi sostengono lo sviluppo mediante provvedimenti di spesa. I saldi netti sono più eloquenti. Dai 24 miliardi di nuove entrate bisogna dedurre 5,1 miliardi per sgravi concessi alle imprese. Restano 18,840 miliardi che - dedotte spese per 10,4 miliardi di euro ed aggiunte altre spese per 13,970 - generano il rimborso di 15,270 miliardi di debito e maggiori spese nette per 3,570 miliardi.
Sono evidenti le due anime della manovra: ridurre il debito e ridistribuire il reddito tra gruppi sociali mediante il gioco delle imposte e della modificazione delle voci di spesa.
Ma è evidente anche il fatto che l’aspettativa di Draghi, formulata nel commento al DPEF, sia stata disattesa. Per l’eccessivo ruolo della componente fiscale e l’assenza di ogni riferimento ai temi indicati come riforme necessarie ed organiche. Questo impianto è stato sostituito dal rispetto, necessario, del maggior prelievo fiscale per dare un colpo significativo al decremento del debito pubblico, ed una manovra, realizzata all’insegna dell’equità sociale, che si risolve nella redistribuzione di quote marginali di reddito attraverso il gioco delle entrate e delle spese pubbliche. Su questo ultimo approccio l’anali economica avanza da molti anni serie perplessità.
All’inizio degli anni settanta Kenneth Arrow, Nobel per i suoi studi di economia, scriveva:
Per quanto riguarda la giustizia distributiva, ogni concetto di bene sociale presenta dilemmi fondamentali [...] possiamo cambiare la distribuzione del reddito e, dopo la redistribuzione, lasciare operare un sistema dei prezzi debitamente corretto [...] ma, naturalmente, in questo modo togliamo a qualcuno e diamo a qualcun altro. Siamo di fronte ad un conflitto diretto, non ad un conflitto che possa essere risolto mediante integrazione, con l’aumento congiunto del benessere di ciascun individuo.

E concludeva che non esistono criteri oggettivi per superare questi dilemmi. «I fatti decisivi sono l’incommensurabilità e la comunicabilità incompleta dei bisogni umani» 2. Sembra un giudizio sulle nostre cronache parlamentari ma è stato scritto solo trentacinque anni prima. Davvero singolare pensare che una comunicazione migliore - ma non si dice mai come avrebbe potuto esserlo partendo da questi contenuti - avrebbe potuto ottenere un consenso diffuso sul loro effetto.
Nel seguito di questo articolo prendiamo in esame le cause della lenta, o quasi nulla, dinamica economica che la legge finanziaria avrebbe dovuto affrontare e ribaltare; l’impianto della legge finanziaria e la sua intrinseca fragilità, sia sul terreno politico che su quello dell’impatto economico; le nuove linee di azione che, una volta assunte, potrebbero rendere la politica economica più efficace rispetto al traguardo dell’accelerazione della crescita. Nel ripercorrere l’analisi della situazione economica alle nostre spalle, e la sua probabile evoluzione, faremo spesso ricorso ai giudizi che Mario Draghi, nel primo anno del suo mandato come Governatore della Banca Centrale, ha proposto agli attori economici e politici del paese.


2. La tenaglia che frena la crescita: il cambio dell’euro con il dollaro e la produttività del sistema

Telecom, ha raccolto nella città di Venezia dieci premi Nobel (Telecom Colloquia Novembre 2006) per affrontare le grandi questioni del mondo contemporaneo. Tra gli economisti era presente Bob Mundell, che ha ricevuto un premio Nobel per i suoi studi sull’OCA, l’optimal currency area. Mundell, nella ricerca delle dimensioni ottimali di un’area valutaria multinazionale ha posto le basi analitiche per l’esperimento dell’euro, che oppose il rilancio del vecchio continente, come attore unitario, alle ambizioni egemoniche degli Stati Uniti.
Proprio Mundell, al meeting di Venezia, ha espresso molti dubbi sulle dimensioni del cambio attuale tra euro e dollaro e sull’atteggiamento della Banca Centrale Europea rispetto a questo problema. L’euro ha sfondato dal dicembre del 2004 il tetto di 1,30 nel cambio con il dollaro americano. Con un euro si comprano oggi un dollaro ed un terzo di dollaro nei mercati internazionali. Una forza eccessiva, quella della moneta europea, che potrebbe compromettere la tiepida ripresa economica del vecchio continente ed aiutare, al contrario, gli Stati Uniti a ritrovare il ritmo della propria crescita interna che, negli ultimi mesi, aveva attenuato la propria velocità.
Molto diversa da quella di Mundell è l’opinione del presidente degli industriali tedeschi, Jurgen Thumann, che ha dichiarato a «Il Sole 24 Ore», sempre nel mese di novembre, che l’industria tedesca può sopportare tranquillamente anche un cambio di 1,4 - e forse di 1,5 - tra l’euro ed il dollaro americano. Molto più perplesso, invece, appare, nel corso di un intervista apparsa, ancora sulle colonne de «Il Sole 24 Ore», William McDonough, vice presidente di Merry Linch, che è stato, per molti anni uno dei principali dirigenti della Federal Reserve ed uno dei primi collaboratori di Alan Grenspan, l’ex presidente della banca centrale americana, che ha lasciato il suo incarico nelle mani di Ben Bernanke3. Il confronto tra queste diverse opinioni non rappresenta solo il tema di una possibile querelle scientifica tra studiosi di economia monetaria internazionale. Dal cambio tra euro e dollaro dipende sia il tono della dinamica reale dell’economia mondiale che lo spostamento di ingenti capitali tra le varie aree del mondo. Perché il livello dei cambi è collegato a quello dei tassi di interesse sui titoli e perché le riserve valutarie mondiali si modificano nella propria composizione secondo le dinamiche attese dei tassi di interesse e dei cambi.
Proprio McDonough, nell’intervista che abbiamo ricordato, ricorda che il 66% delle riserve valutarie delle istituzioni monetarie internazionale è ancora denominato in dollari americani mentre solo il 23% di quelle riserve è oggi denominato in euro. Con un dollaro che si deprezza verso l’euro, il rapporto tra le due monete, nella composizione di quelle riserve, potrebbe spostarsi in favore dell’euro. Ma, se questo avvenisse, gli Stati Uniti - che oggi scontano un grande deficit delle partite correnti nella propria bilancia dei pagamenti (importano più di quanto esportano), pari quasi al 7% del proprio prodotto interno lordo - ritroverebbero una straordinaria forza competitiva per collocare le merci prodotte dalle imprese americane sui mercati europei.
Ed infatti, se si legge una delle ultime previsioni formulate in pubblico da Bernanke, l’attuale presidente della Federal Reserve, si nota uno stile molto diverso da quello dei suoi colleghi europei.
Bernanke, che parlava di fronte ad un pubblico di banchieri ed uomini di affari ad un meeting organizzato a New York il 28 di novembre, affronta la situazione americana seguendo un percorso logico molto eterodosso rispetto a quello dei banchieri centrali europei4.
Il custode della moneta americana, ma anche della crescita economica del suo paese, secondo lo statuto della Federal Reserve, parte dalla dinamica della produttività e dei livelli di occupazione, passa in rassegna cinque anni di crescita ininterrotta e commenta sia l’affiorare di una pressione sui prezzi che di un rallentamento in alcuni comparti. Conferma che la banca centrale non esiterà a manovrare i tassi di interesse per contrastare l’inflazione, se essa fosse eccessiva, ma non dimentica di guardare, nel lungo periodo, piuttosto agli effetti sullo sviluppo dell’economia americana che non a quelli sulla stabilità dei prezzi. Sorprende la coincidenza nell’impianto logico analitico tra l’esposizione di Bernanke e quella di Rakesh Mohan, Deputy Governor della Reserve Bank of India, la banca centrale di quel paese, che è intervenuto ad un congresso a Jakarta nella seconda metà di novembre. Anche il governatore della moneta indiana guarda ai problemi della crescita, nel suo paese, ed a quelli della stabilità monetaria nei rapporti di cambio alla scala del mercato mondiale.
È consapevole dei risultati ottenuti dall’India in questi anni ma anche del fatto che deve aumentare l’integrazione tra l’economia indiana e quella mondiale. Ragiona sugli effetti virtuosi della globalizzazione dei mercati finanziari e sulla necessità, proprio come Bernanke, che il sistema delle banche centrali e quello delle banche commerciali vigilino sulla consistenza patrimoniale degli intermediari e sulla qualità dei flussi finanziari. Perché la prosperità del mondo riposa sulla cooperazione tra banche centrali ed intermediari ed, in definitiva, anche sulla capacità dei mercati di allocare con efficienza la grande quantità di risparmio alla ricerca di impieghi remunerativi5.
Molto diverso l’approccio dei responsabili della Banca Centrale che governa l’euro. Basta leggere un discorso, tenuto da Trichet, il presidente della BCE a Francoforte il 10 di novembre. In questo caso la sfera degli interessi analitici è tutta monetaria e l’attenzione del banchiere centrale si concentra sulle relazioni tra credito e moneta ma lascia ad altri - i Governi e le Imprese private, evidentemente - il compito di trovare una soluzione accettabile al problema della crescita della ricchezza, che rimane, tuttavia, la premessa materiale di ogni futuro incremento del benessere, sia per la popolazione europea che per quella mondiale6.
Quali possono essere le conseguenze di questa asimmetria, analitica e cognitiva, tra le banche centrali? Probabilmente questa eterogeneità di atteggiamenti si risolverà in uno sviluppo delle relazioni multilaterali tra le economie mondiali, che premieranno, in termini di crescita reale, sia i mercati americani che quelli del far east asia e dei paesi in via di sviluppo. Può anche essere che, alla fine del processo, nelle riserve delle banche centrali, in Cina ed in qualche altro paese asiatico, ci sia un 5% in più di euro ed una quota analoga in meno di dollari americani. Ma senza la crescita delle esportazioni tedesche, in presenza di un dollaro troppo debole rispetto all’euro, non ci saranno neanche commesse per le imprese italiane che vendono semilavorati e macchinari in Germania. Secondo Mundell, il premio Nobel che ha contribuito a creare l’euro, la quota del cambio, pericolosa per i paesi europei è 1,30; nella prima tabella allegata a questo testo si legge che essa è stata superata ma la Banca Centrale Europea non intende affatto ridurre i tassi di interesse e questo atteggiamento finirà per rafforzare ulteriormente l’euro rispetto al dollaro.



Cambi Giornalieri Dollaro Usa in Euro





Nella tabella, che abbiamo citato, si può osservare un trend al rialzo del cambio dell’euro rispetto al dollaro americano che parte alcuni anni prima del 2004 e rimane piuttosto sostenuto. L’euro nasce nel gennaio del 1999 ed il suo percorso iniziale è radicalmente discendente. Nell’ottobre del duemila l’euro sfonda, come dissero ironicamente i quotidiani finanziari, la sua quota novanta rispetto al dollaro americano; vale il dieci per cento in meno di una unità della valuta degli Stati Uniti. Ma, da quel momento, inizia una ripresa assai sostenuta. Dal 2000 al 2004, come si vede dal grafico, ci sono sette picchi consecutivi e, dopo una pausa nell’ultimo anno, un ottavo picco che, tuttavia, è di poco inferiore a quello del 2004. Nel grafico abbiamo riportato entrambi i trend possibili: la parabola mostra la significatività statistica di una eventuale ulteriore impennata. Questa è anche la tesi dei chartisti, analisti che guardano il problema in termini adattivi. Un simile giudizio riposa anche sulla numerosità dei picchi precedenti che abbiamo appena evidenziato. Ma l’interpolante, tracciata con una equazione di terzo grado, mostra anche la probabile significatività di un percorso di rientro verso la normalità, che, in questo caso, significherebbe il rientro in un bordo più aderente alla parità con cui venne emessa la moneta europea. Nessuno può affermare con sicurezza quale dei due scenari sia più verosimile per il futuro. Certamente il futuro dipenderà dai comportamenti, e dalle opinioni, delle banche centrali e degli attori economici. Essi si influenzano vicendevolmente e questa mutua interdipendenza rappresenta la principale fonte di incertezza sulle future dimensioni del cambio tra le due valute. Ségolène Royal, ma anche economisti italiani, come Paolo Savona, ritengono che questa variabile, il cambio, sia troppo delicata e strategica per il futuro europeo per lasciare la sua dimensione affidata solo alle banche centrali, tenendo fuori dalla partita il giudizio dei Governi.
Questo non è il problema sul quale attiriamo l’attenzione dei lettori ora. Vogliamo rappresentare, invece, la presenza di un potente vincolo esterno - il trend ascendente dell’euro - che ha condizionato le esportazioni europee negli ultimi cinque anni e che ha rappresentato, di conseguenza, un potente freno anche alla espansione dell’economia italiana sui mercati internazionali. Perché molti dei paesi emergenti utilizzano come valuta di riferimento il dollaro e perché le esportazioni della Germania, e di conseguenza la domanda che da quel paese proviene per le imprese italiane, restano condizionate dalla forza crescente dell’euro. Essa è la prima lama della forbice che spiega la stagnazione dell’industria e dell’economia italiana negli ultimi anni.
Questa lama taglia con durezza la nostra crescita anche perché le nostra offerta aggregata difetta di una strategica qualità competitiva: difetta di produttività, sia alla scala del lavoro impiegato che a quella del sistema, economico e sociale, in cui quel lavoro viene utilizzato.
La capacità di produrre, a costi tali da reggere la competizione sui mercati di riferimento, dipende sia dalle dimensioni del mercato del lavoro rispetto a quelle demografiche del paese che dalla quantità di persone che su quel mercato riesce a trovare una occupazione stabile e non rimane senza lavoro. Due indicatori cruciali, per quanto riguarda questi problemi, sono il tasso di attività e quello di occupazione: il primo misura il quoziente tra le forze di lavoro, occupati e disoccupati, rispetto alla popolazione in età da lavoro; il secondo misura il quoziente tra gli occupati e la popolazione in età da lavoro7.
La seconda tavola, inclusa in questo testo, mostra le dimensioni di entrambi i tassi che indicano la dimensione e lo spessore del mercato del lavoro per l’Unione Europea, l’Italia ed il Nord ed il Sud del nostro paese. Essa è stata disegnata partendo da elaborazioni contenute nella Relazione Generale per il 2005 presentata nel maggio 2006 dalla Banca d’Italia. I dati che riguardano le due regioni italiane, il Nord ed il Sud, non sono confrontabili, causa l’eterogeneità delle rilevazioni di base, con le medie italiane che, invece, sono confrontabili con quelle europee. Si nota, con grande evidenza, lo scarto tra le dimensione europee e quelle italiane ma anche lo scarto che divide il mercato del lavoro nel Nord da quello osservabile nel Sud. Ne esce confermata la tesi che la produttività del lavoro sia più bassa nel nostro paese perché sia le forze di lavoro che gli occupati, rispetto all’offerta potenziale di lavoro, risultano inferiori a quelle osservabili in Europa, che, a loro volta, come spiega Prescott, sono inferiori rispetto alle grandezze equivalenti osservabili sul mercato degli Stati Uniti. Molte delle diagnosi della Banca Centrale, riportate in questo articolo, confermano inoltre il tratto decrescente della produttività del lavoro e della produttività complessiva del sistema Italia, la total factor productivity, siano decrescenti e rappresentino la base oggettiva della fragilità competitiva della nostra economia. Apprezzamento del cambio, tra euro e dollaro americano, e declino nella produttività, dei fattori e del sistema, rappresentano le due lame della forbice che frena la crescita nel nostro paese mentre le nicchie, riparate dalla competizione, esistenti sul mercato domestico consentono ad alcune organizzazioni economiche di maturare profitti di monopolio e rendite di posizione. Sono questi gli avversari che avrebbe dovuto combattere il Governo con la legge finanziaria e non solo limitarsi alla stabilizzazione dei conti pubblici.


3. Dal Documento di programmazione economica e finanziaria alla Legge finanziaria

Chiuse le urne elettorali, e reso noto il risultato della competizione, i punti critici dell’economia italiana erano tre: possiamo considerarli come le questioni emergenti da collocare al vertice dell’agenda della politica economica.
La progressiva erosione della produttività economica e la caduta di capacità competitiva che ne segue; la pesante situazione della finanza pubblica e la fragilità che da essa deriverebbe in presenza di un aumento dei tassi di interesse ed/o di una dilatazione ulteriore del debito pubblico; la frattura oggettiva tra Nord e Sud del paese.
La terza circostanza aveva anche un pesante riflesso nella eterogeneità delle maggioranze emerse dalle urne nelle diverse circoscrizioni territoriali del paese. Le cronache successive hanno, inoltre, confermato l’esistenza di una asimmetria, che deriva da quella frattura, nei comportamenti degli attori sociali. I ricchi non si preoccupano troppo della crescita, per la loro condizione oggettiva, ed i poveri sono ostili al rischio, almeno fino a quando non esistano reti di sicurezza ed ammortizzatori capaci di attenuare i costi di un fallimento.
Il paradosso del caso italiano è evidente.
Il Sud ha paura della crescita ed avrebbe bisogno di politiche di supporto ma preferisce avere protezione sociale. La società settentrionale, essendo capace di far crescere la propria economia senza supporti pubblici, pretende la riduzione della pressione fiscale ed esige politiche di redistribuzione e di protezione sociale per i deboli, residenti nelle aree forti.
In questo contesto, asimmetrico sia sul piano degli atteggiamenti sociali che su quello delle condizioni oggettivamente dualistiche dell’economia italiana, il Governo Prodi si presenta con un primo impianto analitico condivisibile - quello del DPEF - e con una imprevista e tempestiva scommessa in direzione di prime misure di liberalizzazione, nella prospettiva di un rafforzamento della qualità e della intensità della competizione sul nostro mercato domestico.
Viene varato con un decreto legge il pacchetto di politica economica di mezza estate, che propone tutela dei diritti dei consumatori e della concorrenza; correzione del bilancio; inasprimento della lotta all’evasione fiscale; disciplina più onerosa per le compravendite immobiliari. I protagonisti di questa sintesi ragionevole sono quattro: Padoa Schioppa, Vincenzo Visco; Antonio Di Pietro e Pierluigi Bersani. Padoa Schioppa aveva enfatizzato, in un primo momento, l’esigenza di una cura molto radicale per la finanza pubblica ma si accontenta, invece, di una manovra i cui effetti si realizzeranno nei prossimi due anni. Visco aveva trovato strumenti compatibili con l’esigenza di fare cassa e con quella, non meno importante, di evitare una percezione da lacrime e sangue come prima mossa del Governo di centrosinistra. Di Pietro portava a casa il riconoscimento dovuto a chi ha evitato la chiusura radicale della spesa per le infrastrutture ed ha assicurato la continuità dei pochi investimenti in conto capitale realizzabili. Ma Bersani è il ministro che porta a casa il risultato migliore. E’ entrato sulla scena discretamente e si è garantito le riforme che non costano: l’avvio di un processo di liberalizzazione, nella vendita dei farmaci come nei servizi pubblici o nelle attività professionali, del quale si sentiva il bisogno.
Si tratta di un buon segnale, una scelta necessaria per assecondare la ripresa economica, ma che non è ancora una garanzia che quella ripresa sia supportata al meglio dal comportamento del Governo. Per vedere, commentare e giudicare una strategia di ripresa della crescita dovremo aspettare la legge finanziaria in autunno. Ma, mentre il DPEF annuncia riforme per la sanità, il regime delle pensioni ed il sistema della finanza locale, l’unico ministro che firma scelte che guardano alla crescita e non alla stabilizzazione è proprio Bersani. Così facendo egli apre una stagione controcorrente ma dovrà tenere il punto e darsi da fare anche in altre direzioni. Molte delle tariffe che colpiranno il reddito delle famiglie italiane nei mesi successivi sono applicate da grandi reti di servizio - dal gas, all’energia ed alle telecomunicazioni - che operano su mercati in cui di concorrenza non si può ancora parlare.
Tagliare alcuni dei lacci e laccioli che offrono la possibilità di catturare un valore - espresso in euro e non sempre percepibile nella sua reale onerosità da parte dei consumatori – per coloro che vendono beni e servizi sul mercato domestico è una scelta meritoria e da condividere. Proprio la condivisione della scelta, tuttavia, impone di avanzare anche alcuni interrogativi. Questo primo pacchetto di misure economiche si chiude nella forma di un decreto legge e non di un disegno di legge. Da un parte esso diventa immediatamente applicabile, dall’altra ci ricorda che esso dovrà essere convertito e richiederà, per questo risultato, il ricorso ad un voto di fiducia. La difficile praticabilità degli ordinari percorsi parlamentari, i disegni di legge, impone questa singolare procedura in cui la tempestività degli effetti sembra piuttosto la conseguenza di un vincolo che non il risultato di una decisione consapevole. La sfida di Bersani, in questo contesto, diventa ancora più complicata. Da un parte egli conferma di voler praticare la strada delle riforme a costo zero ma, dall’altra, per avanzare su quella strada ed offrire strumenti ed opportunità che allarghino la dinamica dell’economia reale deve sfidare o convincere proprio le forze che oggi ostacolano una efficace dialettica parlamentare. Una frustata competitiva, insomma, farebbe certo bene al paese ma dovrebbe colpire anche situazioni diverse, e ben più rilevanti, di quelle aggredite da queste misure e dovrebbe essere accompagnata anche da misure premiali per coloro che intendano investire. Sia sul piano fiscale che su quello previdenziale. Le forze dell’espansione si liberano quando vengono premiate e non solo quando vengono represse e censurate le forze che agiscono per la tutela della rendita. Tutti questi elementi di giudizio, che nascono esaminando la stagione primaverile della politica economica del Governo Prodi, ritorneranno, amplificati nelle conseguenze critiche che erano implicite in questi commenti, durante la fase autunnale che coincide con l’iter parlamentare della legge finanziaria8.
A ben vedere, tuttavia, l’ambiguità della politica economica del centrosinistra può e deve essere ricondotta ad una fase che precede la stessa stagione primaverile del suo debutto al governo.
Il centrosinistra ha raccontato agli italiani due storie diverse sullo sviluppo economico. Durante la campagna elettorale - nonostante un programma che si prestava ad esegesi plurime per le sue dimensioni - l’obiettivo esplicito era stato quello di ritrovare le condizioni per competere e crescere. Perché aumentare la ricchezza è la premessa necessaria di una sua redistribuzione più equa.
Questo traguardo nasceva da una strategia in tre mosse.
Ridurre il cuneo fiscale - lo scarto tra costo del lavoro per le imprese e reddito dei lavoratori - per ridare un bordo competitivo alle imprese: con il medesimo effetto di una svalutazione che, dopo l’adozione euro, non è possibile, mentre proprio l’adozione dell’euro comporta una progressiva e sostenuta rivalutazione della moneta rispetto al dollaro americano a partire dal 2000. Il beneficio del cuneo fiscale, come quello della svalutazione, è temporaneo: tra i dodici ed i diciotto mesi. Ma, in questo lasso di tempo, la politica economica annunciata dal centrosinistra avrebbe garantito liberalizzazioni ed ulteriori privatizzazioni, riducendo il peso dello Stato nell’economia, sia sul fronte della spesa che su quello dell’entrata.
L’effetto finale avrebbe dovuto essere una ripresa delle esportazioni e del mercato interno, con una stagione di riforme che, riducendo gli sprechi ed aumentando l’efficienza nella produzione di servizi collettivi, avrebbe incrementato la produttività dell’Italia nel suo complesso e consolidato il margine competitivo delle imprese generato dalla riduzione del cuneo fiscale.
Il refrain di questa storia era assolutamente condivisibile: l’Italia presentava una capacità reale di crescere, parzialmente occultata nell’economia sommersa, ed una tragedia nei conti pubblici, generata dal mancato controllo della macchina dello Stato, centrale o periferica che sia. In questa storia, insomma, si respirava aria di New Deal, di keynesismo intelligente - da non confondere con il partito della spesa pubblica - capace di legare aspettative positive, riforme di struttura, rivalutazione dell’impresa, centralità del benessere e della giustizia sociale: garantiti dal mercato e dalla “discreta” presenza regolatrice dello Stato. L’evasione sarebbe diminuita, e non solo grazie a maggiori controlli. Purtroppo, vinte le elezioni e formato il nuovo Governo, la storia raccontata agli italiani cambia. Sarà anche vero che conta molto lo stile dell’interprete ma, in questo caso, sembra cambiata anche la struttura letterale della sinfonia. Complici anche le esperienze e la cultura di Visco e Padoa Schioppa, la politica economica appare, al contrario, come stabilità monetaria, garantita dalla normalizzazione dei conti pubblici, e giustizia redistributiva, garantita dal fisco.
Parametri del patto di stabilità ed aliquote dell’imposta sui redditi sono le variabili intermedie per il conseguimento della stabilità e della giustizia sociale. Monetarismo fiscale e separazione, tra economia reale, mercati finanziari ed equità fiscale, disegnano un quadro rigorosamente prekeynesiano. E l’annuncio di una crociata fiscale, dove la logica dei condoni viene sostituita dal recupero forzoso dell’evasione, genera un singolare paradosso. Sul piano contabile si punta, in entrambi i casi, ad un prelievo patrimoniale sui patrimoni liquidi di chi ha omesso di dichiarare i propri flussi di reddito. L’annuncio di condoni eccita la coazione a ripetere dell’evasore; la minaccia di accertamento lo spinge a ravvedersi od a cambiare domicilio al proprio patrimonio. La seconda minaccia induce anche allla desistenza dalle decisioni di investimento. Mentre, la connessione tra cuneo fiscale e tfr, deprime ulteriormente gli entusiasmi imprenditoriali. Scompare la speranza del New Deal e si consolida, nel migliore dei casi, una sospensione del giudizio che - cumulata con l’aumento della pressione fiscale effettiva, succeda quel che succeda alle aliquote personali - rischia di compromettere anche la ripresa congiunturale. Viene naturale chiedersi se siamo di fronte ad un film molto diverso dal trailer pre-elettorale e perchè?
La legge finanziaria per il 2007 era stata annunciata come una manovra, paragonabile a quella del 1992, ma era stata attenuata, successivamente, dall’emergere di un flusso crescente di entrate fiscali, complice la mutata congiuntura interna ed internazionale.
Certamente essa si presenta come una combinazione tra due traguardi: riportare verso gli standard del trattato di stabilità i saldi della finanza pubblica ed attivare una riconversione, della spesa e delle entrate, finalizzata ad una maggiore equità sociale. La definizione del nuovo corso della politica economica, ed il decollo del DPEF, sono stati faticosi e condizionati da una rilevante dose di opacità e da una stravagante utilizzazione degli strumenti, che rende ancora più incomprensibile la meta da raggiungere. Stravagante, ad esempio, il fatto di proporre il tema dell’equità sociale, e del suo raggiungimento, mediante una diversa distribuzione della pressione fiscale in una manovra congiunturale. Ancor più singolare emettere, nella stessa data del disegno di legge, anche un decreto legge che somministra al paese una “granata” di tributi vari e diversi, per capire l’effetto dei quali occorre il parere degli specialisti della materia. Le tasse piombano sul reddito e sugli scambi quotidiani dei cittadini; l’effetto redistributivo si potrà leggere, forse e solo, quando il disegno di legge sarà stato approvato dai due rami del Parlamento. Lo stile operativo evoca i “decretoni” estivi dei governi di centrosinistra nella prima repubblica. Quando la combinazione di tasse e procedure creava una diga per la finanza pubblica e, non esistendo ancora la legge finanziaria, ne governava gli aggiustamenti infra annuali. L’utilizzo, parziale, dei fondi del TFR è ancora più singolare. Le imprese italiane dovrebbero indebitarsi con le banche per versare nelle casse dell’INPS circa cinque miliardi di euro: un rateo del fondo trattamento di fine rapporto, che rappresenta un credito dei lavoratori verso le imprese stesse.
I lavoratori diventano creditori dell’INPS e le imprese debitrici, per pari importo, verso le banche. Se le banche concederanno loro credito. L’aumento del debito comprometterà il rating e l’affidabilità bancari di quelle imprese: effetto tanto più negativo per le imprese meridionali, che dovranno indebitarsi anche per ottenere incentivi finanziari, essendo stato ridotto il ruolo dei contributi in conto capitale.
Il sistema delle imprese sarà più fragile in termini patrimoniali ma avrà un vantaggio, di pari importo, circa cinque miliardi, dalla riduzione del cuneo fiscale. Da dividere tra imprese e lavoratori e da ridurre, per le imprese, degli interessi sul debito da accendere con le banche. A che serve tutto questo? Difficile da capire. Da alcuni anni Alesina e Giavazzi dicono che occorre una frustata: ci servono più competizione ed una riduzione della presenza pubblica nell’economia. Su questo tema Giavazzi aveva ingaggiato una dura polemica con Padoa Schioppa, come abbiamo già detto, puntualmente riproposta il 2 ottobre sul «Corriere della Sera»9. In presenza di una congiuntura espansiva, una riduzione della spesa pubblica libera spazio per l’espansione degli scambi e della produzione se si accompagna ad una riduzione stabile della pressione fiscale e contributiva. Aumentare la pressione fiscale, e ridurre i trasferimenti agli enti locali, aprendo la strada ad una ulteriore pressione tributaria in periferia, ha, evidentemente, un effetto deflattivo mentre non si comprende quale sia l’effetto, sullo sviluppo economico, della riproposizione come spese di una parte delle risorse drenate con le tasse ed i tagli di altre spese. Gli investimenti nel Sud, ad esempio, sono annunciati come un conglomerato di fondi nazionali ed europei relativo ai prossimi sei anni e le così dette “aree franche” fiscali esisteranno solo a far data dal 2008. La manovra finanziaria, insomma, sembra, già nelle prime fasi di confronto sui contenuti proposti al Parlamento, troppo ampia rispetto ai fabbisogni congiunturali e troppo confusa con altri sviluppi, troppo remoti, della politica economica. Certamente poco legata ad una finalità di crescita e più orientata alla stabilizzazione fiscale. Mentre, come dicevamo prima, alcuni strumenti - decreto fiscale e TFR - appaiono almeno stravaganti.
Osservatori internazionali, come gli analisti del Fondo Monetario Internazionale formulano giudizi puntuali su ognuno di questi punti critici. La loro opinione si presenta coerente con l’impianto analitico da cui parte lo stesso proponente della legge finanziaria: Tommaso Padoa Schioppa. E’ il momento di mettere in ordine i conti pubblici, allargare la competizione sul mercato domestico, potenziare lo sviluppo della ricchezza privata. Se non ora quando? Dicono gli analisti del Fondo Monetario nell’incipit del documento ufficiale che ne sintetizza i giudizi. Il momento magico lo offre la congiuntura internazionale che, tuttavia - sono sempre commenti dello staff del Fondo Monetario - dovrebbe garantire il decollo di una sostenuta espansione e non solo una ripresa contingente e dal corto respiro. Questa è la sfida che deve affrontare il Governo italiano10. Secondo gli osservatori del FMI le imprese italiane sono in grado di trasformare le proprie tecnologie da labor-intensive in processi industriali con un più alto valore aggiunto. Questa capacità di reazione, rispetto alle opzioni offerte dal mercato internazionale, testimonia come i problemi che affligono l’Italia da anni non siano irrisolvibili. Ma è altrettanto evidente che dieci anni di bassa crescita della produttività hanno chiuso in una morsa il futuro del paese e che da quella morsa il medesimo paese si deve ora liberare.
Bisogna bloccare la espansione tendenziale e perdurante del deficit e del debito pubblico perché la spesa dello Stato non attiva la crescita e non garantisce una maggiore giustizia sociale. Il gettito fiscale migliora, anche se gli analisti di Washington non riescono a spiegarsi le cause effettive di questo fenomeno compiutamente, ma è un fatto che, almeno in parte, le ragioni di quel miglioramento sono di carattere strutturale. Usare come copertura delle spese un debito, come il TFR, non serve ad un aggiustamento strutturale dei conti pubblici. È un espediente contabile ma non ha un significato economico effettivo.
Il fatto è che se non si riduce drasticamente la causa di fondo della pressione che alimenta la spesa pubblica, la nuova massa di risorse in entrata finirà per alimentare ulteriormente circuiti finanziari improduttivi. Invece il bilancio di previsione per il 2007 dipende troppo dall’incremento della pressione fiscale e troppo poco da misure per un contenimento, stabile e crescente nel tempo, dei flussi di spesa pubblica. In ogni caso la legge finanziaria deve essere approvata per mettere un punto fermo mentre, dal giorno seguente la sua approvazione, serve una spinta incisiva della politica economica: una spinta radicale verso riforme capaci di ridimensionare l’area pubblica, ed inefficiente, dell’economia controllata dagli apparati dello Stato e far crescere, in un clima di maggiore competizione ed integrazione internazionale, la dimensione ed i risultati economici delle imprese private. Questi giudizi coincidono con quelli espressi dalla Banca d’Italia e ribaditi nelle dichiarazioni di voto, rese nell’ultima sessione parlamentare svoltasi in Senato, dai due ex presidenti della repubblica, oggi senatori a vita, Carlo Azeglio Ciampi e Francesco Cossiga.
La competizione produce benefici per le imprese, che si irrobustiscono e possono affrontare sfide internazionali, e per i consumatori che, a parità di reddito, migliorano i propri livelli di benessere grazie all’effetto sui prezzi della competizione stessa.
Concludono gli analisti del Fondo Monetario Internazionale: non si tratta di ripudiare una legislazione flessibile dei rapporti di lavoro ma di offrire adeguati ammortizzatori sociali, che supportino la transizione da un lavoro all’altro in presenza di crisi di assestamento nel sistema produttivo. Bisogna riformare il sistema previdenziale assicurando un legame più stretto tra contribuzioni e prestazioni. Gli ultimi tre paragrafi del documento, infine, giudicano positiva la trasformazione del sistema bancario: per dimensioni e contendindibilità degli assetti proprietari. Il mercato dei capitali - insurance, stock and private bond - viene giudicato, invece, ancora ipotrofico.
In Italia c’è troppa banca e troppa poca finanza, in definitiva.
La crescita dei prodotti, e la introduzione di significative innovazioni, come il mercato del venture capital, darebbe certamente un contributo alla crescita economica ed alla diffusione di nuove tecnologie: con una spirale espansiva di lungo respiro. Sembra proprio che gli economisti del Fondo Monetario ritengano che la nostra economia reale abbia bisogno di una frustata competitiva e di un supporto finanziario più adeguato mentre i conti pubblici andrebbero assestati e la macchina dello Stato faccia un passo indietro, per lasciare spazio alle imprese private. Insomma, servono riforme radicali del sistema e chiudere rapidamente la sessione di bilancio in Parlamento sarebbe un fatto positivo: libererebbe tempo ed energie per realizzare quelle riforme. Approvare la legge finanziaria, insomma è un vincolo contingente, la trasformazione del paese è rimandata ad una seconda fase nell’azione di Governo. La vicenda parlamentare si chiude proprio in questi termini: affidando al dibattito politico un singolare interrogativo: con l’approvazione di questa legge finanziaria si chiude una prima fase orientata alla stabilizzazione e si apre una seconda stagione di politica economica orientata alla crescita? Riappare sulla scena italiana la vituperata, negli anni della prima Repubblica, politica dei due tempi11. Ma, prima di affrontare questa ultima questione, sia consentita una piccola divagazione sulle opinioni di un partecipante alla discussione che, da una posizione defilata per deformazione professionale, sostiene tesi non convenzionali ed abbastanza intriganti


4. Un punto di vista non convenzionale: le analisi di Mario Draghi

Dalla data del suo ritorno in Italia, assumendo il mandato di Governatore della nostra Banca Centrale, Mario Draghi ha tenuto numerosi discorsi ufficiali. Uno degli ultimi interventi è stato pronunciato a Londra, presentando una raccolta degli scritti di Luigi Einaudi. Personalità rilevante nella storia politica e culturale del nostro paese che, come accade oggi a Draghi, ha anche ricoperto l’incarico di governatore della Banca Centrale.
Tutti gli altri discorsi pubblici di Draghi hanno avuto come tema l’analisi delle condizioni attuali dei mercati internazionali. Ma anche la relazione virtuosa tra mercati finanziari e crescita dell’economia, che si osserva alla scala del nuovo mercato globale, e lo stato dell’arte – sia per quanto riguarda la struttura delle regole che la natura e gli effetti dei comportamenti degli amministratori – osservabili nel panorama del nostro mercato finanziario. E le condizioni congiunturali in cui versa l’economia italiana e l’adeguatezza della manovra di politica economica, legata all’approvazione della legge finanziaria per il 2007, rispetto ad un superamento positivo della congiuntura ed alla ripresa della crescita.
Dall’insieme di questi discorsi, che si possono leggere tutti nel sito web della Banca Centrale, emerge un chiaro giudizio di Draghi sulla ricetta necessaria per attivare una maggiore crescita economica e, di conseguenza, finanziare e rendere possibile uno sviluppo civile ed una società più giusta, in termini di equità sociale, nel lungo periodo.
Nelle sue prime Considerazioni finali pronunciate il 31 maggio del 2006 a Roma, Draghi sostiene che:
una crescita stentata alla lunga spegne il talento innovativo di un’economia, deprime le aspirazioni dei giovani, prelude al regresso, preoccupa particolarmente in un paese come il nostro, su cui pesano un’evoluzione demografica sfavorevole e un alto debito pubblico. Nel quadro di un’economia e di un commercio mondiali che continuano a crescere a tassi elevati, è all’ottimismo dell’iniziativa che bisogna ispirarsi, non al malinconico rimpianto di un protezionismo che fu. In Italia dalla metà degli anni Novanta il prodotto ottenibile da un’ora di lavoro è cresciuto assai meno che altrove: oltre un punto percentuale in meno ogni anno, in media, rispetto ai paesi dell’Ocse. A causa del ritardo nell’adeguamento della capacità tecnologico-organizzativa delle imprese e del sistema, la produttività totale dei fattori si è ridotta, caso unico fra i paesi industrializzati.
Il progresso dell’efficienza è ostacolato da una struttura sbilanciata nella dimensione d’impresa, poco compatibile con i nuovi paradigmi tecnologici e competitivi. Vi si associa una specializzazione settoriale ancora eccessivamente orientata alle produzioni più tradizionali. Rimuovere gli ostacoli alla crescita delle imprese è condizione necessaria per cogliere le occasioni offerte dalla globalizzazione dei mercati e per stimolare una diffusione ampia e sistematica di innovazioni nell’organizzazione aziendale, nei processi produttivi, nella gamma dei prodotti. È questa la via per recuperare competitività internazionale e rilanciare lo sviluppo. La difesa della competitività attraverso la svalutazione del cambio, che peraltro alleviava solo temporaneamente gli effetti di un differenziale di produttività, è divenuta impossibile. Non vi è alternativa se non tra l’incremento del prodotto per ora lavorata e il contenimento dei redditi nominali. Alla lunga solo il progresso della produttività genera benessere economico.

In altre parole Draghi mette a nudo il carattere autarchico e protezionistico che ha avuto per molti anni la crescita del paese, non essendo altro che forme di “protezione” la frammentazione della dimensione aziendale o la disseminazione di incentivi pubblici ovvero la pratica ricorrente della svalutazione del cambio.
Ridurre le dimensioni di impresa, o rifugiarsi nel lavoro nero, è un modo per sottrarsi alle minacce di una legislazione del lavoro sempre più rigida. Svalutare, o farsi sussidiare dallo Stato, sono misure equivalenti ai dazi ed hanno la stessa durata di breve periodo.
Esse generano dipendenza dal sussidio e non stimolano la capacità di fare e, quindi, di competere. Ma, dato che nel lungo periodo, quello che conta è il progresso della produttività, tutti questi analgesici si palesano nella propria impotenza. Da queste circostanze nasce il declino dell’economia, e della società italiana, negli anni Novanta e da questo declino produttivo nasce la ipertrofia progressiva del debito pubblico, che è solo l’ammortizzatore finale che rimanda al futuro, ed a carico delle prossime generazioni, la ricchezza che viene consumata senza essere prodotta da molti anni.
Esiste una strada diversa, e Mario Draghi lo ha ricordato nel suo intervento alla Giornata Nazionale del Risparmio – un evento emblematico per parlare delle risorse necessarie per la crescita e del modo per reperirle – tenutasi a Roma a fine ottobre.
Dopo la seconda guerra mondiale ed alle soglie di quello che chiamarono il “miracolo economico” della crescita italiana, ha detto Draghi, era la parsimonia dei cittadini a finanziare la crescita. «A metà degli anni Settanta a fronte di una spesa per investimenti pari al 26 per cento del reddito nazionale, il risparmio privato superava il 30 per cento». Negli anni alle nostre spalle, e nel trapasso verso il ventunesimo secolo, sia la quota degli investimenti che quella del risparmio scendevano sotto il 20 per cento del Pil ed il risparmio delle famiglie si fermava solo al 9 per cento dello stesso Pil.
Ma questo non significa che esista un problema di risorse per garantire la copertura degli investimenti.
Il risparmio del mondo, insomma, è abbondante e sono gli intermediari finanziari che lo canalizzano verso impieghi ed investimenti capaci di espandere la produttività. Per questo, in tutti i suoi discorsi, Draghi ha sempre ricordato che le banche devono diventare più capaci di gestire ed allocare il rischio, che deve nascere una previdenza privata – complementare rispetto a quella pubblica e più efficiente nell’utilizzo del risparmio dei lavoratori – e che il numero delle società quotate in Borsa aumenti insieme alla quantità società quotate in Borsa aumenti insieme alla quantità di titoli, di capitale o di debito, negoziati sui mercati finanziari. Draghi, insomma, ci dice che nel nuovo mercato globale il debito pubblico, che è solo una tassa differita, deve fare un passo indietro, come variabile strategica, rispetto al nuovo mercato globale e ai sui effetti reali.
E che quel passo indietro deve essere colmato da un passo avanti da parte del sistema degli intermediari finanziari, gli “efori” della crescita, come li chiamava Joseph Alois Schumpeter.
La cronaca europea, per concludere, ci fornisce un singolare termine di paragone che rafforza sia la diagnosi che la terapia proposte dal governatore della Banca Centrale. La Spagna, grazie al ruolo che le banche di quel paese hanno saputo svolgere supportandone le imprese, ed alla leva finanziaria delle politiche di supporto europee, negli ultimi dieci anni, mentre l’Italia declinava, ha prosperato ed è cresciuta rapidamente ed intensamente. Nonostante il ciclo politico abbia riservato anche a quella nazione l’alternanza degli schieramenti al Governo. Ora la Spagna è sul punto di sorpassare il nostro paese per collocarsi al fianco di Francia e Germania nel triangolo intorno al quale ruota l’equilibrio della nuova Europa: il perno centrale dell’equilibrio continentale dopo l’allargamento del numero dei partecipanti ma anche dopo la sistematica svalutazione del dollaro americano rispetto alla valuta europea
Per concludere, sulle opinioni dell’attuale Governatore della banca centrale in materia di politica economica, riprendiamo in sintesi i tratti che emergono dai suoi interventi ufficiali. Mario Draghi torna in Italia assumendo l’incarico – che fu anche di Luigi Einaudi – di Governatore della Banca d’Italia. Debutta il 4 di marzo 2006, a Cagliari, con una intrigante analisi sulla relazione virtuosa tra crescita e finanza nel mondo dopo la globalizzazione. Prendendo le distanze da una percezione “diabolica” degli effetti economici dell’integrazione finanziaria internazionale. Subito dopo, sempre nel mese di maggio, pronuncia le sue prime Considerazioni finali. Stringate quanto basta per essere riassunte in poche parole: tornare alla crescita dopo un prolungato declino della produttività nazionale «perché alla lunga solo il progresso della produttività genera benessere economico»; l’ottimismo dell’iniziativa batta il «malinconico rimpianto di un protezionismo che fu»; gli incentivi finanziari deformano l’allocazione delle risorse, la maggiore efficienza delle banche non si è ancora risolta in una contrazione del prezzo dei servizi, la Borsa deve crescere, per volumi e società quotate, e serve una previdenza complementare e privata rispetto a quella pubblica. La normalizzazione della finanza pubblica aiuta ma non determina la ripresa della crescita, essa rende solo meno fragile, e sensibile alla variazione dei tassi, il bilancio dello Stato. Il 12 luglio, all’Abi, Draghi ripropone la competizione tra le banche ed il suo effetto virtuoso sul reddito dei consumatori, attraverso la compressione dei prezzi di accesso ai servizi finanziari. Per questo invita gli amministratori bancari a tralasciare le beghe locali e li invita ad esplorare gli «ampi spazi per aggregazioni (ulteriori) dove le sinergie superino le difficoltà». Il 17 luglio commenta in Parlamento il DPEF del Governo Prodi e ne condivide il programma di lavoro «rilancio dello sviluppo economico, miglioramento delle condizioni di equità, risanamento dei conti pubblici». Giudica anche adeguata una manovra di 35 miliardi di euro per riportare in linea i parametri del patto di stabilità e ricondurre il disavanzo al 2,8% del pil. Ricorda però, come abbiamo già detto prima, al Governo che «sono necessarie riforme in grado di innescare cambiamenti nei comportamenti degli utenti e dei centri di spesa, che consentano significativi recuperi di efficienza nella fornitura dei servizi». Pensioni, sanità, previdenza e decentramento sono le priorità per agire. «Ritorno allo sviluppo, equità, equilibrio di bilancio, diminuzione della pressione fiscale: questo è il progetto del DPEF, che si articola su un arco pluriennale. Alla prossima legge finanziaria la sua attuazione» conclude. Draghi parla ancora in pubblico, successivamente, commentando i miglioramenti possibile della nuova legge sul risparmio (26 settembre) ed illustrando, ancora una volta, i vantaggi della globalizzazione del mercato finanziario (all’Università di Firenze, in ottobre). Il giorno dopo, cioè il 12 di ottobre, commenta in Parlamento il disegno di legge finanziaria. Osserva che «anche se l’incidenza delle entrate sul prodotto è in Italia sostanzialmente in linea con quella degli altri paesi dell’euro, l’Italia ha aliquote legali tra le più elevate». Osserva che, nonostante una dinamica positiva delle entrate «la correzione, in termini netti, è affidata interamente ad aumenti delle entrate» mentre sarebbe opportuno non incidere «negativamente sulle aspettative degli operatori economici» e torna sulla esigenza di una previdenza privata complementare. Rileva che l’operazione sul TFR rappresenta «di fatto un prestito, con un onere implicito per il bilancio pubblico potenzialmente superiore a quello dei titoli di Stato». Conclude come sia «essenziale realizzare con rapidità le riforme necessarie: un loro rinvio potrebbe solo rendere più oneroso l’aggiustamento». Il 17 ottobre presenta a Londra, lo abbiamo ricordato prima, una raccolta degli scritti di Luigi Einaudi. Il 31 ottobre, in occasione della Giornata Nazionale del Risparmio, ribadisce che mercati finanziari e competizione promuovono la crescita e consolidano il benessere. E suggerisce che «ordinamento giuridico e pubbliche amministrazioni assumano come guida i valori del mercato e dell’efficienza, anziché quelli, deleteri, del formalismo e del potere burocratico». Riappare, sembra evidente, nel filo rosso del pensiero di Draghi, una tradizione liberale einaudiana comprensibile e praticabile. Non a caso Einaudi è stato anche un politico ed un grande giornalista: non solo un intellettuale di grande caratura.
Questa tradizione è scomparsa da tempo nella nostra cultura politica nazionale. Essa considera la giustizia sociale come la figlia di crescita, finanza, concorrenza e libertà e non come il risultato delle politiche fiscali. E sarebbe una grande bussola, assumendola come una lezione da interpretare e non come una disciplina da eseguire alla lettera, anche per un governo riformista in Italia.


5. Tornare alla crescita?

Possiamo ora azzardare, finalmente, alcune risposte ai quesiti proposti nella introduzione di questo articolo.
La legge finanziaria non ha avuto cattiva stampa, ed il Governo non ha perso consenso, come dimostrano numerosi sondaggi qualificati presentati negli ultimi mesi, per un difetto di comunicazione ma perché i contenuti della politica economica, realizzata attraverso la manovra di bilancio di fine anno, erano chiaramente inadeguati rispetto all’obiettivo primario del paese: ritrovare la strada della crescita riducendo le rendite di posizione ed aumentando la capacità di competere delle imprese. Avere scelto la strada di ridurre il cuneo fiscale, come principale sostegno all’attività produttiva, equivale, sul piano logico, ad una svalutazione: manovra che non ci viene concessa nel regime della moneta unica ma che ci viene, di fatto, imposta dal progressivo apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro e dalla parallela diminuzione della produttività del lavoro e dell’intero sistema italiano.
Come una svalutazione, quella manovra darà benefici immediati ma temporanei e richiederà, in ogni caso, che entro i prossimi diciotto mesi venga realizzata una politica capace di incrementare la produttività e di dare una base reale, e non solo finanziaria, al processo di crescita.
La crisi della finanza pubblica è un problema serio che deve essere fronteggiato, anche perché, come dimostrano le cronache recenti con grande evidenza, il debito pubblico altro non è che un tassa differita e ridurre il debito pubblico, in tempi di lenta crescita, obbliga ad una dilatazione del prelievo fiscale che deprime ulteriormente la probabilità di una ripresa della crescita. Gli effetti negativi della fragilità dei conti pubblici non sono l’unico problema da fronteggiare. Le condizioni organizzative ed il livello, assai basso, degli standard di efficienza della macchina dello Stato rappresentano la causa determinante di larga parte della nostra debole capacità di competere. Le riforme servono per ridurre stabilmente la spesa ma servono ancora di più per ridare efficienza all’organizzazione dello stato ed alla produzione di beni collettivi ed infrastrutture. Serve anche una maggiore attenzione alla politica dei mercati finanziari. Finanza e crescita sono una coppia vincente. Dove si trova la prima si finisce per trovare anche la seconda. Esse si manifestano insieme. Del rapporto tra causa ed effetto, che le lega reciprocamente, si può rintracciare l’esistenza in due direzioni. Dove la crescita è robusta si forma risparmio e dove si forma risparmio si espandono l’attività di banche e mercati finanziari. Ma dove ci sono mercati finanziari efficienti aumenta la probabilità che gli investimenti siano accompagnati verso la loro realizzazione. Se un banchiere sbaglia, razionando il credito a progetti capaci di generare ricchezza, ci sarà un altro banchiere per finanziarli o ci saranno venture capitalist capaci di provvedere quello che la banca non provvede.
Vediamo anche l’altra strada di questo rapporto tra causa ed effetto.
Se esistono intermediari finanziari, collegati al mercato mondiale, si può intercettare il risparmio, che nel mondo è molto abbondante in questo momento, e canalizzarlo verso progetti di investimento.
La crescita economica si presenta, allora, come la conseguenza di questa intensificazione degli investimenti.
L’attenzione verso questo circolo virtuoso è diffusa nel mondo contemporaneo. Ricordiamo solo tre esempi ma si potrebbero riempire pagine di citazioni. Nel mese di settembre Alan Weber, presidente della Deutsche Bundesbank, conclude i lavori di un convegno dedicato agli effetti della modernizzazione nel sistema finanziario sulla crescita economica in Europa. Nei Working Papers dell’Università di Vienna si legge della relazione tra crescita e finanza nel confronto tra economie di mercato ed economie in transizione verso il mercato: leggendo la differenza che nasce dall’esistenza di mercati finanziari, e dalla capacità di collegare situazioni locali al mercato mondiale dei capitali, per l’incremento della crescita. Nei Research Papers delle Nazioni Unite, appare in agosto una ricerca di Zhicheng Liang che mostra come la crescita in Cina si polarizzi in relazione alla presenza di adeguate forme di intermediazione finanziaria e che a quella polarizzazione corrisponde, ovviamente, un’amplificazione dei divari tra le aree costiere e quelle interne. La debole relazione tra finanza e crescita, considerata nell’insieme del mercato cinese, determina un incremento dei divari economici interni al paese12.
Alessandro Profumo, alla guida di Unicredito, riportano le cronache del «Corriere della Sera» sul seminario milanese promosso dalla Fondazione Italiani Europei, avrebbe reagito duramente a chi chiedeva italianità delle banche per sostenere la crescita economica del nostro paese. «L'interesse nello sviluppo del Paese coincide con l' aumento del nostro giro d'affari. Diversamente, si crea una eterogenesi dei fini che non fa bene né a noi né al sistema. Noi non siamo enti pubblici». Niente da obiettare: tuttavia questa risposta di Profumo denuncia l’esistenza di un pregiudizio italiano, secondo il quale lo sviluppo economico sia un affare di Stato e degli enti pubblici.
L’evidenza, che abbiamo riportato sopra, ci dice che nel mondo lo sviluppo è un affare delle banche e dei mercati finanziari. Ma, su questo punto, non si può dire che le banche italiane abbiano dato al paese tutto quello che avrebbero potuto dare. Le banche sono cresciute e si sono riorganizzate ma, lo dice anche Mario Draghi, non hanno ancora dato vita ad un mercato dei capitali degno di questo nome.
Ed è evidente che il compito dei financial market makers in Italia non possono che svolgerlo le banche. Non esiste una cultura finanziaria che si espanda a prescindere dall’esistenza delle banche. Tutte le imprese ed i progetti di successo vedono tra i fattori critici la presenza di una robusta spalla bancaria. La penetrazione delle banche estere sul nostro mercato domestico, in occasione della stagione delle privatizzazioni e poi nello sviluppo di acquisizioni e fusioni, anche tra imprese private, è un indizio ulteriore di questa fragilità competitiva delle banche italiane. Nell’economia meridionale, infine, la concorrenza di sussidi pubblici ed incentivi finanziari, unita alla trasformazione delle banche locali in reti commerciali delle banche nazionali, rappresenta un fattore dissuasivo rispetto al circolo virtuoso che, nel mondo lega finanza e crescita. L’economia meridionale - se si ripensa ai contributi ricordati prima - sembra un ibrido tra il caso della Cina, per la polarizzazione estrema dei fenomeni di crescita che si manifesta tra il Nord ed il Sud e tra le regioni del Sud, e quello delle bonomie in transizione, perché essa stessa sembra, ancora a troppo, un economia di Stato e non un’economia di mercato. Neither Finance nor Growth, tuttavia, è la conseguenza drammatica di queste due circostanze.
L’insieme di questi giudizi ci consente di offrire una ipotesi di soluzione anche alla querelle sulla compatibilità o meno di una cultura socialista con una cultura cattolica nel contesto del futuro Partito Democratico in cui unificare i riformismi possibili del nostro paese.
A parte le manifestazioni più radicali di queste due culture politiche, che pure si possono ritrovare e si ritrovano nella storia del paese, entrambe hanno un minimo comune denominatore nella percezione della necessità e della utilità dello Stato ed, insieme, della sua incapacità di trovare una soluzione dell’equilibrio economico in alternativa al pieno dispiegamento delle forze che agiscono sul mercato. Questo tratto comune dovrebbe e potrebbe giustificare largamente la convivenza delle due culture e della loro comune convivenza con la tradizione del pensiero liberale.
Che non è, come tutti sanno o dovrebbero sapere, un sinonimo del liberismo e del laissez faire.





NOTE


1 Il sito web La Voce.info ha monitorato, sul piano contabile, la progressiva trasformazione dei contenuti dal DPEF alla versione finale della legge Finanziaria per il 2007. Si vedano, in particolare, i seguenti testi, disponibili nelle pagine del sito: Boeri e Garibaldi, Se non ora quando? 12.9.2006; Giannini e Guerra, Le entrate a sorpresa, 12.9.2006; Boeri e Brugiavini, Operazione TFR, sette domande al Ministro Damiano, 30.10.2006; Boeri e Garibaldi, Più tasse e più spese: la Finanziaria 2007 dopo il primo assalto alla diligenza, 27.11.2006^
2 Si veda K.J.Arrow, I limiti dell’organizzazione, (traduzione italiana), Il Saggiatore, Milano 1986; l’edizione originale, in lingua inglese, appare nel 1974 e ripropone il testo di lezioni tenute da Arrow nel 1970 e nel 1971.^
3 Sia le dichiarazioni di Thumann che l’intervista di McDonough si possono leggere nel quotidiano milanese andato in edicola il 29 di novembre 2006, nella seconda pagina.^
4 Il testo di Bernanke è disponibile nel sito web della Federal Reserve at http://www.federalreserve.gov/BoardDocs/Speeches/2006/20061128/default.htm ^
5 Anche questo testo si può consultare in un sito web, quello della Banca per i Regolamenti Internazionali, at http://www.bis.org/review/r061121d.pdf ^
6 Il testo di Trichet si può consultare at http://www.bis.org/review/r061116c.pdf ^
7 Questo approccio all’analisi del mercato del lavoro si può leggere in Edward C. Prescott, Why Do Americans Work so Much More than Europeans? / NBER Working Paper No. 10316, February 2004 ^
8 Il DPEF viene approvato dal Governo, nella sua versione definitiva, il 7 luglio del 2006. Ad agosto, ed in seguito a reiterate prese di posizione di Francesco Giavazzi, polemiche ed incalzanti in ordine alla struttura della politica di bilancio del Governo, che presenta il rischio latente di sbandare verso l’esito, che verrà confermato dai fatti, di una stangata fiscale e del rinvio di una strategia di riforme, scoppia una polemica dura tra il Ministro dell’Economia e lo stesso professor Giavazzi: in parte realizzata attraverso le colonne del «Corriere della Sera» ed in parte, secondo una singolare modalità: con un grappolo di email ad alcuni “testimoni eccellenti” inviato dal Ministro Padoa Schioppa come replica alle tesi di Giavazzi. È il primo segnale di una “luna di miele” tra il Governo ed una quota del suo elettorato che diventerà sempre più breve e difficile da gestire. ^
9 Si legga l’editoriale di Giavazzi, L’inversione che non c’è, più entrate, poche correzioni alle spese, nel «Corriere della Sera» del 2 ottobre 2006. Il 3 ottobre appare dalle colonne de «La Repubblica» l’opinione di Luigi Spaventa, sotto il titolo Ma lo sviluppo è rimandato. Padoa Schioppa difende il suo disegno di legge con due interviste:la prima appare il 2 ottobre su «La Stampa»; la seconda su «Il sole 24» ore del 5 ottobre. Vale la pena, infine, tra la vera selva di commenti che accompagna questa prima edizione della manovra, l’articolo di Franco Debenedetti, La politica non freni la crescita, apparso su «Il Sole 24» ore del 10 ottobre.^
10 Il testo integrale del documento IMF si può consultare at http://www.imf.org/external/np/ms/2006/111306.htm ^
11 E’ certamente singolare che su un solo punto sembra convergere un giudizio unanime su cosa possiamo imparare dalle vicende di questa ultima legge finanziaria. Come spiega magistralmente Valerio Onida dalle colonne de «Il Sole 24 ore» del 17.12.2006 - “La finanziaria degli eccessi” - questo giudizio si sintetizza nella esigenza di impedire che, in futuro, la sessione di bilancio parlamentare sia solo la sommatoria di una serie di disposizioni puntuali sul significato delle quali neppure la maggioranza che le vota abbia contezza. ^
12 I tre casi citati si possono leggere sulle pagine web, per il caso cinese at
www.wider.unu.edu/publications/rps/rps2006/rp2006-90.pdf ; per il caso delle economie in transizione e per quello della bundesbank lecture, rispettivamente, at
http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=863424 ed at
www.bundesbank.de/download/presse/reden/2006/20060929weber.pdf ^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft