Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno VII - n. 6 > Rendiconti > Pag. 710
 
 
Eretici e dissidenti
di Davide Cadeddu
Dal ricordo di Giuseppe Tramarollo sembra scaturire, ancora una volta, una raccolta di saggi storiografici che, attraverso un vibrante e implicito impegno civile, induce a ricordare «il coraggio delle verità scomode». Nell’ormai lontano 1985, all’interno della collana «Studi e ricerche storiche» fondata da Marino Berengo e Franco Della Peruta per l’editore Franco Angeli, fu pubblicata da Arturo Colombo una prima raccolta di suoi scritti intitolata Padri della patria. Circa un ventennio dopo, nella stessa collana, egli continua ad alimentare la riflessione comune intorno a quelle voci e quei volti della democrazia che sognarono «un’altra Italia». E allora come oggi è la concordia discors che permette di considerare insieme tante e differenti personalità, vissute nel XIX e XX secolo e ritratte individualmente. Una concordia discors di voci contraddistinte segnatamente dal loro collocarsi “fuori dal coro”, per testimoniare, con vis polemica, una “fedeltà dei chierici”.
Complesso e policromo è il mosaico realizzato da Colombo in particolare a partire dagli articoli del ’75, che, passando per le raccolte di saggi Voci e volti della democrazia (1990) e Ritratti di carta (1991), già con La galassia repubblicana (1998) e Poteri e libertà (2001) si era arricchito dei contributi di Giovanna Angelini e Virginio Paolo Gastaldi. A questi due autori si sono aggiunti, in Eretici e dissidenti. Protagonisti del XIX e XX secolo fra politica e cultura (a cura di G. Angelini e A. Colombo, 2006), altre studiose e altri studiosi con i quali da anni sono stati sviluppati comuni interessi di ricerca storica: da Alberto Castelli a Rocco D’Alfonso, da Franco Fantoni a Elena Savino, a Valeria Sgambati. I curatori del volume, «consapevoli – e non solo da oggi – che troppo spesso, anche negli studi in tema di storia del pensiero politico, si insiste, più o meno consapevolmente, a percorrere “la solita, vecchia e abusata strada dell’orto”» (p. 8), hanno cercato di rivalutare l’opera politica di dodici cosiddetti “minori”, che, per motivi di ordine biografico o cronologico, ebbero tra loro ben pochi rapporti personali.
Se l’intera vita di Giovanni Borelli, tra il 1867 e il 1932, «meriterebbe una ricostruzione ampia e approfondita, ricca com’è di scelte “forti” e coraggiose, ma anche di decisioni contraddittorie e a dir poco discutibili» (p. 107), Rocco D’Alfonso ne offre un rapido e prezioso profilo, che si arresta allo scoppio della guerra tra il Regno d’Italia e l’Impero ottomano. Prende le mosse da un non lusinghiero giudizio di Piero Gobetti, il quale era riuscito a coglierne «le due facce della sua complessa (e non sempre chiara) concezione ideologico-politica: quella liberale e quella liberista [...], e quella militarista e patriottarda» (p. 104). D’Alfonso ritiene si possa interpretare il suo itinerario politico «come una parabola che dal liberalismo degli esordi e della prima maturità finisce per declinare verso un’acritica adesione al fascismo» (p. 109). Tuttavia, la «singolare unione tra libertà e nazione, tra l’esigenza di tutelare i diritti individuali da ogni possibile ingerenza del potere statale e la volontà di veder crescere l’orgoglio nazionale e il prestigio militare italiano, contribuisce a rendere interessante il pensiero di Borelli nonostante l’ampollosità del suo stile giornalistico e oratorio, ricco di echi carducciani e di ostentati preziosismi formali» (p. 105).
Diverso lo stile di Antonio Ghislanzoni, uomo di teatro e poi giornalista milanese, che, secondo Colombo, ebbe una «continua, quasi spasmodica voglia di possedere un proprio giornale», a testimonianza della propria insofferenza «verso ogni gerarchia, verso ogni autorità, verso ogni forma di controllo e supervisione del suo lavoro» (p. 19). Si trattava di un giornalismo molto debitore alla letteratura e che, negli intenti di Ghislanzoni, non doveva essere «solo un veicolo di informazioni», bensì anche «uno strumento formativo» (p. 23).
Una concezione in parte simile fu quella di Leone Ginzburg, il quale non aveva ancora trentacinque anni, quando fu ucciso nelle carceri romane di Regina Coeli. Nato nel 1909 a Odessa, rivolse al fascismo un diniego che fu «drastico, immediato», nascendo «da precise ragioni culturali, etiche, di civiltà, molto prima che non per un semplice rifiuto politico, di schieramento» (p. 238). E questo anche perché – puntualizza Colombo – egli «non è stato un “politico” [...] e neppure è stato un uomo di parte» (p. 237). Dalla collaborazione con Gobetti, alla celebre polemica con Emilio Lussu intorno al federalismo di Giustizia e Libertà, fino alla militanza nelle file del Partito d’azione, «anche nei momenti cruciali della lotta clandestina, [...] quando l’urgenza dell’azione sembrava poter sospendere ogni esprit de finesse, non c’erano veleni ideologici in grado di fargli dimenticare come fosse ingiustificato e moralmente diseducativo precludersi il costante dovere intellettuale di saper riflettere e discernere sempre il grano dal loglio» (p. 244). Della coerenza e intransigenza, che manifestò innanzitutto verso se stesso, rimane testimonianza, tra l’altro, nell’ultima sua lettera alla moglie Natalia Levi, scritta la sera del 4 febbraio 1944 (alla vigilia della morte dell’autore), e riproposta da Colombo in appendice al suo articolo (pp. 245-246).
Come Ginzburg nato in una città dell’Impero Russo, a Pietroburgo nel 1887, il socialista Andrea Caffi collaborò con «La Voce» e «La Voce dei popoli», fu inviato del «Corriere della Sera» a Costantinopoli ed esule in Francia, dove si avvicinò a Giustizia e Libertà, sia perché ne condivideva «le idee socialiste e libertarie», sia perché era legato a Rosselli «da una stima e da un’amicizia» che risalivano «all’esperienza del “Quarto Stato”». Egli, tuttavia, come precisa Alberto Castelli, «non è sempre d’accordo con i giellisti », giacché «preferirebbe una strategia di lotta più lenta, priva di gesti straordinari e vistosi, ma capace di produrre cambiamenti effettivi e duraturi» (p. 215). Nel 1935, il dissenso s’inacerbì e Caffi si distaccò dal movimento. Finì per accostarsi nel 1941 al gruppo dirigente del Partito socialista italiano, guidato, tra gli altri, da Giuseppe Faravelli, con il quale, nel dopoguerra, intrattenne «un intenso rapporto epistolare» (p. 222). A giudizio di Castelli, uno dei frutti più maturi della riflessione di Caffi è un articolo diverse volte ristampato in italiano con il titolo Critica della violenza, ma in origine apparso nel gennaio del ’47 su «Politics», la rivista della sinistra radicale pubblicata a New York e diretta da Dwight Macdonald. Dalla stessa collaborazione scaturì altresì The French Condition, la cui prima traduzione in italiano, per opera dello stesso Castelli, viene offerta a conclusione del saggio (pp. 225-234).
Esule anch’egli in Francia a partire dal ’25, Alceste De Ambris in Italia aveva animato diverse testate giornalistiche, «destinate a alimentare un intenso, vibrante dibattito ideologico-strategico all’interno del composito mondo del socialismo, dove riformisti e sindacalisti rivoluzionari si guardavano come cani e gatti» (p. 156). Il breve ritratto che Mario Missiroli gli dedicò nel settembre del ’66 su «Il Messaggero» (e che Colombo ripropone in appendice al suo articolo di commento [pp. 158-162]) non fu ispirato, tuttavia, dall’ammirazione per «la scelta di campo, che De Ambris aveva fatto fin da giovane e che era convinto di aver mantenuta intatta anche durante l’avventura di Fiume, e dopo ancora», bensì dal «tipo umano», dal «temperamento di De Ambris, quell’impasto di idealismo etico e di realismo pragmatico», che rimane – secondo Arturo Colombo – «come il Leitmotiv costante, al di là degli “spostamenti”, effettivi o illusori, che la sua traiettoria biografica può rivelare» (p. 158).
Grato più che alla Francia al mondo anglosassone fu invece Guido De Ruggiero. A partire dai mesi trascorsi a Londra come corrispondente del «Resto del Carlino» e dalla pubblicazione di L’Impero Britannico dopo la guerra (1921) – «un vero e proprio “manifesto” d’adesione al liberalismo» (p. 163) –, egli sviluppò la propria riflessione storico-politica all’interno di una peculiare «prospettiva inglese» (p. 183), che lo portò, come illustra Franco Fantoni, ad aprire la propria «concezione liberale all’incontro con il socialismo» (p. 170).
«Originale analista e interprete di quella “civiltà in crisi”, che tuttora incombe e non finisce di tormentarci» (p. 9), Filippo Burzio è ricordato per lo più come il teorico del “demiurgo”, che, tuttavia, «non ha trovato quella collocazione che pur si meritava nel panorama politico-culturale, non solo italiano» (p. 269). L’aspetto più originale del pensiero burziano, «tuttora quasi ignorato nell’ambito della nostra cultura politica», è legato, secondo Colombo, al fatto che «la figura del demiurgo non pretende alcuna esclusiva ma si propone di operare ex novo, soltanto alla ricerca di un migliore ordine per tutti, da perseguire non semplicemente attraverso il dominio economico e politico ma da realizzare in una superiore “sfera morale”» (p. 278). In effetti, il vero pericolo del suo tempo – come Burzio stesso osservava – andava individuato «nella tentazione del successo materiale, del guadagno facile, della vita standardizzata e puramente esteriore, che seduce un numero crescente di membri dell’élite a rinunciare alla poesia, al sogno, alle ardue invenzioni della vita interiore» (p. 274). Sicché, la «migliore definizione» di demiurgo fu da lui individuata in «uomo d’azione-poeta» (p. 282).
In parte “demiurgo”, pertanto, Giovanni Bertacchi, la cui opera di scrittore, intrisa di aneliti mazziniani, fu «coerente, unitaria, indivisibile [...], sempre dettata dal medesimo sincero impegno civile». Ciò ha indotto Gastaldi a intercalare «di proposito citazioni prese qua e là [...] senza distinguere tra i territori della poesia, della saggistica, o dell’oratoria» (p. 137). E tuttavia, forse, sarebbe stato comunque il caso di discernere, allo scopo di meglio riflettere sulla produzione di questo «poeta umanitario» (p. 130), la cui «adesione alla vulgata marxiana era stata un passo obbligatorio nel clima culturale positivista per offrire un appiglio “scientifico” all’esigenza interiore di legge morale e di impegno civile» (p. 138).
Più che “umanitario”, “umanista” fu il socialismo di Ugo Guido Mondolfo, il cui itinerario culturale e politico, «nonostante la lunga e attiva militanza nelle file socialiste e nella scuola italiana», come rileva Angelini, «rimane tuttora pressoché sconosciuto in sede storiografica» (p. 68). Tappa fondamentale della sua formazione fu il periodo universitario trascorso a Firenze negli anni Novanta dell’Ottocento (cfr. p. 82), a partire dal quale iniziò a realizzare gradualmente il distacco «dai canoni marxiani del materialismo storico» e a delineare «quell’interpretazione volontaristica e umanistica del socialismo che parecchi anni più tardi, e in un contesto profondamente cambiato, sul piano politico e più propriamente culturale», trovò «il teorico lucido e stringente in suo fratello minore, quel Rodolfo Mondolfo certamente più noto in sede storiografica» (p. 75). I testi di Achille Loria, che, secondo il giovane Ugo Guido Mondolfo, permettevano di colmare «una lacuna della teoria marxiana» (p. 69), gli servirono altresì per «confermare la validità di quella prassi riformista, di cui nella sua lunga militanza socialista sarebbe sempre stato un convinto assertore» (p. 71). Loria, in effetti, «certo meno profondo e conseguente sul piano filosofico» di Marx, era «capace di assolvere al duplice ruolo dell’intellettuale preparato e rigoroso e, nel contempo, del “maestro di vita”» (p. 81): rispetto a questi, tuttavia, come nel rapporto diretto con l’amico Gaetano Salvemini, seppe conservare sempre «indipendenza di giudizio» (p. 89).
Un’autonomia di giudizio, rispetto al contesto mazziniano e socialista ottocentesco, che traspare anche dalle colonne della rivista lodigiana «La Plebe», fondata e diretta per tutta la sua durata da Enrico Bignami, la quale occupa, secondo Giovanna Angelini, «un posto di primaria importanza nella storia del giornalismo politico della seconda metà dell’Ottocento, sia per la sua sorprendente vitalità [...], sia per il ruolo fondamentale svolto nel diffondere le idee socialiste in Italia» (p. 31). I suoi redattori, che sul «vecchio tronco del mazzinianesimo» innestarono il «ramo nuovo del socialismo» (p. 63), contestarono alcuni principi della «piattaforma ideologico-programmatica» di Mazzini, ma continuarono a «ospitare scritti dell’apostolo e a tributargli omaggi, che non erano mai “né formali, né tanto meno ipocriti”» (p. 55), e informarono la rivista di una «adesione ferma, costante, senza oscillazioni, né ripensamenti, né rotture o contraddizioni, alle idee e ai propositi che fin dal 1868 avevano suggerito quell’iniziativa giornalistica e che l’avevano sorretta, per più di un lustro, nonostante sequestri e persecuzioni» (p. 62).
Altra originale pubblicazione, «unica rivista legata al partito d’azione sopravvissuta al suo scioglimento», «Lo Stato Moderno» rappresenta «forse l’esperienza più autonoma e originale» tra i periodici legati alla cosiddetta “destra azionista” (p. 250). Della sensibilità politicoistituzionale di Mario Paggi, espressa attraverso le colonne della rivista da lui diretta dal ’44 fino al ’49, Valeria Sgambati dà conto in un saggio, a conclusione del quale asserisce che egli fu «uno dei più pugnaci difensori dell’autonomia ideale, culturale e politica della democrazia e uno dei più originali e insieme più coerenti esponenti della radicalizzazione in senso democratico del liberalismo italiano» (p. 262).
Autorevole collaboratore di «Lo Stato Moderno» fu Giuliano Pischel, sui primi anni della cui formazione Elena Savino sofferma il proprio interesse. Dall’esigua ma significativa collaborazione con «Coscientia» al magistero di Piero Martinetti, l’analisi giunge a includere i quattro lunghi articoli apparsi su «Il Quarto Stato», che, «insieme agli scritti dell’inverno 1925-1926, servono a delineare i contorni entro i quali, più tardi, si svolgerà la battaglia politica di Pischel, dalla militanza nel Partito d’azione all’ulteriore pellegrinaggio socialista durante i due decenni
successivi» (p. 203).
Complesso e policromo, come forse si può evincere, è il mosaico composto anche in questo volume collettaneo, dedicato a dodici anticonformisti. E proprio «I non conformisti» potrebbe essere il titolo di un’ideale raccolta completa dei saggi scritti (o suggeriti) da Arturo Colombo: soprattutto non conformisti, in effetti, e dunque “profeti disarmati”, sono stati e sono i soggetti del suo interesse scientifico, in un’epoca in cui la società di massa ha consegnato gradualmente le armi della politica a chi, grazie a un forse inconsapevole conformismo, ha potuto guadagnarsi il consenso dei più attraverso le oligarchiche e sclerotizzate macchine-partito.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft