Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVIII - nn. 5-6 > Discussioni > Pag. 562
 
 
Note marginali al saggio "Sinistra e popolo" di Luca Ricolfi
di Giovanni Cofrancesco - Fabrizio Borasi
Premessa

Che stiamo vivendo un’epoca di cambiamenti tanto importanti e fondamentali quanto rapidi e difficili da prevedere è una cosa nota e quasi banale da ripetere. Che questi cambiamenti coinvolgano nel profondo tutta la civiltà occidentale figlia del medio evo latino e passata attraverso l’età moderna, la rivoluzione industriale e le rivoluzioni politiche più o meno liberali o più o meno totalitarie, e che questo cambiamento comprenda anche, come è logico che sia, le istituzioni e i concetti della vita civile e di quella politica è cosa altrettanto nota e condivisa da tutti. Il difficile viene quando si tratta di interpretare il cambiamento, di cercare di fissare le linee di tendenza, non al fine di prevedere l’evoluzione futura, dato che la storia umana non costituisce un processo deterministico o legato ad una qualche situazione ideale verso la quale tendere, ma solo per cercare di renderci conto meglio di quali sono le forze sociali, politiche e a monte culturali in azione, anche al fine di valutare gli aspetti positivi e quelli negativi in tali tendenze e le possibilità di favorire i primi e di correggere i secondi. Questo lavoro di interpretazione del presente alla luce del passato (cioè della storia) e in relazione alla possibile evoluzione futura rappresenta un’impresa ardua e quasi impossibile per chi voglia intraprenderla dato che come accade nelle scienze sociali in genere, l’analisi non può mai staccarsi dalla valutazione, la ricostruzione dei fatti e della situazione non può mai separarsi del tutto dalla loro interpretazione, di modo che il modo più corretto di porsi di fronte al lettore consiste non tanto nel non esprimere valutazioni ma nel renderle pienamente esplicite consentendo al lettore stesso di conoscerle nella maniera migliore possibile e quindi di condividerle o meno. A questa difficoltà generale del compito di descrivere e valutare le linee evolutive di una società si aggiunge quella che deriva in particolare dalla velocità e dalla radicalità del cambiamento che interessa oggi tutti i Paesi delle civiltà occidentale che abbiamo definito sopra, un cambiamento il cui inizio viene ormai unanimemente fatto coincidere con il crollo del comunismo sovietico e l’avvio della globalizzazione economica e culturale. Di fronte a questa evoluzione, che affascina per la sua profondità e radicalità, ma che sconcerta per i suoi esiti che sembrano mettere da parte tutta la tradizione secolare della civiltà occidentale, sui cui risultati peraltro la globalizzazione si fonda, gli autori provano gli stessi sentimenti di tutti, tra cui l’incertezza sugli esiti di tale processo e la speranza che vada nella direzione migliore, cioè in quella della tutela adeguata dell’autonomia dei singoli esseri umani e della loro possibilità di scegliere nelle condizioni concrete, materiali e culturali, il proprio modo di vivere. Con questi dubbi addosso gli autori di questo scritto, che non si assumerebbero mai il compito “titanico” di delineare, anche solo per puro esercizio intellettuale, le linee di tendenza che interessano la civiltà occidentale, ma che non intendono rinunciare del tutto a esaminare questa evoluzione, hanno trovato utile da un lato il limitare la propria analisi alla evoluzione delle concezioni politiche avvenute in quest’ultimo trentennio e in particolare quella relativa al ruolo e al reciproco rapporto tra i due principali tipi di schieramenti politici dei Paesi occidentali, la “Sinistra” e la “Destra”, e dall’altro il “giocare di rimessa”, come si dice nel calcio, o il “seguire la ruota” come si dice nel ciclismo, rispetto al pensiero altrui. L’occasione per questa impostazione più mirata e ristretta, ma forse proprio per questo (si spera) più significativa ci è stata offerta da un recente libro di Luca Ricolfi, Sinistra e popolo, Longanesi, Milano, 2017. Si tratta di un’opera coraggiosa i cui contenuti, apertamente critici di alcune delle affermazioni e dei principi del “politicamente corretto” che oggi vanno per la maggiore sino a rappresentare in molti settori delle élites, politiche, professionali culturali occidentali un vero e proprio pensiero unico, e si tratta soprattutto di un’opera che mette dinanzi al lettore delle verità che, forse in quanto sgradite al pensiero unico di cui si è appena parlato, vengono taciute o nascoste in una retorica di concetti e ragionamenti capace di nascondere i fatti concreti o almeno di indurre a comprenderli in maniera distorta: si pensi ad esempio a quanto l’autore dice sul “capovolgimento” retorico della verità in tema di immigrazione clandestina (tema su cui torneremo più avanti). Inoltre si tratta di un’opera critica e in buona parte autocritica, di uno studioso e opinionista proveniente dalla sinistra italiana che come dice già il titolo si confronta con il crescente distacco tra la sinistra stessa e i ceti popolari che per tutto il XX secolo hanno rappresentato la sua base elettorale e anche ideale (nei casi peggiori ideologica) di riferimento e che oggi si rivolgono sempre più ai movimenti detti “populisti”. Infine si tratta di un’opera acuta in quanto l’autore riesce quasi sempre nelle sue analisi a cogliere i punti essenziali e ad individuare i fatti e i fenomeni salienti al fine di descrivere il mutamento avvenuto nel rapporto non solo tra sinistra e popolo (nel senso di classi popolari), ma più in generale tra politica e popolo (nel senso di “gente comune”, non facente parte delle élites) negli ultimi trent’anni e tuttora in corso, quel mutamento che noi proveremo ad analizzare. Pertanto quanto vi è di recensione nel senso classico del termine nel nostro scritto termina qui: da ora innanzi inizieremo un confronto con le analisi contenute in Sinistra e popolo, nel quale partendo dai fatti descritti nel libro, riguardo ai quali salvo alcuni punti secondari ci sentiamo di concordare, tenteremo di interpretare le linee di tendenza del cambiamento del rapporto tra parti politiche e popolo (inteso sia come gente comune che come classi popolari), come aspetto particolare, ma di importanza fondamentale, del cambiamento più generale che coinvolge le società occidentali. Nel far questo non sempre concorderemo con quando detto da Ricolfi, e su alcuni punti arriveremo a trarre conclusioni diverse rispetto a quelle contenute nel libro per descrivere quelle che riteniamo essere le cause e le linee di tendenza del mutamento in corso nell’ambito dei rapporti politici, e non solo.
Ricolfi, come detto, affronta in questo libro il mutamento avvenuto negli ultimi trent’anni, dall’avvio della globalizzazione ad oggi del rapporto tra sinistra e popolo, ma come inevitabilmente accade quando si usa un termine che rappresenta uno dei due poli opposti di una coppia, finisce per parlare altrettanto della destra, nonché più in generale del mutamento e della futura evoluzione della politica nel suo complesso non solo con gli strati più bassi della popolazione ma con la gente comune. Nel far questo l’autore snoda il suo discorso attraverso tre capitoli: nel primo parla dei concetti e del ruolo della destra e della sinistra nella cultura e nella politica del 900, il “secolo breve”, secondo la definizione di Eric Hobsbawm (1917 – 2012), che termina con il crollo del comunismo. Nel secondo e nel terzo Ricolfi invece si occupa della nuova epoca iniziata con la globalizzazione e proseguita purtroppo con la crisi economica iniziata nel 2007 e lo fa con riferimento a due oggetti diversi: dapprima (capitolo secondo) si occupa dell’evoluzione del ruolo delle politiche portate avanti dalla sinistra e dalla destra nella prima fase dell’espansione dell’economia globalizzata e delle crescenti difficoltà che, una volta subentrata la fase di crisi economica, entrambe stanno incontrando nel mantenere un corretto e fruttuoso rapporto con le popolazioni; quindi (capitolo terzo) prende in esame l’espansione accelerata dei movimenti cosiddetti “populisti” e l’effetto “spiazzante” di tale ascesa rispetto alle posizioni della sinistra, ma anche della destra “classiche” (cioè novecentesche). Nell’epilogo infine l’autore prova a delineare le linee di tendenza futura riguardo alle trasformazioni del ruolo e del rapporto, reciproco e con il popolo, di destra e sinistra, una coppia antitetica alla quale se ne sovrappone un’altra, che a suo dire rappresenta il portato delle nuova epoca, del XXI secolo, quella tra le forze dell’“apertura” (favorevoli alla circolazione globale dei capitali e delle persone) e quelle della “chiusura”, che sarebbero invece contrarie in tutto o in parte a tali valori e che rappresenterebbero l’ossatura culturale dei partiti “populisti”. Dalla combinazione tra destra e sinistra da un lato e tra forze dell’apertura e forze della chiusura dall’altro, l’autore deriva la sua “mappa” delle alternative politiche possibili nel prossimo futuro con la quale si chiude l’opera.


La critica ai termini di destra e sinistra nell’era della globalizzazione

Nel primo capitolo dedicato al ruolo di destra e sinistra nella cultura e nella politica del 900, per capirci nell’epoca preglobalizzazione, Ricolfi, dopo avere analizzato tutta una serie di definizione sia di tipo “asimmetrico” cioè che privilegiano una delle parti (in genere la sinistra) in quanto per sua natura migliore dell’altra (in genere la destra), sia di tipo “simmetrico”, cioè che cercano di porre su un piano di parità i due poli della distinzione politica, si concentra su due definizioni: quella di Norberto Bobbio (1909 – 2004) e quella di Fiedrich A. von Hayek (1899 – 1992), la prima di impostazione socialista, la seconda di orientamento liberale. Entrambe le posizioni si confrontano con quelle che l’autore, rifacendosi al pensiero di Isaiah Berlin (1909 – 1997) chiama le “libertà” da riconoscere ai cittadini da parte di uno Stato moderno, cioè, secondo la terminologia di Ricolfi, le libertà “democratiche” (il diritto di voto, il diritto di essere eletti ecc.), le libertà “liberali” (il diritto alla libertà personale, di parola ecc., ma anche quella di libera iniziativa economica) e le libertà “socialiste” (il diritto all’assistenza sanitaria, all’istruzione ecc.). Con l’occhio del giurista possiamo chiamare questi gruppi di libertà rispettivamente diritti “politici”, “civili” e “sociali”. Molto acutamente nel libro si osserva che nel pensiero di Bobbio le libertà liberali (diritti civili) e quelle socialiste (diritti sociali) vengono sostanzialmente fuse in un unico concetto, quello della “eguaglianza”, che si compone in tal modo di due parti, i diritti civili (uguali per tutti) e i diritti sociali, diversificati al fine di ridurre le diseguaglianze, mentre le libertà democratiche (i diritti politici) vengono identificati con le libertà tout court. In tal modo Bobbio può classificare i regimi politici a seconda che garantiscano o meno le libertà (diritti politici) e/o l’eguaglianza (diritti civili e sociali fusi in un’unica categoria), e quindi finisce per privilegiare la socialdemocrazia (e quindi la sinistra) sulla democrazia liberale in quanto a parità delle altre condizioni (tutela dei diritti politici e di quelli civili) la prima garantisce in più i diritti sociali (o li garantisce meglio). A questo punto l’autore critica la posizione di Bobbio in quanto non coglie l’inevitabile conflitto tra la tutela delle libertà liberali e di quelle socialiste (cioè tra tutela dei diritti civili e dei diritti sociali), e quindi tra eguaglianza e libertà e indica, rifacendosi al pensiero di Hayek tre meccanismi attraverso il quali il tentativo del pubblico potere di realizzare l’eguaglianza tra i cittadini finisce per sacrificale le loro libertà: la pianificazione economica, l’espansione della burocrazia; l’eccessiva tassazione. Dato che anche la definizione di Bobbio finisce quindi per essere “asimmetrica”, cioè finisce per privilegiare la sinistra rispetto alla destra, Ricolfi si rivolge quindi alla definizione di Hayek, che trova più corretta e più rispondente alla realtà. In base ad essa l’opposizione tra destra e sinistra si costruisce innanzi tutto sul rapporto conflittuale che, per le ragioni appena dette, esiste tra eguaglianza e libertà individuale, cioè tra diritti sociali e diritti civili, un rapporto che può essere gestito privilegiando i primi (come nelle impostazioni socialdemocratiche) oppure i secondi (come in quelle liberali), ma che non può essere ignorato né risolto una volta per tutte, pena la caduta nelle forme estreme di governo che, a destra (nazismo) come a sinistra (comunismo), finiscono per imporre dall’alto la volontà dei governanti sia in tema di diritti civili e sociali, sia anche (inevitabilmente) in tema di diritti politici, sopprimendo o riducendo a pura formalità il processo democratico. Ricolfi delinea poi una sorta di “scala” del grado di ingerenza, soprattutto in materia economica del potere pubblico che va dallo Stato “minimo” a quello “limitato” a quello “interventista”, al quale corrispondono in ordine inverso diversi gradi di liberalismo o di socialismo.
Si tratta di considerazioni che hanno il pregio di centrare alcuni dei problemi fondamentali del rapporto tra destra e sinistra nel 900, che rappresenta l’eredità del secolo passato con la quale ancora oggi, nonostante i cambiamenti veloci e epocali cui si è accennato e che sembrerebbero travolgerla, ci confrontiamo. In particolare molto importante è il fatto che nel libro si individua in maniera centrata il “terreno di gioco” del conflitto tra destra e sinistra, rappresentato dal rapporto tra i diversi tipi di libertà (o i diversi tipi di diritti) da riconoscere ai cittadini e che (cosa che peraltro Ricolfi fa nel capitolo terzo del libro parlando del populismo) si deduce, anche facendo riferimento alla concezioni di José Ortega y Gasset (1883 – 1955), che tutto ciò è stato il frutto del progresso tecnologico e dell’irrompere delle masse in quanto tali sulla scena politica e sociale moderna, nella quale vengono in gran parte meno tutte le reti di rapporti personali e istituzionali che avevano caratterizzato la civiltà occidentale sino all’800 e che se da un lato limitavano le possibilità di vita dei singoli, dall’altro esaltavano la diversità e le singolarità delle situazioni specifiche nelle quali gli individui vivevano. Inoltre la stessa schematizzazione delle diverse impostazioni, grazie alla contrapposizione delle tesi di Bobbio e di Hayek, con cui destra e sinistra si sono affrontare sul terreno in esame non solo è sostanzialmente esatta, ma è anche chiarificatrice del conflitto dialettico tra le due parti politiche nel Novecento, così come lo sono le osservazioni sulle conseguenze delle degenerazioni estreme di entrambe le posizioni. Rimangono invece in ombra due aspetti molto importanti che ci possono essere d’aiuto nel comprendere meglio la situazione attuale nella quale siamo di fronte alla crisi della destra e della sinistra classiche e all’evoluzione del populismo, nonché a valutare meglio la possibili linee di tendenza future. Il primo è rappresentato dalle differenze che il rapporto tra destra e sinistra ha presentato per tutto il Novecento nei diversi Paesi occidentali. Ci rendiamo conto che un discorso quale quello di Ricolfi che voglia cogliere alcuni aspetti fondamentali della politica di tutto un secolo debba necessariamente passare sopra a molti particolari, ma vi sono alcune differenze molto importanti, le quali comportano che gli stessi caratteri comuni a tutta la cultura occidentale, diventata già nel 900 e ancora più oggi con la diffusione dei mezzi di comunicazione informatici sempre più intercomunicante, vengono tuttavia declinati secondo le concezioni tradizionali tipiche delle singole culture nazionali, che sono molto differenti tra loro. Così l’antitesi tra destra e sinistra, per limitarci ai regimi democratici (su quelli totalitari torneremo tra poco) ha visto nel 900 una contrapposizione molto forte, quasi “religiosa” nei Paesi latini, una contrapposizione he in particolare in Italia è quasi sempre stata caratterizzata, come nota Ricolfi alla fine del primo capitolo, da una sorta di complesso di superiorità orale se non di disprezzo per la controparte (soprattutto della sinistra nei confronti della destra). Il rapporto tra destra e sinistra si è svolto invece attraverso una dialettica fatta di variazioni tutto sommato secondarie basate su una concezione comune in Germania e nei Paesi nordici, mentre si è prevalentemente concentrato su questioni empiriche o comunque interpretate come scelte particolari, non “dogmatiche” e sempre modificabili al cambio di maggioranza nei Paesi anglosassoni, dove la stessa distinzione tra destra e sinistra è sempre stata meno forte. Si pensi alla Gran Bretagna con il fair play politico e il ruolo istituzionale dell’opposizione; si pensi soprattutto agli Stati Uniti, dove spesso era difficile identificare i due partiti con la destra e la sinistra tout court: ad esempio il partito democratico era esponente dei ceti operai e impiegatizi, ma anche dei proprietari agrari della parte meridionale del Paese, talora quasi nostalgici (almeno in senso culturale) della confederazione sudista. Queste differenze sono molto importanti anche se tendono ad essere trascurate nella cultura di oggi, ma esse rappresentano in un certo senso le strutture portanti della evoluzione storica ed il tenerne conto ci consente di potere valutare meglio l’evoluzione del rapporto tra destra e sinistra dall’inizio della globalizzazione sino ad oggi.
Un’altra analisi che non viene sviluppata appieno nel primo capitolo è quella dei regimi totalitari che purtroppo hanno rappresentato una componente determinante nella storia del 900: si pensi che nel 1940 tutta l’Europa continentale, dopo la resa della Francia e la creazione della repubblica di Vichy, era soggetta a tale tipo di regimi, alcuni egemonizzati dalla Germania nazista, altri dalla Russia sovietica, i quali negavano o privavano di contenuto tutti i tre tipi di libertà di cui abbiamo parlato. A parere di chi scrive si può dire che anche i regimi totalitari hanno svolto la loro azione criminale operando sullo stesso terreno di gioco dei diversi tipi di diritti da riconoscere ai cittadini, ma anziché lasciare che il contenuto concreto dei diritti civili, sociali e politici fosse determinato in base a regole condivise da tutti e, nel rispetto di queste regole, dal confronto democratico, hanno preteso di stabilire dall’alto e una volta per tutte e quindi in maniera “dogmatica” e definitiva le soluzioni, cercando quindi di imporre con la forza del potere politico la creazione di un mondo perfetto, la realizzazione ultima del paradiso sulla terra (che fosse quello delle comunità nazionale nazista o quello del proletariato mondiale comunista), il che ha portato, secondo uno dei maggiori pensatori liberali del secolo scorso Karl Popper (1902 – 1994) alla creazione di un “rispettabile inferno”, i cui “gironi” fatti di oppressione e di dolore sono purtroppo ben noti. In fin dei conti, parlando dei regimi totalitari del Novecento anche la distinzione tra destra e sinistra perde buona parte del suo valore, proprio perché essa presuppone comunque una dialettica tra le due parti e un comune rispetto delle regole del gioco (anche solo quelle del processo democratico). È ben vero che il fascismo e il nazismo sono considerate delle dittature di destra mentre il comunismo è ritenuto un totalitarismo di sinistra, ma a ben guardare molti provvedimenti in tema di governo “sociale” dell’economia propri di ciascuno di questi regimi non erano molto diversi tra loro, e ad esempio il nazismo non potrebbe essere considerato più liberale del comunismo poiché ammetteva la proprietà e l’iniziativa economica private, dato che tanti e tali erano i vincoli sui proprietari e imprenditori che essi non potevano che agire nella direzione voluta dal regime, e lo stesso vale a parti invertite per le maggiori “libertà” garantite dal comunismo in tema di vita personale e familiare. Vero è a nostro parere che, quando il potere pubblico fa propria e assolutizza una visione della realtà politica e sociale nonché una serie di obiettivi ritenuti di interesse generale, a maggior ragione se riferiti ad una visione “ideale” del mondo, e non si limita a stabilire le regole del vivere civile ed eventualmente ad adottare specifici (e sempre modificabili) programmi empirici di miglioramento della società, tutti i diritti vengono di fatto vanificati e privati di valore, e ciò anche se formalmente vengono esaltati, dal momento che il loro contenuto è stabilito dall’alto. Infatti la storia del 900 ci insegna che si possono anche svolgere numerosi procedimenti elettorali e referendari senza che gli elettori abbiamo la possibilità di decidere sulle cose più importanti, che le libertà in campo economico e civile possono essere tanto condizionate dalle regole e dalle politiche pubbliche da potere essere esercitate solo nel modo conforme alle scelte dei governanti, che le attività assistenziali e dirette a promuovere un miglioramento sociale possono essere indirizzate non in base alle effettive esigenze della popolazione ma secondo le direttive e le ideologie politiche di chi detiene il potere, ecc.. Si tratta di temi importanti da sottolineare, che a parere di chi scrive servono a integrare il discorso di Ricolfi sul rapporto tra destra e sinistra nel Novecento.



Qualche dubbio sulla portata liberista dell’Ulivo mondiale e della globalizzazione

Il secondo capitolo del libro è dedicato al “lungo addio” tra sinistra e popolo: in esso si percorrono gli ultimi decenni, analizzandoli con riferimento alla posizione politica della sinistra (classica) e al suo progressivo distacco dalle classi popolari, ma nel far questo, come si è già accennato, Ricolfi finisce inevitabilmente per trattare in maniera più o meno esplicita anche della destra (anch’essa classica) e in particolare di quel progressivo mutamento reciproco delle due parti politiche che è al tempo stesso causa ed effetto del loro distacco dalle classi popolari e dal popolo in genere, e che ha aperto la strada all’affermazione delle posizioni “populiste”. Dopo aver parlato sia del periodo dello sviluppo economico occidentale nei primi decenni del dopoguerra e del trionfo dello stato sociale (stato del benessere, del “welfare”) sia della crisi di tale modello economico che si ha negli anni 70 e che viene affrontata all’inizio degli anni 80 con le politiche tese a privilegiare l’iniziativa privata anche come mezzo per realizzare un maggior benessere sociale a fronte della crescente insostenibilità fiscale dello stato assistenziale, politiche che trovano attuazione soprattutto con il primo ministro britannico Margaret Thatcher (1925 – 2013) e con il presidente americano Ronald Reagan (1911 – 2004), Ricolfi affronta quello che è stato uno dei momenti di passaggio più importanti dell’epoca recente, la fine del comunismo e della guerra fredda e l’avvio della globalizzazione economica e sociale basata su modelli e principi derivati dal capitalismo occidentale e in ultima analisi dal pensiero liberale. Si tratta di uno snodo storico di importanza fondamentale, il cui peso futuro inevitabilmente non riusciamo ancora ad apprezzare appieno quale sarà il cui inquadramento a livello teorico è tutt’altro che facile. Una delle cose più interessanti e per molti versi sorprendenti dal punto di vista culturale avvenute in rapporto alla fine del comunismo sovietico e all’avvio della globalizzazione è sicuramente stata rappresentata dalla svolta culturale della sinistra tradizionale, nel senso che quasi di punto in bianco tutti i sostenitori di posizioni socialiste (non solo socialdemocratiche, ma anche socialiste radicali se non comuniste in senso quasi sovietico) si sono convertiti alle tesi liberali soprattutto in tema di politica economica e sono diventati sostenitori del libero mercato. Un fenomeno collettivo difficile da spiegare anche ad anni di distanza, che ha riguardato non singoli individui ma interi movimenti politici e che pertanto non può essere spiegato a livello psicologico ma va interpretato a livello culturale e sociale. L’autore si limita a descriverlo nel capitolo di cui ci occupiamo, salvo tornare su di esso in sede di analisi dello sviluppo del populismo, dove rifacendosi a alcune affermazioni di Marcello Veneziani, afferma che l’apertura ai valori del mercato dal parte degli schieramenti di sinistra rappresenta in sostanza una sorta di liberazione finale degli impulsi individualisti da sempre presenti del socialismo anche marxista, in passato repressi dall’autoritarismo degli Stati comunisti. Di conseguenza egli conclude che nell’epoca attuale le differenze tra destra e sinistra classiche sono meno importanti delle cose che le due parti hanno in comune, e ovviamente su questo avvicinamento reciproco ritorna nell’epilogo del libro. Come portavoce a livello teorico di questa svolta della sinistra Ricolfi fa riferimento al sociologo britannico Anthony Giddens, mentre come esempi di leaders progressisti che avrebbero rinunciato alle tentazioni collettiviste e stataliste per abbracciare le tesi del primato del mercato cita il presidente americano Bill Clinton, il premier britannico Tony Blair, il cancelliere tedesco Gerhard Schröder e il presidente del consiglio italiano Romano Prodi, e accenna addirittura al progetto (che invero si rivelò ampiamente velleitario) di una sorta di federazione internazionale dei progressisti chiamata “Ulivo mondiale” lanciata proprio dalla sinistra italiana. L’autore non si nasconde le numerose difficoltà e i problemi che la globalizzazione poneva già al suo avvio e che la successiva crisi ha posto in luce in maniera drammatica e spietata: citando la lucida analisi a suo tempo fatta in materia da Giulio Tremonti, parla di un processo avvenuto in maniera troppo rapida e governato da troppo poche regole. Inoltre la sua analisi prende in esame in maniera acuta e corretta sia le modalità con cui la globalizzazione è avvenuta, cioè il fatto che essa abbia riguardato essenzialmente i movimenti di capitali da una parte all’altra del pianeta e che l’aspetto finanziario dell’economia abbia assunto un ruolo esagerato a scapito delle attività produttive e imprenditoriali vere e proprie, sia le conseguenze negative causate dalla stessa, quali la deindustrializzazione di molti Paesi occidentali (in particolare, aggiungiamo noi, il nostro); l’apertura delle frontiere al passaggio spesso incontrollato e illegale di uomini (e questo vale in particolare ancora una volta per l’Italia) merci e capitali; la situazione di stagnazione economica seguita alla crisi del 2007 da cui molti Paesi non riescono a riprendersi. Questo disincantato esame non porta però Ricolfi a modificare il suo giudizio sulla globalizzazione che rimane a suo parere un’espressione dei principi individualistici e un momento fondamentale dell’affermazione dei principi liberali nella storia umana. Su questo non lo seguiamo e preferiamo trarre conclusioni diverse da quelle cui giunge nell’opera che stiamo esaminando.
Forse la chiave di lettura con cui cercare di comprendere il modo con cui destra e sinistra, o più in generale la cultura liberale e quella socialdemocratica hanno affrontato la globalizzazione è l’espressione “fine della storia”, dovuto al fortunato libro del 1992 di Francis Fukuyama, un’espressione che di primo acchito (e ad onor del vero oltre alle tesi del suo autore che mantiene comunque un certo grado di impostazione critica sulla realtà che descrive) evoca subito un’assonanza forte con quella che fu la mentalità totalitaria del 1900 cui abbiamo accennato sopra: l’inizio di un’epoca “ideale” per l’umanità, un’epoca molto vicina alla perfezione, simile al “regno millenario” dei giusti della tradizione cristiana, un regno millenario non più posto in un futuro remoto, ma presente nella forma del capitalismo di mercato, finalmente vincitore sul comunismo. Si tratta di un’idea affascinante, capace di sedurre i migliori intelletti umani, un’idea che ha profondamente trasformato, innestandosi su tutta una cultura ereditata dai movimenti giovanili degli anni 60 fatta di ideali astratti e di fuga dalla responsabilità concrete, la società occidentale e che ha avuto importanti conseguenze anche sulla politica modificando non solo i rapporti reciproci tra, ma addirittura gli stessi concetti di, destra e sinistra. Dal punto di vista della cultura liberale, l’apparente trionfo definitivo e senza ritorno della logica del mercato e della libertà individuale si è paradossalmente messo in contrasto con uno dei suoi fondamenti: la pretesa di essere semplicemente un insieme di regole e non un fine, un obiettivo da raggiungere. Infatti, per la cultura liberale classica, quella che esalta il ruolo del mercato e della libera iniziativa privata, i fini della storia rappresentano solo la sommatoria dei fini dei singoli individui e non possono mai essere definiti a priori. Con la globalizzazione invece per molti il liberalismo è diventato un’ideologia, un assetto sociale reso inevitabile dal progresso storico che una serie di esperti più o meno illuminati “tecnicamente” possono comprendere, e una serie di governanti guidati da quelli possono gestire secondo dei principi indiscutibili. Un liberalismo in forma quasi marxista si potrebbe dire. Questa forma quasi marxista è a nostro parere l’aspetto che ha attratto gran parte della cultura socialdemocratica e progressista nella sua fulminea conversione al mercato: abbandonata la fase statalista e in particolare quella comunista come un errore della storia, dal punto di vista di molti politici e pensatori socialisti o progressisti, il cammino verso il mondo ideale poteva proseguire anche se non più in direzione sovietica, ma grazie al metodo del capitalismo privato, nella direzione di un’economia e di una società nella quale la libertà, in campo economico e non solo, domina la società, salvo il fatto che essa è regolata e disciplinata dall’alto, da un potere che stabilisce quale sia l’assetto ideale del mondo e quindi il ruolo dei singoli nell’ambito dello stesso. Un marxismo con una veste esteriore quasi liberale si potrebbe dire. Con questo non si vuole identificare tout court lo spirito della globalizzazione con il totalitarismo, ma è indubbio che molti elementi che possono avere uno sviluppo in senso totalitario o almeno nel senso dell’imposizione di un pensiero unico erano già presenti in questa assolutizzazione del mercato e del ruolo riservato ai soggetti privati in genere, visti come “esecutori” del disegno della storia compreso e imposto dai poteri pubblici. I successivi sviluppi negli ultimi decenni hanno purtroppo confermato questa tendenza grazie allo sviluppo delle concezioni tecnocratiche del potere per quanto riguarda i rapporti economici che come vedremo in seguito si sono unite a quelle buoniste relative ai rapporti più in generale sociali. Per comprendere che la globalizzazione è figlia, più che del liberismo, del dirigismo economico, un dirigismo affidato non solo ai nuovi soggetti, le organizzazioni internazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization), o transnazionali come l’Unione europea, ma anche ai governi statali che da un lato hanno creato quelle organizzazioni e dall’altro sempre più si allineano alle loro deliberazioni, basta scorrere le puntuali osservazioni di Ricolfi, che non solo fa proprie le preoccupazioni di Tremonti cui abbiamo accennato, ma parla esplicitamente di una globalizzazione che si è sviluppata soprattutto attraverso una circolazione dei capitali, che ha portato ad una finanziarizzazione dell’economia, al prevalere della deindustrializzazione delle nazioni occidentali a favore di Paesi dove i costi del lavoro sono minori (e le imposizioni ai lavoratori dipendenti in termini di orario e di modalità del lavoro sono inaccettabili per le società occidentali), ma tratta anche del ruolo decisivo dei poteri pubblici nella gestione dei flussi finanziari e quindi dell’intera economia, come è accaduto nel caso della bolla dei mutui immobiliari garantiti dal tesoro americano e dalla Federal reserve, che ha dato l’avvio alla crisi del 2007, e come è accaduto anche (e accade tuttora) con la politica di molte istituzioni finanziarie pubbliche (in testa la Banca centrale europea) di acquistare quasi tutti i tipi di titoli emessi (anche se non sicuri) al fine di facilitare la circolazione del denaro e lo sviluppo del credito (cosiddetto “quantitative easing”). A nostro parere andrebbe aggiunta, per quanto concerne l’Italia e i Paesi europei continentali, la stessa istituzione di una moneta unica, l’euro che sovrapponendosi ad economie diverse e non facilmente unificabili distorce sia una sana concorrenza, ad esempio impedendo all’economia italiana di “riequilibrare” i propri rapporti con i Paesi esteri (intra ed extra comunitari) tramite le fisiologiche svalutazioni della lira sia la stessa cooperazione tra i citati Paesi. Riguardo a questo argomento sono proprio i nostri studi precedenti in tema di discrezionalità del potere pubblico che ci consentono di dire che non sempre è vera l’equazione: intervento pubblico uguale dirigismo, non intervento uguale liberismo. Da un lato un intervento pubblico consistente in una serie di regole chiare e di azioni mirate e con fini ben definiti può quasi sempre agevolare l’iniziativa privata ed anzi molte volte è indispensabile per sostenerla, mentre l’assenza di intervento motivata dalla pretesa “neutralità” rispetto al mercato può distruggere l’iniziativa individuale favorendo e spesso contribuendo a creare posizioni di forza da punto di vista economico che in una situazione di libera competizione non troverebbero posto: si pensi, per rimanere agli esempi citati, al vantaggio competitivo accordato ai Paesi non occidentali a basso costo del lavoro e a basso (spesso per imposizione dall’alto) tenore di vita che possono reinvestire in Occidente i loro “surplus” economici; si pensi parimenti alle agevolazioni all’economia tedesca (e dei Paesi del nord Europa) fornite dall’euro, che al di là di nazionalismi fuori luogo e in accordo con quanto sostiene un economista come David Marsh, ci porta ad affermare che le difficoltà economiche del nostro Paese nell’epoca della crisi sono dovute anche alle distorsioni create dalla moneta unica. Inoltre una regolamentazione dell’attività economica che abbia la pretesa di disciplinare ogni aspetto della attività imprenditoriale finisce per condizionare in maniera decisiva il mercato e la libertà individuale proprio perché ogni regolamentazione troppo dettagliata, troppo “perfetta” finisce per creare discrezionalità in chi la applica: l’esempio più calzante è la normativa dell’Unione europea sulla concorrenza, fatta di regole, controregole, eccezioni e controeccezioni cui si aggiungono alcuni casi particolari, il che la rende soggetta ad interpretazioni estremamente variabili da caso a caso, a seconda delle concezioni degli esperti “tecnici” chiamati ad applicarla. Del resto, se guardiano ai mutamenti della realtà economica e sociale del nostro Paese degli ultimi trent’anni possiamo notare che la politica di privatizzazione dell’economia, portata avanti soprattutto dai governi presieduti da Giuliano Amato e Romano Prodi, è avvenuta senza una liberalizzazione del mercato ed ha creato un sistema ancora più dirigista (e quindi meno liberale) di quello precedente e più condizionato dai poteri politici: si pensi alle grandi società di servizi nazionali (poste, ferrovie, energia ecc.) o a quelle locali, le cosiddette “partecipate” dei Comuni, e a tutto ciò si è aggiunta la “svendita” a soggetti non sgraditi ai politici, di buona parte dell’ex industria pubblica. Risultati che mettono in evidenza come l’apertura alla libertà individuale in campo economico della sinistra italiana è stata decisamente discutibile e che la sostanza “socialista” ha prevalso sulla forma “liberale”.
Si condividono le considerazioni di Ricolfi sui caratteri della globalizzazione, ma non necessariamente l’apertura del mercato, l’integrazione a tutti i costi delle economie del pianeta, la corsa verso un mondo ridotto a un “villaggio globale” sono espressione di liberalismo o di individualismo: a questo proposito è giusto richiamare di nuovo Popper e il suo concetto di individualismo come distinto dall’egoismo ed opposto al collettivismo, cioè a ogni visione del mondo che propone una società definita dall’alto (anche se chiamata “libero mercato”) e considera gli individui come pedine finalizzate a realizzare la costruzione di tale società (anche se tramite le “leggi” più o meno imposte dell’economia finanziarizzata). Sicuramente in questo tipo di libertà economica non si sarebbero riconosciuti i fondatori del pensiero liberale come Adam Smith (1723 – 1790), che considerava la libertà economica quasi come un’appendice della libertà individuale. Con questo non vogliamo demonizzare la globalizzazione: un’analisi equilibrata non può che riconoscerne anche alcuni pregi, tra cui lo sviluppo economico e in parte sociale di molti Paesi non occidentali che sono usciti dalla soglia della povertà, il che ha portato ad un livello di distribuzione delle produzione e della ricchezza che come giustamente Ricolfi sottolinea, in controtendenza alla diffusa ed errata opinione del crescente divario tra nazioni povere e nazioni ricche, ha fatto sì che “il mondo non è mai stato eguale come oggi”. Tutto ciò però non può impedirci di constatare che molti degli aspetti negativi della evoluzione economica, sociale e politica del mondo negli ultimi decenni, in particolare quelli seguiti alla crisi del 2007 e alla successiva “stagnazione” economica, sono principalmente la conseguenza di una mentalità dirigista e poco “liberale” che sta alla base della globalizzazione, una mentalità che si è sempre più collegata e fusa, anche se spesso in un modo “dialettico”, fatto di reciproche critiche e rimproveri, con quella del pensiero politicamente corretto e buonista.



La diversità dei populismi e il totalitarismo delle élites burocratico-tecnocratiche

Nel terzo capitolo di Sinistra e popolo viene infatti affrontato il tema del populismo, termine con il quale, soprattutto da parte dei loro detrattori, vengono indicati i movimenti che vorrebbero rappresentare e portare avanti gli interessi e la volontà del popolo, e in particolare degli strati sociali meno influenti politicamente, in opposizione alle decisioni delle èlites e alle loro “verità” filoglobaliste e politicamente corrette. In questo senso significativa è la frase di Jean Michel Naulot riportata in epigrafe al libro per cui la sinistra chiama populista il popolo quando questo sfugge alla sua influenza, segno del fatto che la nuova situazione politica e culturale causata dalla globalizzazione e dalla crisi sta sfuggendo di mano alla sinistra tradizionale, ma più in generale anche alla destra, dato che entrambe le parti rischiano di essere “spiazzate”, come Ricolfi afferma, dalla nuova contrapposizione di valori che si è venuta a creare, contrapposizione in relazione alla quale si sono affermati i movimenti “populisti”, termine usato in maniera un po’ troppo generica nel libro, che finisce per unire sotto un unico termine movimenti e realtà politiche e culturali, che pur avendo molti punti in comune sono profondamente differenti. Ciò vale innanzi tutto per i movimenti populisti ante globalizzazione, che Ricolfi descrive nella prima parte del terzo capitolo, e tra i quali comprende ad esempio il Fronte dell’uomo qualunque di Guglielmo Giannini (1991 – 1960) che ebbe un certo successo politico alle elezioni per l’assemblea costituente del 1946 per poi sparire in pochi anni, un movimento e poi un partito non inquadrabile a nostro giudizio nel populismo, ma criticabile semmai per il suo carattere elitario e per l’incapacità di andare oltre una critica “paradossale” ai principi clientelari e corporativi della politica italiana, e non certo per essersi rivolto alle masse al fine di una “rivoluzione” guidata dalla popolazione contro i potenti di turno. Peraltro anche movimenti decisamente più “carismatici” e diretti a sollecitare il consenso “di pancia” delle popolazioni come il peronismo argentino o partiti impegnati ad esaltare le trazioni popolari e il ruolo delle comunità etniche nazionali o regionali, come il poujadismo francese, i movimenti nazionalisti norvegesi o greci, e persino la Lega dei primi anni in Italia sono diversi a nostro parere dai movimenti e partiti oggi definiti populisti perché le pretese che avevano di rappresentare al meglio i valori e gli interessi della “gente”, presupponevano una continuità di valori e di principi tra élites politiche e popolazioni, che faceva parte di quel “terreno di gioco” sui cui le diverse parti politiche si affrontavano, e sul quale operavano oltre alle destre e alle sinistre classiche anche i diversi partiti e movimenti citati che intendevano, la loro volta in base concezioni di destra o di sinistra o spesso miste, rivolgersi al popolo offrendo un’alternativa politica che fosse migliore dal punto di vista di questi principi comuni rispetto a quelle offerte dai partiti classici. Oggi, e questa è la differenza fondamentale che Ricolfi riconosce in una delle osservazioni più profonde ed importanti contenute nel libro, quella continuità di valori e principi tra élites politiche e popolazioni è in gran parte venuta meno a causa dalla mentalità buonista e politicamente corretta, ed i movimenti populisti rappresentano in primo luogo una reazione contro tale situazione, rispetto alla quale egli parla, citando le tesi di Federico Rampini e di Cristopher Lasch di “tradimento” delle élites. Quale che sia il giudizio che si vuole dare è certo che l’epoca attuale dominata dal politicamente corretto sta assumendo un carattere elitario che ha avuto pochi precedenti nella storia moderna, soprattutto se tale mentalità ai unisce a quella tecnocratica in materia economica. Oggi le élites (o almeno la grande maggioranza dei loro componenti) calano dall’alto sui singoli cittadini non solo le regole su come lavorare e impiegare il proprio denaro, ma anche su come comportarsi di fronte al terrorismo, all’immigrazione clandestina, su come valutare l’azione altrui e su quali sentimenti provare ad esempio di fronte ad un criminale. Le stesse élites stabiliscono quali idee sono vietate (quelle politicamente scorrette) e quali differenze non vanno fatte tra gli esseri umani in nome di una piatta e totalitaria parità, e non contente di ciò arrivano persino ad imporre il modo di parlare attraverso l’uso di determinati termini o dei generi grammaticali, giungendo spesso ad assurdità che fanno a pugni con la lingua italiana, di cui gli esempi più lampanti sono termini come “la presidenta” o “la sindaca” ecc., termini sino a qualche anno fa usati solo nel linguaggio popolare burlesco, ed oggi previsti e imposti normativamente in alcuni dei più importanti organismi pubblici italiani. Di questa situazione si deve dare atto che Ricolfi fornisce una analisi molto puntuale e coraggiosa, che dimostra la sua chiarezza di pensiero e la sua onestà intellettuale, dato che, fermo restando il pieno rispetto per le opinioni politicamente corrette, è ben vero che oggi chi si mette contro di esse non sempre ha vita facile. Molto dure sono le affermazioni contenute nel libro dove si parla degli atteggiamenti di coloro che sostengono le posizioni politicamente corrette, tra cui vanno compresi i movimenti già di sinistra che oltre a convertirsi ai valori del mercato globalizzato si sono allineati a tali idee, le organizzazioni umanitarie internazionali, le istituzioni cattoliche che anche grazie all’opera di papa Francesco I sono sempre più imbevute di tali concezioni. Tali atteggiamenti, basati su quello che Ricolfi chiama il “capovolgimento” del senso comune (ad esempio gli immigrati non sono un pericolo ma una risorsa, l’Unione europea non è un problema ma la soluzione ecc.) vengono definiti “derisori”, “sprezzanti”, “supponenti” ecc., e vengono attaccati i “sermoni” buonisti che vogliono indottrinare le persone dall’alto della presunta maggiore conoscenza e superiorità morale (ritorna qui un tema già caro alla sinistra classica, almeno in Italia) di chi li predica, spesso dal pulpito dei grandi giornali o dei networks televisivi e/o informatici. Segue quindi una carrellata di assurdità del politicamente corretto relative a diversi aspetti che riguardano i rapporti umani, le valutazioni personali e le convenzioni linguistiche cui abbiamo accennato, sino alla imposizione di comportamenti “innaturali”, quali il non avere paura del terrorismo, il non punire i crimini efferati, il non limitare l’ingresso degli stranieri in uno Stato ecc. Nel far questo giunge sin quasi ad inquadrare concettualmente il preoccupante fenomeno dell’esplosione del pensiero politicamente corretto, nel momento in cui dopo avere parlato esplicitamente di “pensiero unico” e di distacco “abissale” tra élites (“mondo di sopra”) e popolazioni (“mondo di sotto”), usa l’espressione “eccessi di civiltà”, riecheggiando di fatto il concetto del già citato Popper secondo cui l’inferno su questa terra viene realizzato dall’eccesso di bene, o se vogliamo dalla presunzione umana di imporre dall’alto il mondo perfetto, cosa che la mentalità politicamente corretta purtroppo condivide con quelle dei movimenti totalitari del 900, nonché con la concezione tecnocratica che pretende di costruire dall’alto il mercato globale ideale.
Proviamo a compiere questo ulteriore passo: se la mentalità buonista, politicamente corretta e umanitarista giunge ad imporre cosa pensare e come parlare, e soprattutto costringe, utilizzando (o decidendo di non utilizzare), il potere pubblico ad adattarsi comportamenti innaturali come il premiare chi trasgredisce le leggi anche in modo grave, il soddisfare le pretese senza titolo di alcuni (ad esempio gli immigrati clandestini) ledendo i diritti spettanti ad altri (i cittadini di uno Stato), non possiamo che concludere che questa mentalità porta in sé il germe del totalitarismo. Forse non un totalitarismo violento come quelli del Novecento, ma non meno invasivo, in quanto portato ad inserirsi capillarmente nella vita dei singoli, sfruttando la naturale tendenza alla tolleranza e all’apertura verso le altre culture, ed imponendo dall’alto, con le modalità e i contenuti stabiliti da pochi illuminati, attività e più a monte sentimenti che sono tra i più nobili dall’essere umano (il rispetto per il diverso, l’accoglienza verso i più sfortunati, il recupero di chi trasgredisce le leggi ecc.), ma lo sono in quanto sono lasciati alla libera responsabilità di chi li compie, come del resto la tradizione cristiana ha sempre insegnato, forse prendendo spunto dal Buon samaritano che non chiama le autorità perché impongano a qualcuno di aiutare l’uomo ferito ma lo fa a sue spese e appunto sotto la sua responsabilità. Questa componente totalitaria viene sottovalutata nel libro di Ricolfi, che pure come detto ne denuncia coraggiosamente eccessi e aberrazioni: che non si tratti di un puro gioco di intellettuali radical chic o di organizzazioni umanitarie più o meno “estremiste” nel loro buonismo lo dimostra l’esperienza di tutti i giorni, dato che in tutto ciò il potere pubblico interviene in maniera sempre più costrittiva, e lo fa (altra analogia con quanto detto in tema di concezione tecnocratica del mercato) o tramite una serie di regole tanto dettagliate da limitare fortemente le libertà dei singoli oppure tramite una serie di non interventi motivati dalla apertura e dalla tolleranza verso situazioni che invece un potere pubblico che tuteli le libertà individuali dovrebbe provvedere a correggere. Riguardo al primo aspetto si pensi alle mille regole, che caratterizzano i vari “codici” di disciplina delle diverse attività professionali, e che già in alcuni casi sono entrate più o meno direttamente nella legislazione e penale (a volte grazie ad un’opera interpretativa di buona parte della magistratura) e che puniscono come forme di “odio” comportamenti che rappresentano solo forme di maleducazione (ad esempio gli sfottò razziali, dato che il razzismo è ben altra cosa) o addirittura, cosa più grave, che costituiscono legittime e spesso condivisibili, a nostro parere, manifestazioni di pensiero (ad esempio la contrarietà alle adozioni da parte di coppie di omosessuali). Quanto al secondo aspetto basti accennare a due aspetti cruciali entrambi caratterizzati dall’assenza di intervento pubblico: l’immigrazione clandestina che il potere statale, in particolare in Italia non riesce a frenare e che finisce invece per finanziare, favorendo più le citate organizzazioni umanitarie che gli stessi immigrati, e la tutela contro la criminalità che in assenza di una certezza della pena e di un controllo del territorio spesso induce le vittime di aggressioni a difendersi da sé rischiando a propria volta di essere condannati, penalmente e civilmente; per eccesso di legittima difesa. Insomma quanto basta per definire quella del buonismo e del politicamente corretto come una vera e propria ideologia, che unendosi alla cultura tecnocratica dà vita ad un pensiero dominante, che in molti contesti diventa un vero e proprio pensiero unico, che ha portato alla netta separazione tra gran parte delle élites non solo politiche, ma anche economiche (in genere i maggiori operatori economici sono tutti di rigida osservanza buonista), culturali e religiose e le popolazioni, e in particolare le classi sociali più basse nelle quali a causa della crisi rientrano molte persone già facenti parte del ceto medio. Che i movimenti populisti attuali abbiamo la loro origine nella reazione da parte di molti a questa cultura elitaria dominante e alle sue conseguenze fortemente limitative delle libertà civili ma anche delle tradizionali “pretese” sociali dei singoli è un fatto che viene chiaramente descritto in Sinistra e popolo, e rappresenta una dei grandi pregi del libro. Dal canto nostro però vorremmo provare a dare un giudizio più articolato del populismo e a diversificare tra le diverse esigenze portate avanti dai movimenti che vengono descritti con tale termine. Se è vero che i due principali timori all’origine dei movimenti e partiti definiti populisti e quindi i due principali bersagli polemici sono da un lato gli effetti negativi, economici e sociali, della globalizzazione e dall’altro il disordine e l’insicurezza sociali, causati dall’immigrazione incontrollata, intrecciata con la paura degli attacchi terroristici, è altrettanto vero come sostiene Ricolfi che nella galassia dei partiti populisti possiamo distinguere modalità più affini alla destra tradizionale (ostili soprattutto all’immigrazione di persone) e modalità più vicine alle posizioni tradizionali della sinistra (ostili principalmente ai movimenti di capitali e alle operazioni finanziarie globali), da questo non deriva necessariamente che tutte le espressioni politiche definite “populiste” abbiano alla loro base una concezione “organica” della società che quasi annulla gli individui all’interno del corpo sociale più o meno “tradizionale”, una concezione basata sulla xenofobia e sulla pregiudiziale ostilità alle organizzazioni internazionali e alla loro visione basata sui valori universali dell’individualismo. All’autore di Sinistra e popolo fa forse velo la sua concezione sostanzialmente positiva (nonostante le sue severe critiche) sia della globalizzazione che della mentalità umanitarista e politicamente corretta, viste appunto come concezioni che promuovono i valori del liberalismo e dell’individualismo, una concezione che gli impedisce di cogliere appieno come gli “eccessi di civiltà” della mentalità tecnocratico – buonista non rappresentano delle occasionali degenerazioni o “deviazioni” a quei valori, ma costituiscono una componente essenziale di una concezione che può sfociare nel totalitarismo. Infatti molti fenomeni politici (e non solo) inquadrabili nel populismo non solo non rispondono ai valori definiti sopra (società organica, xenofobia ecc.), ma rappresentano a pieno titolo delle espressioni di liberalismo e delle affermazioni dell’individualismo su cui si è basata da sempre la tutela dei diritti nelle società occidentali. Così, cosa che del resto Ricolfi ammette pur senza trarne le conseguenze a livello di valutazione generale del carattere liberale di molte istanze “populiste”, l’ostilità verso le organizzazioni transnazionali (come l’Unione europea) può bene essere motivata dalla loro mancanza di democrazia e dalla mentalità dogmatica e autoritaria che guida la loro azione; la richiesta di porre un freno all’ingresso degli immigrati clandestini (visti in maniera negativa non in quanto immigrati, ma in quanto clandestini) può essere motivata dalle conseguenze in tema di illegalità, di ordine pubblico e di lesione delle libertà dei cittadini che gli ingressi massicci in violazione delle norme provoca; la disapprovazione di certi eccessi di tutela a livello di linguaggio e di atteggiamenti può esser motivata dall’esigenza di potere esprimere liberamente il proprio pensiero e via dicendo.
Dal nostro punto di vista non siamo quindi d’accordo a mettere insieme movimenti e figure che, se pure accomunate dai temi “populisti; presentano programmi di governo e portano avanti decisioni che assumono valori molto diversi a seconda del contesto politico e culturale in cui vengono in essere: ad esempio, in una figura per molti versi estrema anche per gli standards del partito repubblicano americano come è l’attuale presidente Donald Trump, non si può dire che prevalgano aspetti “arcipopulisti”, dato che la cultura politica americana, nonostante gli eccessi degli scontri tra le parti, è talmente impregnata di liberalismo e, quella sì, di individualismo che anche le posizioni di un presidente come Trump finiscono quasi sempre per assumere un valore liberale, dato che come da tradizione dei Paesi anglosassoni esse non rappresentano dei valori assoluti, ma delle scelte empiriche da verificare ed eventualmente da modificare da parte di un altro presidente, così come Trump sta modificando le decisioni e gli orientamenti del suo predecessore Obama. Siamo tornati alle specificità culturali dei vari Paesi cui avevamo accennato parlando del rapporto tra destra e sinistra nel 900: la nuova era non le ha spazzate via, e del resto eliminare il passato e la cultura che di quel passato è il frutto non è cosa semplice, nemmeno nella società dominata dalla globalizzazione e dai social networks. Anche le mentalità tecnocratico buonista da un lato e il cosiddetto populismo dall’altro si declinano infatti in vari modi e portano ad effetti diversi nei vari Paesi: si pensi solo, pur all’interno di una generale apertura più o meno “dogmatica” all’apertura delle frontiere agli immigrati clandestini, alle differenze tra l’accoglienza ordinata e pianificata tedesca o francese e quella incontrollata italiana che porta a tutti i problemi cui abbiamo accennato. Per questo, nell’accostarci all’epilogo del libro nel quale Ricolfi tira le somme del suo discorso, possiamo già anticipare che a nostro giudizio ogni affermazione che voglia sintetizzare la situazione attuale e cercare di individuare le linee di tendenza future non può non prendere in esame almeno sommariamente le differenze culturali e politiche tra i diversi Paesi, quelle differenze che probabilmente saranno anche decisive per stabilire se la civiltà occidentale sarà in grado di mantenere in tutto o in parte il suo ruolo fondamentale nel mondo globale, se sarà in grado di scongiurare le prospettive che a molti sembrano probabili e che lo stesso Ricolfi sostanzialmente condivide, di un suo inevitabile generale declino, sia dal punto di vista economico che da un punto di vista culturale.



Per concludere in via paradossale: globalizzazione società chiusa? Populismo società aperta?

Nell’epilogo di Sinistra e popolo vengono ovviamente riassunti e sintetizzati i temi portati avanti in tutto il discorso che precede e l’autore si confronta con le conseguenze politiche della situazione che si è venuta a delineare nei Paesi occidentali dopo l’evoluzione degli ultimi decenni che ha portato alle conseguenze descritte in precedenza. In particolare, come si è già accennato, egli individua una nuova antitesi capace di polarizzare il confronto politico e culturale nella cultura occidentale, quella tra i sostenitori delle concezioni che egli chiama “dell’apertura” sociale e politica che corrispondono, pur criticandone gli eccessi, a quelle filoglobaliste e umanitariste, e i sostenitori della “chiusura” che egli identifica con tutti i “populismi” che alle prime si oppongono. Inoltre, riprendendo il tema che costituisce il filo conduttore del libro, giunge a concludere che la distinzione tra destra e sinistra non è stata superata dalla storia e rimane attuale, ma che nel sovrapporsi alla nuova distinzione di cui si è appena detto, essa viene in un certo senso attenuata e che la stessa concezione di Hayek di cui abbiamo parlato abbiamo riportato in precedenza, valida sino alla fine del 900, pur aggiornata non è oggi più rispondente alla realtà politica occidentale. Nello scenario attuale infatti secondo Ricolfi destra e sinistra finiscono per essere o due “sfumature” delle concezioni “aperte”, la prima più attenta ai temi del mercato la seconda a quella del benessere dei diversi popoli, oppure due “modalità” delle concezioni che sostengono la “chiusura”, quelle di destra contrarie all’immigrazione, quelle di sinistra contrarie alla circolazione dei capitali. Quanto a dove è possibile che prevalgano le prime e dove le seconde, ribadendo quando detto nel capitolo terzo sulla prospettiva di una generale decadenza dei Paesi occidentali, avviati a suo parere a diventare una civiltà “fredda” nel senso antropologico del termine definito da Claude Lèvi Strauss (1908 – 2009), cioè una società senza sviluppo o meglio con sviluppo a somma zero (se non negativo) in cui alcuni Paesi crescono dal punto di vista economico e del benessere mentre altri ristagnano, Ricolfi ritiene che le forze dell’apertura, con le loro sfumature di destra o di sinistra si affermeranno nei primi (tra i quali comprende Germania, Gran Bretagna, Irlanda) mentre è possibile che nei secondi (tra i quali comprende Grecia, Francia e Italia) prevalgano le seconde o con le modalità di destra o con quelle di sinistra. Quanto al distacco tra sinistra e popolo, inteso come l’insieme delle classi più bassi della popolazione, egli lo ritiene ormai irreversibile dato questi strati popolari non rappresentano più l’elettorato della sinistra, che si rivolge invece al ceto medio politicamente corretto e favorevole alla globalizzazione, e che in conseguenza di questo distacco da un lato le persone socialmente meno importanti ed economicamente meno abbienti votano per i movimenti populisti fautori della “chiusura” e dall’altro la sinistra favorevole alla “apertura” e alla globalizzazione, per non perdere la sua identità di parte politica volta a tutelare le persone ritenute deboli e a rendere il mondo più uguale, si impegna soprattutto nei temi dell’accoglienza agli immigrati e del politicamente corretto.
Anche nelle sue conclusioni il libro si mantiene sul livello alto di un’analisi lucida, coraggiosa e profonda, con la quale è importante confrontarsi anche giungendo a conclusioni parzialmente differenti da quelle del suo autore. In effetti è verissimo come nota Ricolfi che la nuova alternativa tra le forze politiche occidentali sembra contrapporre soprattutto i favorevoli e i contrari alle concezioni tecnocratiche e buoniste e che essa sembra ridurre di molto quella tradizionale tra destra e sinistra: non si è invece d’accordo nel qualificare come forze “dell’apertura” i primi e forze della “chiusura” i secondi. Non possiamo ritenere che le concezioni tecnocratico – globaliste o quelle politicamente corrette e buoniste siano per loro natura, salvo qualche degenerazione, ispirate alla tutela delle libertà individuali né possiamo ritenere che quelle definite populiste siano inevitabilmente fautrici della società “organica” vista come una comunità “chiusa” e portino alla negazione delle suddette libertà. Siccome i due termini usati da Ricolfi per delineare la nuova contrapposizione politica nei Paesi occidentali richiamano inevitabilmente il più volte citato Popper, noi non crediamo (nonostante molti la pensino diversamente) di tradire le concezioni del filosofo austro – britannico se affermiamo che per molti aspetti la società globale, dominata dalla tecnocrazia, dal politicamente corretto e sempre più legata al conformismo dei social networks è una società “chiusa”, mentre molte istanze definite “populiste” dirette a stabilire delle regole certe, a valorizzare la responsabilità individuale che rappresenta l’altra faccia della libertà, sono portatrici di valori legati alla libertà individuale e quindi sono espressioni della società “aperta”. Come leggere allora la contrapposizione tra favorevoli e contrari alla tecnocrazia e al politicamente corretto, cercando di non essere a priori “asimmetrici” verso una della due concezioni opposte, ma senza rinunciare ad operare una valutazione, opinabile ma almeno motivata su tale contrapposizione? Abbiamo detto che a nostro parere sia le concezioni tecnocratiche favorevoli al mercato globale sia quelle politicamente corrette e buoniste favorevoli all’integrazione di ogni “diversità” sono criticabili in quanto rappresentano, come si è già detto che lo stesso Ricolfi nota, degli “eccessi” di esigenze e di valori certamente in sé condivisibili e degni di essere fatti propri anche a livello politico (il rispetto per la diversità, il soccorso ai deboli, gli scambi commerciali con i cittadini di Paesi esteri ecc.). Deve quindi trovarsi un antidoto all’eccesso, e se si guarda alla storia recente del Novecento l’unico antidoto agli eccessi delle feroci dittature, basate anch’esse su valori in astratto nobili (la giustizia sociale, la fratellanza comunitaria), che hanno caratterizzato il secolo scorso è sempre stato rappresentato dalla verifica empirica dei risultati delle diverse concezioni politiche, una verifica empirica che ha sempre consentito di correggere gli errori commessi e di impedire il consolidarsi delle peggiori aberrazioni ideologiche. Per aversi una verifica empirica occorre però che a livello di sistema politico sia garantita una alternanza concreta tra i fautori di una concezione e i fautori di quella opposta, una alternanza che spesso, al di là dal principio democratico e dei diversi sistemi elettorali, è essenzialmente il frutto della cultura civica di un Paese (si pensi al ruolo della stampa e dei mass media) e dei principi cui si ispira il suo ordinamento giuridico (cioè del livello di tutela delle libertà degli individui e del grado di separazione tra i poteri dello stato, entrambi diversi nei vari Paesi occidentali). Nella prima metà del Novecento solo i Paesi anglosassoni si salvarono dalla dittature, e si salvarono essenzialmente proprio per questa impostazione “empirica” e non “dogmatica” delle diverse concezioni politiche, che verificandone gli effetti in concreto tende a “depurare” ogni concezione dei suoi eccessi potenzialmente totalitari. Forse l’esempio più lampante di questa “correzione di rotta” è il proibizionismo americano su cui la cinematografia si è sbizzarrita: il divieto di bere sostanze alcoliche era basato su una concezione totalitaria del potere pubblico, ma nonostante fosse addirittura stato inserito nella costituzione degli Stati uniti nel 1919 (XVIII emendamento) la constatazione delle conseguenze aberranti di tale norma portarono alla sua abrogazione nel 1933 (XXI emendamento). Cose simili non accaddero né in Germania né in Italia né in Unione sovietica. Ci sono analogie con la situazione attuale? Nel capitolo terzo di Sinistra e popolo, Ricolfi parlando della attuale situazione di crisi della prospettiva di una unificazione totale dell’Europa seguita all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, accenna alle concezioni del presidente francese De Gaulle (1890 – 1970) che a fine anni 50 prevedeva un mondo futuro dominato da tre grandi blocchi politici e culturali, la Cina, gli Stati Uniti alleati alla Gran Bretagna e l’Europa continentale, alla quale associava la Russia: a parte la posizione della Russia, fu una concezione preveggente e, diciamo noi senza pretesa di mettere in bocca allo statista transalpino concezioni non sue, una situazione in sintonia con il recente passato. In fin dei conti la ripartizione attuale dei Paesi in aree politico – culturali riecheggia quella del 1940 cui si già accennato: un blocco europeo continentale dominato dalla Germania e dalla sua cultura e un legame economico e culturale forte tra Gran Bretagna e Stati Uniti. Un paragone improprio o eccessivo? Forse, ma un paragone inquietante, anche per il fatto che, se indubbiamente la situazione del 1940 è infinitamente diversa da quella del 2017, ora come allora nel blocco europeo continentale prevale la concezione “dogmatica” e irreversibile delle scelte politiche mentre nei Paesi anglosassoni ora come allora prevale quella empirica e modificabile. L’esempio tipico di ciò è rappresentato proprio dalla decisione di uscire dall’Unione europea della Gran Bretagna: l’esito risicato del voto del giugno 2016 ha portato in un primo momento a reazioni decisamente estreme da parte dei filoeuropeisti con richieste addirittura di ripetere il referendum, ma ad un anno di distanza la “Brexit” non è sostanzialmente più in discussione nella politica britannica, dato che addirittura il partito laburista, spostato decisamente su posizioni “politicamente corrette” sotto la guida di Jeremy Corbyn, la ha inserita nel proprio programma elettorale. Parimenti negli Stati Uniti molte delle scelte di Barak Obama, ad esempio l’adesione all’accordo di Parigi del 2015 sulla prevenzione del riscaldamento globale (uno dei più importanti e meno convincenti dogmi del politicamente corretto) sono state rovesciate da Donald Trump. Questa mentalità empirica non si vede nell’Europa continentale: certamente molti studiosi e opinionisti e alcuni politici propongono soluzioni e auspicano scelte contrarie alla mentalità tecnocratico – buonista (siamo pur sempre in società basata sulla libertà di manifestazione del pensiero), ma intorno a queste concezioni non sembra raccogliersi un consenso capace di tradurle in pratica. Infatti anche se gran parte delle popolazioni (e in alcuni casi la maggioranza delle stesse) è contraria a molti “dogmi” della tecnocrazia globale e del buonismo politicamente corretto, non è ragionevolmente pensabile ad esempio che oggi un Paese esca dall’unione monetaria rinunciando all’euro ed adottando una moneta nazionale: si consideri l’esempio della Grecia dove il partito di Alex s Tsipras pur avendo vinto le elezioni in base ad un programma che comprendeva la possibilità di tale decisione una volta al potere vi ha subito rinunciato. Parimenti è impensabile che un Paese europeo continentale rinunci alla politica dell’integrazione degli immigrati da Paesi non occidentali anche quando questa minaccia di distruggere culturalmente il vecchio continente. Naturalmente l’immigrazione è gestita come detto con modalità ed effetti diversi: con un inserimento programmato a livello sociale in Germania, con una serie di regole legate alla cittadinanza in Francia, e in modo caotico e clientelare in Italia con gravi problemi di ordine pubblico in Italia, ma essa resta un tratto comune di tutti i Paesi europeo continentali. Si tratta di uno spirito dogmatico, che presenta come frutto immodificabile del progresso determinate scelte politiche, e che non promette nulla di buono, in quanto sembra destinato ad esaltare gli aspetti totalitari presenti nella mentalità tecnocratico – buonista da un lato e nelle reazioni populiste dall’altro, un spirito dogmatico che pretende di stabilire tramite l’autorità pubblica (statale o sovrastatale) i propri valori anziché lasciare alle verifiche empiriche e alle scelte dell’elettorato la valutazione finale su di essi, come ad esempio Ricolfi sottolinea a proposito della costruzione dell’Unione europea nella acuta e coraggiosa critica che fa in appendice al suo libro di uno dei miti dell’europeismo italiano, il manifesto di Ventotene del 1941 elaborato da Altiero Spinelli (1907 – 1986), Ernesto Rossi (1897 – 1967) ed Eugenio Colorni (1909 – 1944).
Se seguiamo questa distinzione tra Paesi anglosassoni dominati anche in politica dallo spirito empirico e dal principio della reversibilità delle decisioni che si rivelano errate, e Paesi europeo continentali dominati invece da una concezione dogmatica e irreversibile delle scelte globaliste e politicamente corrette, tanto più irreversibile quanto più esse sono importanti, possiamo tentare non tanto di prevedere il futuro, dato che le scienze umane come detto in precedenza non sono scienze deterministiche, ma cercare di delineare le linee di tendenza in atto in particolare riguardo alla nuova polarità politica tra favorevoli e contrari alle concezioni tecnocratico – globaliste e buoniste (le forze rispettivamente “dell’apertura” e “della chiusura” di Ricolfi), anche riguardo alla sorte della vecchia antitesi novecentesca tra destra e sinistra. Nei Paesi anglosassoni, nei quali, come si è detto nella prima parte di questo scritto, la contrapposizione tra destra e sinistra era già molto sfumata e anomala nel Novecento sembra che la contrapposizione politica tradizionalmente bipolare si mantenga proprio a causa della citata mentalità empirica e aperta alle modifiche delle scelte politiche, ma si strutturi quasi interamente intorno alla nuova contrapposizione tra globalisti politicamente corretti e oppositori degli stessi (sovranisti, identitari, ecc. che dir si voglia), ma al tempo stesso si estremizzi. Certamente una figura estrema è il presidente americano Donald Trump e altrettanto estremo era Bernie Sanders capace di contendere ad Hilary Clinton fine all’ultimo la nomination del partito democratico, e tali caratteristiche si ritrovano anche in Gran Bretagna dove la premier Theresa May è costretta a governare con il partito unionista nordirlandese attestato su posizioni di estrema destra. Mentre anche il leader dell’opposizione laburista il già citato Jeremy Corbyn non è certo un moderato. L’alternativa però rimane e con essa l’essenza della democrazia. A parere di chi scrive la situazione è più inquietante nei Paesi europeo continentali dove è in atto, come giustamente osserva Ricolfi, una fusione tra destra e sinistra sulle posizioni che noi definiamo globaliste, tecnocratiche e buoniste che sembra non avere alternative, dato che spesso l’elettorato preferisce non votare che provare a scegliere soluzioni politiche diverse. A parte i casi in buona parte patologici di Stati senza governo, o meglio con un governo in carica “per gli affari ordinari” che non gode della fiducia del parlamento, come accaduto in Belgio e in Spagna, sono significative la situazioni delle tre più grandi democrazie continentali dove ogni alternativa al globalismo, all’europeismo tecnocratico e al politicamente corretto pare irrealistica e dove destra e sinistra sono ormai ridotto come dice Ricolfi a due “sfumature” di tali concezioni. La Germania è guidata ormai da tempo da governi di coalizione tra destra e sinistra presieduti da Angela Merkel, in Francia il nuovo presidente Emmanuel Macron ha avuto la capacità e l’intuito politico di fondere in un unico partito gran parte della destra e della sinistra tradizionali giungendo nel confronto con le forze “populiste” di Marine Le Pen ad un consenso quasi plebiscitario; in Italia il nuovo sistema elettorale proporzionale “puro” delineato da una serie di sentenze della corte costituzionale sembra garantire la necessità di un compromesso tra le diverse forze politiche, analogo a quello in parte già in atto, nonostante un sistema elettorale che attribuiva i premi di maggioranza, nella presente legislatura, prima con il governo presieduto da Matteo Renzi e poi con quello presieduto da Paolo Gentiloni, compromesso che quasi inevitabilmente finirà per assicurare il rispetto dei dogmi tecnocratici e buonisti, mentre rimane in dubbio se nel nostro Paese potranno realizzarsi almeno le condizioni per porre un freno alle principali storture delle decisioni economiche tecnocratiche la maggior parte delle quali prese a livello europeo e soprattutto alle degenerazioni della politica dell’immigrazione.
Quanto al distacco tra sinistra e popolo (nel senso di strati più bassi della popolazione) esso non solo è un dato di fatto che esprime una tendenza che pare non si modificherà a breve, ma costituisce parte di quel più ampio fenomeno della separazione tra popolo (nel senso di “gente comune”) ed élites non solo politiche ma anche sociali, economiche e persino religiose che rappresenta una caratteristica molto importante (e anch’essa preoccupante) della nostra epoca. A questo fatto abbiamo già accennato in precedenza: in queste note conclusive possiamo ricordare che un legame sano e corretto tra volontà del popolo ed élites (politiche, ma non solo) si crea solo quanto il primo è in un modo o nell’altro in grado di condizionare l’azione delle seconde e di influire sul ricambio delle persone all’interno delle stesse, le due condizioni che uno dei maggiori studiosi di questi temi, Gaetano Mosca (1858 – 1941) prescrive perché le élites di un sistema politico possano essere definite sia liberali che democratiche. Il rischio che questo legame salti si ha tutte le volte che una verità politica (ma anche economica e sociale) viene assolutizzata: in questo caso infatti le élites hanno la pretesa di conoscere in anticipo il bene comune e non hanno bisogno di conoscere la volontà del popolo per imporlo tramite l’intervento (o come si è visto in precedenza con il non intervento) del potere pubblico. L’unico antidoto anche qui è l’alternanza democratica tra i sostenitori di concezioni diverse; valga ancora una volta l’esempio degli Stati uniti, dove la maggior parte delle élites della cultura, dello spettacolo, delle amministrazioni pubbliche era, spesso con toni molto accesi, contraria all’elezione di Donald Trump a presidente, ma questo non ha impedito la vittoria del candidato repubblicano né ha impedito a molti esponenti delle élites di collaborare con lui portando avanti concezioni contrarie a quelle politicamente corrette e buoniste. Nei Paesi europeo continentali invece, in assenza di questa cultura “empirica” che considera sempre reversibili le scelte politiche, le élites sembrano sempre più staccate dalle popolazione in quanto chiuse nelle loro concezioni tecnocratiche e politicamente corrette ed anche questo fatto rappresenta una fattore che aumenta il pericolo che si instauri una politica di tipo totalitario, magari non violento come quelli del novecento, un totalitarismo soft e gentile nei modi, ma non per questo meno invasivo e distruttivo delle libertà personali. In questo senso in particolare nei Paesi europeo continentali c’è il rischio concreto che i diversi tipi di libertà, descritti da Ricolfi nel capitolo iniziale del libro con cui ci siamo confrontati, e che abbiamo visto corrispondere ai diritti politici, civili e sociali vengano limitate e trasformate secondo le modalità ed i contenuti decisi dalle élites.
La perdita graduale dei diritti individuali, risultato di tutta la tradizione occidentale che, attraverso un percorso tortuoso e non privo di pagine riprovevoli ha fuso, grazie alla dottrina cristiana il senso del diritto romano antico e il ruolo fondamentale dei singoli individui proprio della cultura “barbarica”, potrebbe portare ad un “tramonto dell’Occidente” secondo l’espressione che dà il titolo all’opera più famosa di Oswald Spengler (1880 – 1936)? Come si è già detto non si può prevedere l’evoluzione storica futura: certo è che la tendenza ad una crisi culturale, ben più grave di quella economica, in tutto l’Occidente è molto forte, una crisi culturale causata dal pensiero tecnocratico e politicamente corretto che si esprime innanzi tutto in quella che il filosofo inglese Roger Scruton ha chiamato “oikophobia”, cioè odio per tutto ciò che rappresenta la nostra civiltà, rifiuto e quasi disprezzo per ogni valore della citata tradizione giuridico – morale, una crisi culturale che rende incapaci di stabilire quali siano i valori e le regole “irrinunciabili” di fronte ad ogni forma di integrazione (economica, sociale e politica) con soggetti e valori propri di culture e civiltà diverse. Questa può essere la vera causa di una futura “società fredda”, che non cresce più moralmente prima che economicamente, perché pensa di essere arrivata alla “fine della storia”. Anche da questo punto di vista sembra però a chi scrive che si debba distinguere quelle che si stanno sempre più rivelando due diverse forme della crisi occidentale, quella dei Paesi anglosassoni e quella dei Paesi europeo continentali, anche qui in continuità con la tradizione storica non solo del Novecento ma anche del periodo precedente: negli Stati uniti e in Gran Bretagna sembra che la crisi culturale pur molto profonda (in fondo sono proprio gli Stati Uniti la patria di origine degli eccessi del politicamente corretto e dell’oikophobia) sembra come detto trovare i giusti antidoti e la stessa crisi economica non scalfisce certo il ruolo guida che l’economia americana ancora esercita nel mondo, grazie a quella che rappresenta la più grande molla allo sviluppo economico, lo spirito innovativo e l’iniziativa personale che solo una società basata sull’individualismo che pone i singoli e le loro libertà al cento della vita pubblica può garantire. Diverso è il discorso per gli Stati europei continentali, sempre più legati ad una struttura, l’Unione europea che oltre alle già dette caratteristiche in buona parte autoritarie e poco liberali, rappresenta dal punto di vista economico un grande “cartello” nel quale convivono membri forti (Germania, Paesi nordici) e membri deboli (Italia e Paesi mediterranei), con la Francia che gode di una sorta di “nicchia” di autonomia, un cartello, a parere di chi scrive, esso sì con uno sviluppo a somma zero nel quale i suddetti stati forti che approfittano della situazione economica (come detto grazie anche alla moneta unica) forse al fine di non rompere il cartello concedono “bonariamente” a quelli deboli agevolazioni riguardo ad esempio al rispetto dei parametri macroeconomici nazionali (debito pubblico, deficit ecc.) o anche finanziamenti particolari, magari in cambio dell’impegno a svolgere attività che i primi non intendono porre in essere, come qualcuno afferma che stia accadendo per l’accoglienza indiscriminata degli immigrati africani in Italia: un’ipotesi forse non pienamente dimostrata, ma certamente plausibile. Tra i Paesi europeo continentali coinvolti nel cartello economico e legati alla scelte politiche tecnocratico – buoniste, l’Italia, la terza economia del continente e uno degli stati fondatori delle Comunità europee negli anni 50, gioca un ruolo, è triste dirlo, sempre più subalterno e ricopre una posizione sempre più penalizzata. Nei loro studi gli autori di questo scritto hanno messo in luce i caratteri di questa decadenza italiana, che rischia di avvicinare sempre più il nostro stato ad una sudamericana “repubblica delle banane”: qui ricordiamo solo che i problemi generali di tutto l’Occidente (la crisi economica e il disordine sociale) nel nostro Paese stanno assumendo proporzioni incontrollate, tali da mettere in pericolo non solo lo sviluppo sociale delle generazioni future, ma la stessa tenuta presente dell’ordine pubblico, e tutto questo mentre i poteri pubblici italiani sono tuttora influenzati dai sostenitori delle concezioni buoniste e politicamente corrette (tra i quali un ruolo importante svolgono il citato papa Francesco I e i cattolici che condividono le sue opinioni), che continuano a pretendere una politica di accoglienza “totale”, quasi indifferenti rispetto alle conseguenze gravi che tali scelte comportano sia per gli italiani che per gli stessi immigrati clandestini, nonché rispetto agli interessi poco chiari che all’immigrazione non di rado si accompagnano.
A questo si aggiunge ovviamente che il pensiero “unico” tecnocratico e buonista, sembra sempre più sopravanzare le voci e le analisi di segno diverso: certamente come si è accennato in precedenza nel nostro Paese la libertà di manifestazione del pensiero rimane uno dei caposaldi della vita civile, ma chi critica il suddetto pensiero unico spesso viene emarginato e quasi stigmatizzato per la sua “inferiorità” morale o per la sua “incompetenza”. Infatti né il globalismo tecnocratico né il buonismo politicamente corretto ammettono critiche radicali, ma al più tollerano blandi rimproveri reciproci di non tutelare abbastanza i poveri (rimprovero fatto ai sostenitori del globalismo dai buonisti) o di non seguire le leggi stabilite dall’alto dello sviluppo economico destinato a portare benessere a tutti (rimprovero fatto ai secondi da parte dei primi), e ciò in una situazione dove quasi tutti i sostenitori del politicamente corretto in linea generale sono anche favorevoli alla globalizzazione tecnocratica e viceversa. Se è vero però che ogni ideologia come affermava Karl Marx porta ad una “falsa coscienza della realtà”, allora uno dei principali antidoti all’ideologia è un discorso che esponga la verità dei fatti, che porti avanti quelle valutazioni morali e politiche che il pensiero “unico” troppo spesso mette in ombra, un discorso che consenta a chi si confronta con esso di valutare nella maniera più onesta possibile i pro e i contro di una determinata realtà: questo tipo di discorso è quello che Ricolfi presenta ai lettori in Sinistra e popolo.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft