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La Calabria e la parabola geografica di Lucio Gambi*
di Giuseppe Galasso
Il contratto con il quale Lucio Gambi si impegnò con la casa editrice, la UTET, alla redazione del volume sulla Calabria nella nuova collana editoriale Le Regioni d’Italia, diretta da Roberto Almagià, porta la data del 17 luglio 1957. La consegna del testo, «pronto e perfetto per la stampa», era fissata al 31 marzo 1959. Successivamente, da Forlì, il 18 agosto dello stesso 1957, Gambi scriveva al professor Carlo Verde, presidente della UTET, di aver già fatto presente all’Almagià che «a causa di altri, diversi impegni», non avrebbe potuto mantenere il proprio impegno prima del 30 giugno 1959. Il direttore della collana gli aveva assicurato che avrebbe fatto il possibile per fargli ottenere dall’editore questa breve dilazione del suo impegno, ma gli aveva poi fatto sapere di non esservi riuscito. «Spero fermamente – Gambi scriveva perciò a Verde – di rispettare la data del 31 marzo ’59». Inoltre, aggiungeva, «entro il marzo ’58 Le invierò una prima serie di indicazioni per la documentazione fotografica».
L’impegno assunto da Gambi prevedeva pure che egli si sarebbe attenuto «strettamente alle caratteristiche e alle esigenze della collezione» quali erano state stabilite «nell’opuscolo e delle Avvertenze e norme per i signori collaboratori», che gli era inviato in copia; e che per ogni evenienza riguardante la composizione del volume affidatogli avrebbe dovuto attenersi alle indicazioni, dell’Almagià, «onde assicurare l’euritmia e l’organicità della collezione nel suo insieme». L’ampiezza era fissata in 275 pagine del formato stabilito per la collana1.
In gran parte erano, come si vede, condizioni pressoché rituali per la pubblicazione di collane editoriali, che però forniscono indicazioni importanti in rapporto alla progettazione e all’esecuzione dell’opera. Quanto poi alla scelta di Gambi per il volume sulla Calabria, appare sufficiente ricordare che egli era stato professore di geografia a Messina dal 1953 al 1960, quando si trasferì all’Università di Milano, ma mantenendo per l’anno accademico 1960-1961 l’incarico dell’insegnamento nella Facoltà messinese. A Messina aveva lavorato sodo nello studio della locale realtà dello Stretto, che quella Università serviva. Prese a pubblicare e diresse i “Quaderni di geografia umana per la Sicilia e la Calabria”, che già furono una pratica dimostrazione di quel che egli intendeva per geografia umana, e che nelle loro cinque annate (1956-1960) ospitarono articoli di una certa importanza su questioni storico-geografiche dello spazio interregionale dello Stretto, attirando anche l’attenzione di qualche rivista geografica straniera2.
La collana alla quale fu in invitato a collaborare sostituiva l’analoga collana regionale La Patria. Geografia d‘Italia, diretta anch’essa dall’Almagià, e pubblicata in 19 volumi dal 1925 al 1932. Era più che comprensibile che, dopo i grandi sconvolgimenti apportati dalla guerra del 1940 si sentisse il bisogno di una nuova serie di volumi aggiornati al diverso stato e ai nuovi confini del territorio italiano. Era pure naturale che per la direzione si ripensasse all’Almagià, che aveva subito le conseguenze della legislazione razzista del 1938, per cui era stato estromesso dai ruoli universitari (ma era stato accolto nella Biblioteca Vaticana, dove aveva potuto continuare i suoi studi e pubblicarli sotto lo pseudonimo di Bernardo Varenio); e aveva, quindi, anche le carte in regola dal punto di vista delle nuove condizioni politiche del paese per riprendere l’incarico editoriale di tanti anni prima.
Più significativo era, invece, che la nuova collana non riprendesse più il titolo (La Patria) di quella che doveva sostituire. La quale, peraltro, aveva, a sua volta, puntualmente ripreso quel titolo da La Patria. Geografia dell’Italia, «opera compilata – diceva la presentazione editoriale – dal professore Gustavo Strafforello con la collaborazione di altri illustri scrittori» ed edita al 1889 in dispense e poi in una trentina di volumi fino al 19053. Nel suo Schizzo di storia della geografia in Italia, del 1970, Gambi avrebbe poi notato che «la identificazione di una patria con la “regione naturale” italiana è cosa alquanto frequente negli autori statistici» del secolo XIX (A. Zuccagni Orlandini, A. Balbi, C. Bianchi, C.F. Marmocchi, C. Correnti) per la tendenza «a fare coincidere le regioni naturali con le unità politiche», e di conseguenza «i veri confini dello Stato italiano dovevano delinearsi ovunque sul crinale alpino, e quindi «inglobare per intero, ad oriente, la Val d’Adige e l’altopiano istriano)»4.
Avrebbe potuto in realtà aggiungere che già l’edizione Strafforello della collana La Patria comprendeva la trattazione del Canton Ticino e delle Valli dei Grigioni, politicamente appartenenti da tempo alla Svizzera, oltre che di Trieste, Gorizia, l’Istria e delle «Valli del versante lombardo appartenenti all’impero Austro-ungarico», ossia le valli tridentine, e in più della Corsica e di Malta5. L’edizione Almagià conservava, tranne i Grigioni, queste inclusioni delle parti dell’Italia quale “regione naturale”entro l’arco alpino, ma vi aggiungeva l’Alto Adige in quanto parte della Venezia Tridentina, che, come l’Istria, era diventata italiana dopo la guerra del 1915-1918, e aveva un volume riservato a Fiume e la Dalmazia e un altro addirittura a Le colonie, Rodi e le isole dell’Egeo6.
Si andava, così, decisamente molto oltre l’idea della “regione naturale, per dare al termine “patria” un senso squisitamente politico e, di fatto, molto più ampio. Vi si comprendevano, infatti, tutti i territori sotto sovranità italiana sia al di qua che al di là dei limiti considerati italiani in base alla geografia naturale generale del contesto spaziale in cui l’Italia era inserita. E il caso della collana Almagià era particolarmente interessante in quanto si trattava di una iniziativa editoriale della seconda metà degli anni ’20, ossia di anni in cui la tendenza imperialistica del fascismo– diventato regime alla metà di quegli anni – non aveva ancora assunto i toni esasperati e non aveva ancora dilatato al massimo le sue ambizioni espansive e le rivendicazioni territoriali come sarebbe accaduto alla metà degli anni ’30.
La rinuncia al titolo La Patria aveva, insomma, implicazioni politico-culturali più complesse di quanto si potrebbe credere. Il nuovo titolo Le regioni d’Italia non era, in effetti, una rinuncia all’idea di una “geografia dell’Italia”, che era stata propria delle due collane precedenti. La collana Strafforello aveva seguito nella sua trattazione un’articolazione addirittura provinciale. La collana Almagià era esplicitamente qualificata come collana di monografie regionali. L’articolazione provinciale o regionale era, evidentemente, intesa come un pregio dell’opera per i molto maggiori dettagli che si potevano fornire nell’analizzare il territorio nazionale. La collana post-bellica alla quale Gambi fu invitato a collaborare era, anzi, posta esplicitamente in connessione con la celebrazione del primo centenario dell’unità italiana nel 1961.
La portata geografica nazionale anche della nuova iniziativa dell’Utet era, quindi, fuori discussione. E, del resto, le Avvertenze e norme date dall’Almagià ai collaboratori della collana da lui diretta erano su questo punto del tutto esplicite. Vi si dice, infatti, a tutte lettere che la nuova collana regionale «si riconnette in qualche modo ad un’opera generale sull’Italia, la fisionomia complessiva del nostro paese», di cui era autore lo stesso Almagià7.
Era stata, quindi, la nuova situazione politica interna e internazionale a far preferire un titolo col quale si evitava ogni riferimento alla “regione naturale” italiana e alle relative questioni di confine e di sovranità. La serie dei volumi corrispondeva esattamente al numero e ai nomi delle regioni istituite ex novo come organismo territoriale dalla Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 19488.
«La regione, che in Italia – si diceva nelle citate Avvertenze e norme – è consacrata da una lunga tradizione storico-culturale ed ha radici ben salde nell’uso e nella coscienza popolare, ha oggi acquistato una sua fisionomia particolare, anche nel campo politico-economico riconosciuta dalle leggi costituzionali della Repubblica». Ed era perciò che si era pensato a «una nuova collezione completa di monografie regionali», che sostituisse l’«antica collezione “La Patria”», ispirandosi«a concetti originali», e fosse «definita da caratteristiche particolari», nonché«predisposta da un piano organico»9. Non si doveva, peraltro, «dimenticare che la vita regionale si inquadra in quella generale dell’Italia», e ciò avrebbe dovuto essere messo in evidenza in «un sobrio, espressivo capitolo conclusivo», e ciò conferma, ovviamente, che era pur sempre un quadro generale dell’Italia quello che si voleva fornire.
Il problema di una definizione geografica delle regioni italiane era, così, evitato in partenza. Le regioni erano quelle della carta costituzionale del paese, coi nomi e le dimensioni che in essa erano stabiliti. Era previsto che «un opportuno accenno» sarebbe stato fatto circa «gli ordinamenti amministrativi e la divisione attuale in province, ma – si precisava – la descrizione delle singole unità o parti in cui la regione si può dividere non terrà conto necessariamente della suddivisone amministrativa, ma piuttosto di quei minori ma per sovente interessantissimi individui storico-geografici segnalati anche nell’uso popolare da un nome ben conosciuto, come ce ne sono in numero maggiore o minore in ogni regione italiana (Canavese, Lomellina, Valtellina, Cadore, Lunigiana, Casentino, Mugello, Chianti, Marsica, Terra di Lavoro, Valdemone, Logudoro, Barbagia, Gallura, ecc.)»10.
Si potrebbe quasi dire, perciò, che nell’impostazione della collana il criterio dell’articolazione del territorio regionale prevalesse su quello dell’articolazione regionale del paese. Diventa, quindi, più importante e significativa la domanda su quale tipo di geografia si intendeva che l’opera fornisse per le regioni così individuate e definite. Le minuziose istruzioni redatte per i collaboratori precisavano anche questo punto con indicazioni specifiche. Ci si doveva ispirare – vi si diceva –«al concetto di mettere in vista le caratteristiche essenziali della regione, quelle che nel campo fisico, umano, economico, storico, ne individuano la fisionomia particolare e ne danno lineamenti propri. Sobrio e vivace il quadro fisico con speciale riguardo anche a quegli aspetti e fenomeni che come “peculiarità o curiosità naturali” suscitano oggi sempre più l’interesse degli studiosi, dei visitatori, dei turisti. Riguardo all’uomo dovrà risultare quanto egli abbia operato ed operi nel trasformare il quadro naturale, con particolare riguardo alle opere più recenti. Paesaggio naturale e paesaggio umanizzato siano alla base della esposizione. Usi, costumanze, tradizioni popolari saranno oggetto di descrizione in quanto siano anche essi elementi caratteristici del quadro regionale»11.
Si tratta, indubbiamente, di una puntualizzazione piuttosto generica, sostanzialmente in linea con quelle che al tempo erano idee correnti in materia di geografia, e di carattere soprattutto descrittivo. Ciò che si diceva sulle trattazioni da riservare all’economia e ai “maggiori centri urbani”12 era in linea con questo orientamento disciplinare. E quanto si volesse che questo orientamento venisse pienamente seguito era indicato nelle istruzioni ai collaboratori, dove si diceva che il direttore Almagià avrebbe curato «rigorosamente l’uniformità dei singoli volumi secondo lo schema allegato»13.
A questo fine si era, anzi, anche pensato non solo a fornire un elenco dettagliato degli argomenti da trattare, ma perfino a stabilire la ripartizione per argomento delle 275 pagine dell’ampiezza prevista per ciascun volume.
A questo scopo fu fornito ai collaboratori un Sommario con indicazione del numero delle pagine per ogni capitolo così ripartito:
















Il nome della regione e la sua estensione nelle diverse epoche.
Confini e area10
Sguardo storico15
Il rilievo: montagne e pianure20
Idrografia. Fiumi, laghi, sorgenti, ghiacciai. Circolazione superficiale e
sotterranea
5
Clima. Vegetazione. Fauna caratteristica. Il mantello vegetale e le sue variazioni in età storica15
Divisioni in regioni naturali, storiche, tradizionali, amministrative. Loro origine e vicende8
Numero attuale e passato degli abitanti. Incremento della popolazione. Densità e sua distribuzione. Fenomeni migratori. Condizioni sociali e culturali25
Popolazione accentrata e sparsa. Tipi delle dimore e forme di insediamento. Situazione e caratteri dei centri15
Usi e costumi caratteristici. Feste, tradizionali. Folklore. Dialetti e letteratura dialettale15
Utilizzazione delle risorse del sottosuolo e delle fonti di energia. Industrie. Commercio. Vie di comunicazione. Turismo e attività sportive25
Descrizione delle varie parti nelle quali la regione si può dividere e loro aspetti con particolare riguardo alle trasformazioni operate dall’uomo30
Le maggiori città e le loro caratteristiche urbanistiche, artistiche, culturali. Centro di turismo e di sport 40
Conclusioni. La regione nel quadro generale dell’Italia5
Nota bibliografica e cartografica2

Era, come si vede, un sommario14 piuttosto tradizionale, nel quale si avverte subito la preoccupazione di offrire trattazioni, da un lato, di una geografia fortemente antropica, in cui la parte della geografia fisica non andasse molto oltre il minimo indispensabile, e, dall’altro lato, di una geografia fortemente attualizzante e pratica fino al punto da preoccuparsi (come si dice al già citato punto 5 delle istruzioni ai collaboratori) degli interessi non solo degli studiosi, ma anche di visitatori e turisti. E, tuttavia, come era da attendersi, l’esecuzione di una iniziativa editoriale così impegnativa e così accuratamente preparata, non poteva rispondere in tutte le sue parti, né in ogni parte nella stessa misura, ai criteri fissati nelle istruzioni editoriali. Troppo diverse erano le idee relative alla propria disciplina di tanti collaboratori, e troppo diverse le rispettive personalità, perché ciò non accadesse, come, del resto, fatalmente suole accadere in ogni opera collettiva.
Per Gambi ciò era, poi, escluso dalle idee di geografia e di regione che egli veniva intanto maturando, e che alla fine degli anni ’50 non erano ancora nella loro piena maturità, ma già ne facevano, nell’ambito della geografia italiana, una personalità decisamente sui generis, con una sua cifra metodologica e critica per la quale gli riusciva ormai consueto e indispensabile ritrovare intese intellettuali, di principio e di metodo, con studiosi di altre discipline – essenzialmente storici e cultori di scienze sociali – e con interlocutori stranieri, soprattutto francesi (ed è qui certamente il caso di ricordare che proprio nella seconda metà degli anni ’50 Gambi prese contatto ed ebbe poi sempre intensi rapporti, personali e culturali, con il gruppo della rivista “Nord e Sud”, dal fondatore e direttore Francesco Compagna a Giuseppe Galasso, a Rosario Romeo, professore pur lui a Messina dal 1956).
Tutto ciò si può chiaramente vedere nel suo volume Questioni di geografia15, che resta di certo il documento maggiore e migliore dello stadio della riflessione e delle idee di Gambi tra gli anni ’50 e ’60, e che raccoglie scritti appunto di quegli anni (1956-1963). La problematicità di questa sua fase di culminante maturazione scientifica e disciplinare non sempre è chiara agli studiosi del suo pensiero e della sua attività, e quel volume del 1964 riceve di solito un’attenzione alquanto minore e finisce con l’essere nettamente posposto all’altro volume Una geografia per la storia16, pubblicato nove anni dopo. Non è, questa, una nostra illazione. Ad avvertirlo è lo stesso Gambi. Nella prefazione al volume del 1973 egli ricorda quello del 1964, e scrive che gli scritti in esso raccolti, «visti con l’esperienza degli anni dopo il ’64, sono da considerarsi come la prima giornata di un viaggio continuato più oltre»17. A stare alle sue parole, nel ’64 egli aveva negato la concezione tradizionale della geografia come «una unica scienza in condizioni di indagare con un’unica metodologia i fenomeni e biocenosi ed azioni di molto diversa natura – fisici, ecologici, economici – che si svolgono sopra la Terra»18. Nel 1973, sulla scorta anche delle esperienze del ’67 e del ’68, la sua riflessione era «stata investita dal basilare problema dei rapporti fra scienza e società», così come era accaduto per «ogni area della scienza, e quindi anche la pluriforme geografia». I suoi scritti «fra il ’61 e il ’71» muovevano«da una interpretazione della geografia come storia della conquista conoscitiva e della elaborazione regionale della Terra, in funzione di come è venuta ad organizzarsi la società». Una tale geografia postulava per essa la possibilità di entrare nelle questioni della vita pubblica e sociale con una sua parola chiarificatrice circa la reale natura porta e prospettive di problemi strutturali nell’uso del territorio, oltre che nella organizzazione degli studi scolastici. Una geografia, insomma, partecipe dell’assioma che «fare cultura è impegnarsi per la società», come, per Gambi, in Italia non era mai accaduto19.
Erano valutazioni importanti che segnavano un percorso della geografia italiana, del quale Gambi era ormai da tutti considerato il capofila. Erano anche valutazioni in qualche modo ingenerose verso il passato della geografia italiana. Confermano, però, che gli anni in cui scrisse la Calabria furono per Gambi anni di riflessioni e di evoluzioni decisive per la sua figura non solo di geografo, bensì anche di intellettuale, come allora si diceva, “impegnato”, con una sensibilità ai problemi storici e alle concrete realtà funzionali dei suoi temi geografici che lo fecero sospettare di riferimenti neo-idealistici, contro cui protestò rivendicando la ben diversa natura della sua formazione20.
Il suo volume finì col non rispondere, se non in linea di larga massima, a quanto era stato chiesto nelle Avvertenze e norme impartite agli autori e da essi accettate, come abbiamo già detto che accadde per tutti i volumi della collana. Saltarono, invece, largamente i tempi previsti per la pubblicazione, che doveva coincidere, come si è detto, con le celebrazioni nazionali del 1961, e per cui il termine di consegna dei testi era stato fissato, come sappiamo, al marzo 1959, due anni prima del ricorrere della prevista celebrazione. Alla data del 1961 solo otto dei diciotto volumi della collana erano stati pubblicati. Gli altri dieci seguirono lentamente. L’ultimo fu edito nel 197021. Al ritardo poté contribuire in qualche modo anche la morte dell’Almagià il 13 maggio 1962, che la casa editrice sostituì con Elio Migliorini. La sostituzione del direttore della collana fu, comunque, rapidissima e non sollevò problemi.
Gambi se ne congratulò col presidente della Utet, scrivendogli il 6 luglio 1962. «Molti anni di amicizia e di lavori in comune mi legano al prof. Migliorini; sono convinto che sotto la sua guida la collana manterrà l’alto livello che le aveva impresso Roberto Almagià». Gambi aggiungeva, inoltre: «ho già scritto al collega Migliorini, col quale del resto sono in settimanale corrispondenza, e gli ho dato dettagliata notizia del volume Calabria, il cui manoscritto è tutto pronto (sto rivedendo la battitura)»22.
È da credere che Gambi procedesse poi ancora a un’intensa revisione del suo testo. La bibliografia ne appare aggiornata in parte fino al 1964. Il volume fu subito notato come particolare fra gli altri della collana cui apparteneva. Alcune idee di Gambi vi erano già maturamente definite e applicate: la natura essenzialmente storica dell’entità regionale alla quale la geografia non offre che uno spazio plasmabile e plasmato, appunto dalla storia; la profonda interrelazione, da contemplare e ricostruire nei suoi successivi sviluppi, fra vicenda storica della regione e la sua geografia antropica (economia, società, cultura), così come tra le sue conformazioni geografiche naturali e le vicende geologiche dello spazio calabrese e del suo contesto; l’idea di”unità strutturali”, ossia di articolazioni della realtà regionale, caratterizzate da una identità di fattori e motivi di fondo della vita sociale, da individuare come elementi portanti dell’analisi territoriale nei suoi diversi aspetti e fini, sfuggendo al meccanico gioco di elementi puramente e soltanto naturali (fitologia, morfologia, paesaggio); l’assenza nella regione, con la parziale eccezione dei capoluoghi provinciali, di vere e proprie città; l’unità antropo-geografica della regione come fondata su fattori storici di lunga durata, poco alterati nell’età più vicina23.
Anche il successo commerciale dell’opera – legato a quello della collana e alla grande capacità di azione della casa editrice sul mercato, soprattutto, delle vendite a rate fu notevole. Il 28 aprile 1970, ad appena cinque anni, quindi, dalla prima apparizione dell’opera, l’editore ne proponeva all’autore una seconda edizione nella stessa tiratura della «precedente di copie diecimila utili per la vendita», previa una attenta, ma, in effetti, soltanto revisione del testo per rimediare a eventuali refusi o errori, per aggiornare qualche dato statistico o bibliografico, per aggiungere «una nota di aggiornamento» ai capitoli demografici ed economici, ma «senza toccare il testo» e, infine, per «sostituire eventualmente qualche fotografia che non fosse più attuale con qualcuna più attuale»24: una revisione, insomma, di modestissimo impegno.
A fronte di questo successo commerciale non si può dire che fra gli studiosi la diffusione degli elementi numerosissimi di informazione e sistemazione, di orientamento e di giudizio sulla realtà geografica e antropica della Calabria offerti da Gambi nel suo volume non fu quale si sarebbe potuto aspettare. Può dirsi che l’elemento di gran lunga più echeggiato sia stato quello della sua negazione dell’esistenza in Calabria di vere città, da lui specificamente ribadito qualche anno dopo25.
In realtà, l’interesse geografico di Gambi si era ormai spostato verso una nuova tematica che doveva rappresentare il suo maggiore impegno. Egli stesso lo citò raramente nei suoi scritti posteriori. Il suo interesse maggiore di ricercatore e di studioso prese a vertere sempre più sull’idea dei “quadri ambientali”. Nelle versioni che egli ne diede già tra anni ’60 e anni ’70, questi erano uno sviluppo particolare della sollecitazione teorica che Gambi riteneva più propriamente sua. «cioè il richiamo frequentissimo alle strutture, la ricerca di una più esauriente definizione di struttura, l’individuazione di particolari strutture, la risoluzione dei problemi paesistici mediante le strutture, ecc.»26. In parte si trattava qui di una unificazione ex post del cammino che Gambi aveva percorso nella sua formazione e nella sua attività di geografo. In altra parte era, però, sia pure in una occasione polemica27, una rappresentazione autentica di quello che era stato effettivamente un motivo ispiratore tra i suoi maggiori (ma, sia detto per inciso, era anche una delle rarissime volte che Gambi rimandava al “materialismo storico” come elemento di formazione circa la centralità del concetto di struttura).
Entriamo qui in una serie di questioni che riguardano tutta la storia della geografia nella seconda metà del secolo XX, nel suo passaggio dalla tradizione idiografica, descrittiva a posizioni interpretative o tassonomiche, col progressivo affermarsi dei concetti di struttura, ambiente, gravitazione, funzionalismo geografico in relazione a vari problemi di articolazione e di fisionomia del territorio, e ciò specialmente nella ricerca regionale e operativa. Gambi si era collocato consapevolmente in questi sviluppi della disciplina con una particolare sua accentuazione della fisionomia storica dei problemi e delle realtà trattate dalla geografia. I quadri ambientali quali egli li presentava dagli anni ’70 rispondevano all’evoluzione dall’idea dominante della struttura a quella che era detta “teoria sistemica” con la sua valorizzazione delle dimensioni temporali e del ruolo di governo del territorio, da considerare come materia di primario interesse geografico anche operativamente per sostituire alle curve spontanee dei fenomeni economici e sociali quelle più equilibrate possibili, appunto, con un determinato governo del territorio28.
In un tale orientamento Gambi poteva ritrovare tutto se stesso. La teoria geografica recuperava così i valori qualitativi di una sua nuova costruzione.
Nell’occasione polemica cui abbiamo accennato, Gambi aveva ricordato con forza, quale sua permanente «base di ricerca, in geografia umana, i criteri di valore storicamente mutevoli», premessa al suo insistente richiamo alle strutture (e, detto per inciso, questa fu anche una delle pochissime occasioni in cui egli richiamasse il lavoro sulla Calabria a testimonianza di quanto affermava)29.
Il suo cammino verso una accentuazione dell’elemento storico in fatto di criteri di valore, di strutture, funzioni, quadri ambientali ne fu ulteriormente sollecitato. Quanto, al riguardo aveva già largamente studiato e vigorosamente affermato a proposito delle strutture agrarie e cittadine della Calabria si tradusse nella perentoria enunciazione su I valori storici dei quadri ambientali nel primo volume della Storia d’Italia Einaudi: tutta l’evoluzione che porta alla fisionomia di tempo in tempo assunta dai quadri ambientali «è il risultato esclusivamente di una cosa: di storia umana»30. E allo stesso modo era ferma la sua fiducia nella funzione positiva ed evolutiva che le Regioni di recente istituite in attuazione della costituzione italiana avrebbero dovuto e potuto svolgere nel governo del territorio, sia pure in modo alquanto diverso al Nord e al Sud del paese31.
Gambi si era, quindi, rapidamente e di parecchio allontanato dallo stadio delle sue riflessioni sulla geografia, la sua natura e i suoi compiti e metodi degli anni del volume sulla Calabria. Con decisione che, dopo quanto si è detto, non può sorprendere, a pochi anni dalla pubblicazione di quel volume egli esprimeva un giudizio nettamente negativo sull’intera collana di cui esso faceva parte.
Di recente, riportava dalla lezione sulla storia della geografia in Italia tenuta a Besançon nel 1970, «si è avuta la edizione di una ponderosa raccolta di volumi destinati a lumeggiare – secondo un piano disegnato da Almagià – la geografia delle regioni d’Italia: era una buona occasione per un inserimento del lavoro dei geografi nei problemi nazionali e per verificare, con l’esame di aree circostanziate o di comunità umane che gli eventi storici erano venuti organizzando in diverso modo, se o in qual misura le idee enunziate dai geografi intorno al fenomeno”Regione” potevano mostrarsi utili per una razionale soluzione della articolazione regionale in Italia, stabilita nella nuova costituzione del ’48, e però fino al ’70 non portata a compiersi. Ma è stata una occasione perduta. La sequenza di 18 volumi è ora completata, e la si può giudicare come impresa di mediocrissimo piano scientifico – o almeno con aspra discontinuità di valori – da cui non si ricavano (se non di rado) lumi per la individuazione dei sistemi urbani regionali, secondo le loro armature, gravitazioni e polarità, e per il chiarimento delle regioni funzionali in termini economico-politici. La panoramica regionale vi è svolta in base a schemi precostituiti ed uguali (che prescindono da disparità ed opposizioni radicali fra i vari elementi della realtà nazionale) e usualmente – con la sola eccezione di qualche volume sul Mezzogiorno: ad esempio per la Sicilia e l’Abruzzo – si limita a insipidi racconti, superficiali informazioni, monotoni repertori che evadono a ogni problema che riguardi la struttura della società: cioè la base di qualunque discorso intorno alla regione»32.
Si può credere che, oltre ai volume di Aldo Pecora per la Sicilia e di Mario Fondi per l’Abruzzo, Gambi considerasse anche il suo sulla Calabria tra le eccezioni della collana, e che non ne facesse parola per una doverosa discrezione. Ma il giudizio rimane sorprendente. Quegli “schemi precostituiti ed uguali” erano stati comunicati in anticipo – come si è visto – ai collaboratori, così come tutto quanto riguardava la natura e i fini di essa. Sorprendentemente, era nella stessa occasione qualificata da Gambi tra le opere «probamente divulgative […] l’Italia di Roberto Almagià, edita nel’59», che, come sappiamo, era il volume di riferimento generale indicato dall’editore ai collaboratori de Le regioni d’Italia.
Sarebbe davvero fuor di luogo credere a un rinnegamento del suo lavoro da parte di Gambi. Non c’entrava né il rinnegare, né il confermare o rivendicare. C’entrava soltanto l’evolversi ininterrotto della sua assidua, travagliata e tormentata ricerca di una geografia nuova, che rispondesse appieno a quei “criteri di valore” che lo avevano sollecitato fin dagli inizi della sua attività di studio, e nel ricercare i quali si era incontrato con la storia e aveva, perciò, stabilito con la storia un legame culturale che trascendeva del tutto le questioni delle pertinenze e dei confini disciplinari. Per questa via era giunto a definire “valori storici” quelli dei quadri ambientali, territoriali, strutturali e funzionali di cui una geografia che, superato il livello descrittivo, non si fermasse «avanti la soglia dei problemi basilari»33, doveva fare materia sua propria, se non voleva restare lontana parimente dalla scienza e dalla vita.
Un cammino lungo, come si è visto, quello della riflessione geografica di Gambi, unificato da interessi culturali e civili di alto profilo; un cammino sul quale il volume sulla Calabria si colloca pressappoco alla metà, segnando quasi il confine tra il Gambi giovane e della prima maturità e il Gambi della definitiva maturità.












NOTE
* Relazione tenuta all'Accademia dei Lincei, nella giornata di studi per Lucio Gambi, il 19 aprile 2017.^
1 Il testo del contratto è nell’Archivio della Utet.^
2 La prima annata fu segnalata da “L’information géographique”, 72 (1958), n° 4, p. 179.^
3 Dal Catalogo storico delle edizioni Pomba e Utet. 1791-1990, e cura di E. Bottasso, pref. di G. Spadolini Torino, Utet, 1991, p. 401.^
4 Cfr. L. Gambi, Una geografia per la storia, Torino, Einaudi, 1973, p. 24 e n.27. Gambi metteva la tendenza così rilevata in rapporto con la provenienza dalle estreme regioni orientali italiane fino al Friuli e all’Istria degli studiosi di cui aveva fatto il nome, in qualcuno dei quali, ossia nel Marcocchi, notava accenti che gli sembravano preludere alla successiva esasperazione razzistica della tesi nazionalistica da parte fascista.^
5 Catalogo storico delle edizioni etc., cit., pp. 401-403.^
6 Ivi, pp. 438-439.^
7 Dall’opuscolo Le Regioni d’Italia. Nuova collezione di monografie geografiche diretta da Roberto Almagià. Avvertenze e norme per i Sig. Collaboratori. Unione Tipografico-Editrice Torinese, s. a., in Archivio Utet. L’opuscolo è articolato in 12 punti numerati: qui punto 6. L’opera dell’Almagià cui qui si allude è L’Italia, voll. 2, Torino, Utet, 1959.^
8 Si veda il piano generale della collana in Catalogo storico delle edizioni etc., cit., p. 501.^
9 Dall’opuscolo Le Regioni d’Italia etc., cit., punto 1.^
10 Ivi, punto 8.^
11 Ivi, punto 5.^
12 Ivi, punti 6 e 7.^
13 Ivi, punto 2.^
14 Per il testo vedi ivi, dopo l’enumerazione dei 12 punti di cui abbiamo detto (l’opuscolo editoriale dal quale citiamo è senza numerazione di pagine). Alla fine, per l’ampiezza dei singoli volumi della collana, esso conferma che il <^
15 Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1964, nella collana “L’Acropoli”, diretta da Giuseppe Galasso.^
16 Torino Einaudi, 1973, nella famosa Piccola Biblioteca Einaudi.^
17 Ivi, p. VII.^
18 Ibidem.^
19 Ivi, p.VIII..^
20 Gambi si dette sempre molta premura di negare qualsiasi ascendenza o influenza idealistica (vulgo: dal Croce), pur nel suo riconoscimento della funzione svolta dall’idealismo italiano nel superamento del “positivismo dogmatico”, nonché dell’<> che egli aveva ricevuto dallo “storicismo neoidealista” nella sua formazione culturale di geografo. Per tale formazione egli reputava decisive altre ascendenze: il “positivismo sociale” di Cattaneo, la cui <> era stata data dal Febvre. Si vedano, in particolare, le pagine a questo riguardo in Gambi, Una geografia per la storia, cit., pp.92-97. Questo punto meriterebbe, tuttavia, qualche glossa o postilla.^
21 Per le date di pubblicazione dei singoli volumi della collana cfr. il Catalogo storico delle edizioni etc., cit., p. 501.^
22 Dall’Archivio Utet.^
23 Un’analisi diffusa del volume fu fatta da G. Galasso in “Almanacco Calabrese”, 1966-1967, ora in Idem, Calabria, paese e gente difficile. Prospettive storiche, geografiche, sociali, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, pp. 29-51.^
24 Dall’Archivio Utet.^
25 Cfr. L. Gambi, Le città della Calabria, in Città e regione in Europa. Saggi di analisi dei sistemi territoriali, a cura di R. Mainardi, Milano, Franco Angeli, 1973, pp. 193-215.^
26 Gambi, Una geografia per la storia, cit. p. 93.^
27 Gambi polemizzava qui con l’articolo di Dino Gribaudi, Contro una critica demolitrice della geografia, in “Rivista geografica italiana”, 1963, pp. 245-270.^
28 Per gli anni della maggiore riflessione di Gambi riguardo alla discussione internazionale sulla natura e i compiti della geografia possono servire di riferimento P. Birot, Geografia fisica e Ph. Pinchemel, Geografia umana ed economica, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1978, rispettivamente pp. 256-300 e 300-312, con le relative bibliografie. Per l’Italia in particolare si può vedere utilmente, a titolo esemplificativo, M. Quaini, Dopo la geografia, Roma, Espresso Strumenti, 1978; e Idem, Tra geografia e storia. Un itinerario nella geografia umana, Bari, Cacucci, 1992. La bibliografia al riguardo è andata poi progressivamente crescendo, ma anche disperdendosi in rivoli non sempre significativi.^
29 Gambi, Una geografia per la storia, cit., p. 93. Dalla Calabria si citavano qui, in n. 37 le pp.343-345,450-471 e 478-483.^
30 Idem, I valori storici dei quadri ambientali, in Storia d’Italia, vol. I, Torino Einaudi, p. 16.^
31 Ivi, pp. 55-58.^
32 Gambi, Uno schizzo di storia della geografia in Italia, in Una geografia per la storia, cit., p. 35.^
33 Ibidem.^
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