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La Strada di Casa
di Alessandro Della Casa
In La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah (Viella, Roma 2017), Elisa Guida, dottore di ricerca presso l’Università della Tuscia, si dedica al tema, finora non sufficientemente indagato, dei rimpatri degli ebrei italiani superstiti dei Lager, avvalendosi, oltre che di una vasta bibliografia, di fonti archivistiche pubbliche e private e delle numerose interviste agli ex deportati e ai loro familiari condotte dall’autrice stessa tra il 2008 e il 2016.
La ricostruzione della vicenda dei reduci italiani – i militari catturati quanto e gli arrestati per motivi politici o razziali – esplora dapprincipio il magro quadro delle iniziative che riuscirono a mettere in atto le autorità pubbliche succedutesi nella transizione alla democrazia. Alle poverissime condizioni economiche del paese devastato dalla guerra, alla precarietà istituzionale e alla penuria di equipaggiamenti si aggiunsero, infatti, la dipendenza nei confronti degli Stati Uniti e il fallimento diplomatico relativo alla cooperazione con le forze alleate nelle operazioni di rimpatrio, che costrinsero a limitare al di qua del Brennero gli interventi.
Sia l’imperizia e le incertezze governative sia le preclusioni all’ingresso ai Lager evacuati dalle SS imposte dagli Alleati alle autorità militari e alla Croce Rossa italiani finirono per produrre forte risentimento tra gli ex deportati, in prevalenza quelli politici – delusi per la condizione di abbandono in cui versavano, soprattutto se confrontata con l’assistenza approntata dalle altre istituzioni europee –, i quali si costituirono in comitati, incaricandosi di prestare i primi soccorsi, trasmettere alla Croce Rossa gli elenchi dei connazionali sopravvissuti e premere per un’accelerazione dei rimpatri.
Un ruolo rilevante fu svolto, invece, dal Vaticano attraverso la Pontificia Commissione Assistenza (PCA), all’estero – nei confronti degli ex prigionieri di ogni nazionalità – e in Italia, organizzata in una struttura capillare che giungeva fino alle parrocchie, in collaborazione con l’UNRRA (l’organizzazione dell’Onu nata nel 1943 per prestare soccorso alle popolazioni colpite dal conflitto), la Commissione alleata, la Croce Rossa, la YMCA, il Ministero dell’Assistenza Postbellica, nel quale erano confluiti gli Alti Commissariati istituiti tra l’aprile 1944 e il marzo 1945, e le organizzazioni del CLN. Anche questa macchina organizzativa, però, palesò numerose falle, determinate oltre che dalle cause materiali di cui sopra si diceva, da intoppi di carattere burocratico e scarso coordinamento, ma anche da irregolarità di bilancio e da contrasti tra i soggetti che vi parteciparono; in particolare la ricerca sottolinea le «finalità di proselitismo» sottese al modus operandi della PCA (p. 86).
A condizionare l’approccio italiano si aggiunsero le preoccupazioni per gli interessi di partito e per la tenuta del nascente sistema: mentre il Partito Comunista Italiano, a ridosso delle elezioni per l’assemblea costituente, paventava un rapido ritorno dei reduci dalla prigionia in Unione Sovietica, poiché avrebbero potuto «diffondere un sentimento anticomunista» (p. 58), piuttosto condiviso era il timore che si riproponesse il fenomeno combattentistico che aveva caratterizzato il primo dopoguerra. Cosicché, nel Natale 1945, Alcide De Gasperi si sentì di rivolgersi ai prigionieri auspicando che le sofferenze patite avessero «“affinato” e “purificato il patriottismo dei soldati» e presentando la guerra come «un dramma provocato e deciso da una dittatura “senza concorso di popolo”» (p. 60). Iniziava così, nota Elisa Guida, «l’operazione culturale che riduceva il fascismo a una parentesi della storia italiana» in virtù di una «lettura autoassolutoria del passato appena trascorso» (p. 94), che includeva la rimozione delle responsabilità nella persecuzione razziale, come dimostrò il trattamento riservato agli ebrei sopravvissuti allo sterminio.
L’Italia, a differenza degli Stati Uniti, non riconobbe ufficialmente la «singolarità dell’esperienza ebraica» nel contesto della «piramide delle deportazioni» e non attuò misure specifiche per gli «Ebrei in quanto Ebrei» (p. 93), alle quali si dedicarono, viceversa, organismi ebraici: l’American Jewish Joint Distribution Committee, la Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei e il comitato allestito dall’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. Seppure nei fatti poterono usufruire del sistema di aiuti organizzato al Brennero, gli ebrei italiani non comparivano nell’articolo del decreto istitutivo dell’Alto Commissariato per i reduci nel quale erano indicati i requisiti necessari all’ottenimento dello status di reduce, appunto, con il relativo diritto all’assistenza. Peraltro anche la stampa dell’Italia liberata, poco attenta alle notizie riguardanti lo sterminio ebraico, dedicò maggiore spazio e rilievo agli ex deportati politici piuttosto che mettere in luce le vicende dei deportati per motivi razziali.
La fine della prigionia fu accolta con «distacco» (p. 134) tanto dai sopravvissuti che erano ancora vivi nei Lager abbandonati dai tedeschi quanto da coloro per i quali la liberazione da parte degli Alleati giunse durante le “marce della morte”, le evacuazioni dai campi imposti da un nazismo ormai in sfaldamento per cancellare le prove del massacro. Più ancora della gioia per la nuova condizione o dell’incertezza su quella che sarebbe stata la propria sorte, prevaleva infatti l’ossessione di soddisfare l’istinto più elementare: quello di procurarsi il cibo; al punto che l’improvvisa disponibilità delle provviste abbandonate dai nazisti e degli alimenti forniti dai liberatori in alcuni casi risultò fatale a quegli esseri umani a lungo denutriti. «Io non avevo idea di dove andare, non sapevo neanche dove mi trovavo… […] lo stato mentale, lo stato fisico, lo stato psichico… una persona così non pensa. Un Muselman pensa a una cosa sola: dove trovare del cibo da mangiare» (p. 131), ricorda Hanna Kugler, ebrea fiumana deportata ad Auschwitz-Birkenau, nell’intervista rilasciata all’autrice.
Se la presa di coscienza dell’avvenuta liberazione non fu immediata si dovette anche al fatto che l’incontro con le truppe alleate venne non di rado segnato da incomprensioni quando non da maltrattamenti, in modo particolare da parte dei soldati dell’Armata Rossa, che riversarono sui sopravvissuti l’odio accumulato verso il regime fascista nel corso della guerra e si abbandonarono in alcuni casi ad aggressioni sessuali nei riguardi delle donne ebree. Inoltre i «vincitori trasferirono ad Auschwitz la logica della “nazione in armi”», pretendendo dagli ex prigionieri servizi di manodopera nei Lager o per le truppe sovietiche, «quasi a dover ripagare un debito contratto con la liberazione» (p. 145).
Dei voli per il rimpatrio allestiti dagli angloamericani poterono usufruire alcuni tra gli italiani sopravvissuti, ma la gran parte di loro rimase invischiata nell’intricata rete di disorganizzazione ed equivoci del sistema di trasferimento dei sovietici. Tanto che diversi furono gli ex prigionieri che si adoperarono autonomamente per il proprio rientro nei confini della penisola, anche con stratagemmi ingegnosi, come fu nel caso di Lello Perugia, che ispirò a Primo Levi le peripezie – in parte «liberamente ricreate» (p. 146), avrebbe ammesso lo scrittore torinese con lo stesso Perugia – di Piero Sonnino in Se questo è un uomo e di Cesare in La tregua e in Il ritorno di Cesare, o in quello di Piero Terracina, che, ricoverato per tubercolosi in un sanatorio a So i, poté almeno contare sul conforto epistolare dell’ambasciatore italiano a Mosca.
Nella seconda parte del libro, riportando fedelmente le testimonianze dei sopravvissuti e conservandone le digressioni, le inflessioni dialettali e l’andamento talora incerto, Elisa Guida restituisce quanto più è possibile l’impronta ineliminabile lasciata da quella esperienza. Si mostra, perciò, che gli accidentati viaggi verso casa, caratterizzati dalla riscoperta della solidarietà reciproca e dell’interesse verso gli altri, rappresentarono un «fatto esistenziale»: «né la fine dell’offesa, né un ritorno alla normalità; ma, piuttosto, una parentesi tra due guerre: quella che stava terminando e quella che i sopravvissuti avrebbero dovuto continuare a vivere». Il «viaggio interiore», altrettanto aspro – se non di più, perché ben più lungo, meno facilmente comunicabile e spesso affrontato con una senso di disillusione – rispetto a quello esteriore, vide incamminarsi gli ex deportati dallo stato di «bestie» (p. 175) in cui li aveva ridotti la prigionia alla riappropriazione della piena umanità, dalla condizione di «liberati» (p. 183), come affermava Nedo Fiano, a quella di uomini liberi. La riconquista passò innanzitutto, nelle parole di Terracina, dal «ricominciare a considerare normali le cose normali» (p. 185): sentirsi al sicuro, dare per assodate la presenza quotidiana del cibo e la possibilità di dormire su un materasso, apprendere nuovamente il decoro nel vestire, far riaffiorare la propria femminilità o mascolinità e la capacità di costruire legami di affetto. L’ex deportato ebreo rodiota Giuseppe Varon scandisce in tre fasi la riedificazione dell’identità: al recupero delle forze fisiche e delle «abitudini elementari» era seguito quello delle «abitudini particolari, cioè quelle caratteristiche che tutti gli uomini hanno diverse» (p. 188).
Per i sopravvissuti si trattava, dunque, di ricominciare a pensare alla possibilità di un futuro, mentre si tentava di riannodare i fili di un passato precedente alla deportazione che talvolta si rivelò completamente distrutto, nel contesto di una società che non aveva interesse – o aveva timore – di «guardarsi indietro» (p. 11) e di comprendere il dramma che essi avevano vissuto e che, in molti, continuarono a vivere perché, come afferma Terracina: «Da Auschwitz non si torna» (p. 182).
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