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Democrazia e Repubblica
di Maurizio Ambrogi
Ci sono due passaggi fondamentali nella storia della Repubblica italiana: il centrosinistra e la solidarietà nazionale. Tutti hanno l’identico segno, che potremmo definire come tentativo di far evolvere la democrazia italiana verso un modello di inclusione, di far maturare il sistema, chiudere antichi contrasti, anzi la frattura aperta nel secondo dopoguerra e mai veramente rimarginata.
Ragionare su questo, costituisce il punto di vista peculiare dell’ultimo libro di Paolo Soddu: La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1945-2013, Editori Laterza, 2017. Libro importante e diverso, fra i tanti usciti di recente sul settantennio di vita repubblicana, proprio perché rilegge il periodo focalizzando i passaggi fondamentali alla luce del faticoso e vano tentativo di superare la democrazia dissociativa e arrivare ad una democrazia inclusiva compiuta sul modello delle altre esperienze occidentali. Un filo già seguito dallo stesso autore nella ricostruzione del settennato di Pertini attraverso i diari di Maccanico1, che coincise con la fine della solidarietà nazionale. Una chiave che consente di uscire dalla retorica della democrazia nata da due esperienze di fatto eccezionali, la Resistenza e la Costituente, per approdare ad una realtà assai meno brillante: la rottura del ‘47, alimentata dalle divisioni internazionali, la separazione fra “rappresentanza” e “legittimazione”, una pluridecennale egemonia democristiana attenuata dalla pratica consociativa, una dinamica alimentata da partiti “antichi” di massa il cui esaurimento avrebbe portato, in un clima di crescente antipartitismo, un ventennio di bipolarismo muscolare, che avrebbe finito a sua volta col frantumare il senso di appartenenza ad un destino comune e ad indebolire il senso di rispetto delle istituzioni. In questa lettura assumono peso diverso soggetti che in altre storie compaiono meno, o risultano alterati: il partito d’Azione e il mondo laico, in primo luogo. E in altra luce si rileggono passaggi, come detto, cruciali: il centrosinistra, assai presto depotenziato, avversato come fu dalle forze conservatrici non meno che dalla sinistra comunista e da ampi settori sindacali. E poi la solidarietà nazionale, che scatenò una reazione di terrorismo rosso che per intensità e durata non ha paragoni in nessun altro paese occidentale: il che ci riporta a una sorta di peccato originale della democrazia italiana, ne spiega la persistente crisi, fino agli esiti più recenti.
Il peccato si consuma tutto in pochi mesi, dalla Liberazione alla fine del governo Parri, nel conflitto fra due diverse ipotesi, come scrive Soddu: «il progetto dei partiti ideologici di massa e il programma pienamente secolarizzato degli azionisti». Vincerà il primo, come sappiamo, che non prevede una radicale discontinuità di classi dirigenti, né una riflessione vera sulle origini del fascismo, declassato crocianamente a parentesi della storia italiana. E del resto coerente, quel giudizio, con la necessità di assolvere le culture egemoni prefasciste, quella liberale e quella socialista, dai loro errori di valutazione. Le prime troppo deboli nel contrasto dell’insorgente eversione, le seconde troppo cieche per vedere che il loro massimalismo stava alimentando altre svolte che non quella verso una società di uguali (e viene da dire che qualcosa dovrebbe cupamente risuonare alle classi dirigenti democratiche di oggi, impegnate in un conflitto che probabilmente non le vedrà vincitrici).
Ma se le ricostruzioni storiche solitamente enfatizzano la rottura fra le forze moderate e il fronte popolare, meno si riflette su una frattura politico-culturale di natura diversa su cui invece insiste Paolo Soddu: quella fra due modi di uscire e fare i conti con il fascismo. Frattura che avrà conseguenze non meno profonde sullo sviluppo della Repubblica: quella fra «il progetto dei partiti ideologici di massa e il programma pienamente secolarizzato degli azionisti».Che è anche conflitto sulla continuità o la sua rottura. Continuità con le culture politiche prefasciste, popolarismo, socialismo, comunismo, e anche con le forme organizzative del partito “di massa”, come era lo stesso Pnf. O rottura netta, con l’unica forza nuova uscita dalla Resistenza, attraverso Giustizia e Libertà, cioè il partito d’Azione, per assumere le esperienze più avanzate di democrazia liberale e l’aspirazione ad «orientare evoluzione e sviluppo delle società di mercato», ed entrare in una forma di democrazia pienamente inclusiva. In altre parole, da un lato c’è il partito d’Azione che esprime la necessità di rompere nettamente col passato, anzitutto attraverso l’adesione senza riserva alla forma istituzionale repubblicana, e poi con l’esigenza di fare pienamente i conti con il passato. Dall’altra le forze popolari, dalla Dc al Pci, assai meno severe sia sulla forma istituzionale, sia sul fascismo, che era più comodo considerare, per ragioni diverse, una parentesi, una pagina buia alla quale il popolo italiano sarebbe stato in gran parte estraneo. E si capisce come facesse scandalo, a sinistra, molti anni dopo, la storiografia di De Felice soprattutto nella parte in cui documentava la vasta adesione di popolo al fascismo in particolare nella seconda parte del ventennio2.
A disegnare la geografia della nuova democrazia italiana coincisero dunque le due fratture: perché la caratteristica di fondo della repubblica dei partiti che stava nascendo – sintetizza Paolo Soddu – «fu la demarcazione netta tra area della rappresentanza e area della legittimità». A irrobustirla contribuì la connessione col quadro internazionale, così come si forgiò nella fase iniziale della Guerra fredda. A maggior ragione, nel momento in cui la sinistra all’opposizione, composta da Psi e Pci, aveva nel blocco guidato dall’Urss un potente, chiaro e indiscusso referente. Tuttavia, a precisare i caratteri del nuovo sistema dei partiti sottostavano anche le fratture non ricomposte dello Stato unitario e le asperità della costruzione democratica pluralista.
I decenni successivi saranno caratterizzati dal tentativo di superare l’esclusione iniziale, per arrivare ad una democrazia compiuta. Tentativi che videro alcuni protagonisti, da La Malfa a Moro a Berlinguer, fronteggiare le spinte conservatrici o radicali che operavano nel senso opposto. E che sempre ebbero la meglio. I due passaggi fondamentali, che nel libro di Soddu vengono particolarmente illuminati, sono, come si diceva all’inizio, il centrosinistra e la solidarietà nazionale.
Il centrosinistra ha una lunga gestazione, a partire da metà degli anni ‘50, una breve e intensa stagione di riforme, fra il ‘62 e il 65, e una lenta, inesorabile crisi. L’apertura già in partenza contiene elementi di ambiguità: per la Dc è vissuta come un modo per inserire i cambiamenti economici e di costume dentro un sentiero di continuità. Per gli altri si trattava di «utilizzare i materiali del miracolo (economico) per una costruzione stabile, che consentisse un mettersi alle spalle tutto il passato e raggiungere una dimensione democraticamente matura». Sarà Moro, nella Dc, a farsi garante della svolta contro le forti resistenze interne. Il repubblicano La Malfa quello che cercò di dare all’operazione politica una sostanza economica e progettuale ispirata alle esperienze delle economie occidentali più avanzate e all’obiettivo di avviare una forma di programmazione dello sviluppo, di redistribuzione delle risorse, di correzione degli squilibri e delle carenze strutturali del paese. Prima con la Nota Aggiuntiva, poi con la Politica dei redditi. Come scrive Guido Crainz in un altro recente libro su quegli anni3 «La Malfa poneva dunque al centro la necessità di una programmazione economica capace di correggere le distorsioni, e vi univa un forte senso di urgenza». Una urgenza che chiamava in causa anzitutto la classe politica, che avrebbe dovuto utilizzare il miracolo economico, diceva La Malfa: «per trasformare a fondo le strutture del nostro paese». La ricostruzione molto ampia che Soddu fa del dibattito sulla Nota aggiuntiva rende merito alla centralità e alla forza di quel documento e al pari fa capire la natura delle resistenze che contro si dispiegarono: dalla destra, come era prevedibile, dalla sinistra e dai sindacati, come lo era assai meno. Una sorta di progressivo accerchiamento testimoniato ampiamente da Adolfo Battaglia nel suo ultimo libro4.
È giudizio condiviso che la fase più innovativa fu quella iniziale, basti pensare solo all’innalzamento dell’obbligo scolastico o alla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Poi il centrosinistra subì la reazione della destra, che in alcuni suoi settori arrivò perfino ad elaborare piani eversivi, scontò gli effetti politici di un rallentamento della crescita che era fisiologico, e perse via via la spinta propulsiva. Destino non migliore, anzi più breve e tragico, fu quello che, dieci anni dopo, subì la solidarietà nazionale. Se il centrosinistra doveva servire a suturare una prima frattura, quella con i socialisti, e dare un equilibrio e una prospettiva alla crescita impetuosa dell’economia del paese, la solidarietà nazionale puntava al passaggio logico successivo verso una democrazia compiuta: cioè la legittimazione del Partito Comunista, che nel frattempo aveva allentato quei vincoli esterni che lo avevano tenuto fuori dall’area di governo per una “conventio ad escludendum” che si era guadagnata anche un’altra brillante definizione giornalistica: il fattore K. Anche qui ritroviamo gli stessi protagonisti: Moro e La Malfa, cui si aggiunge, sul versante di Pci, Enrico Berlinguer. L’esperimento, preparato a lungo, si consumò in due anni, fra l’aprile del ‘76, con la nascita del governo Andreotti della “non sfiducia”, e il marzo del ‘78, con il rapimento di Moro alla vigilia del dibattito parlamentare che avrebbe dovuto sancire il pieno ingresso del Pci nel governo5. «Quel giorno il Parlamento votò immediatamente la fiducia – annota Soddu – ma il tentativo consensuale, inteso come legittimazione di diversi e concorrenti schieramenti e quindi preliminare condizione dell’evoluzione del sistema politico, era concluso». Le conseguenze furono la crisi del modello di governo democristiano e imperniato sulla Dc (che infatti perse tre anni dopo la guida del governo prima con Spadolini, poi con Craxi) l’arretramento del Pci verso posizioni di “alternativa”, l’apertura con Craxi del “duello a sinistra”, che avrebbe paralizzato il Pci su posizioni identitarie senza far guadagnare quote di consensi rilevanti al Psi. La crisi dei grandi partiti esploderà negli anni ‘90 con Tangentopoli, certificando una crisi di sistema da cui si uscirà con vent’anni di bipolarismo “muscolare”, il cui principale e forse unico esito positivo fu all’inizio, col governo Prodi e sull’onda dell’emergenza, l’ingresso nella moneta unica.
Il libro si ferma al 2013 e non può dar conto degli ultimi sviluppi. La prospettiva adottata da Soddu credo aiuterebbe gli storici di quest’ultimo periodo a guardare con freddezza e onestà all’ultimo tentativo di rimettere in equilibrio il sistema politico istituzionale risultato definitivamente bloccato, proprio con le elezioni del 2013, su tre grandi forze tra loro alternative, una delle quali, il Movimento 5 Stelle, indisponibile a coalizzarsi o a collaborare a progetti di riforma. Al netto degli errori compiuti da tutti i soggetti in questa fase, Renzi compreso o se si vuole Renzi per primo, la bocciatura della riforma costituzionale apre una prospettiva che non presenta sbocchi positivi. L’obiettivo del famoso “combinato disposto” di riforma costituzionale e legge elettorale, doveva essere quello di evitare una crisi di sistema. Nella quale invece siamo evidentemente precipitati dopo la vittoria del No al referendum.











NOTE
1 A. Maccanico, Con Pertini al Quirinale, Diari 1978-1985, a cura di Paolo Soddu, il Mulino, Bologna, 2014.^
2 R. De Felice, Mussolini il Duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, Torino, 1974.^
3 G. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi, Donzelli, Roma, 2016.^
4 A. Battaglia, Né un soldo né un voto, il Mulino, Bologna, 2015.^
5 Fra i libri più recenti sugli ultimi giorni di Moro, si segnalano: G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, Bologna, 2016, e la raccolta delle lettere scritte durante il rapimento, Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino, 2016.^
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