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Afragola
di Marco Demarco
Ridotta in cifre, si presenta così. Sessanta milioni di euro già spsi e quasi altrettanti ancora da impegnare. Trentamila metri quadrati di superficie, di cui un terzo destinato ad attività commerciali. Ventimila metri quadrati di pannelli di copertura e altri 6 mila di vetrate. Oltre 4.500 tonnellate di acciaio per tenerla in piedi e 5.600 di carpenteria per coprirla. A colpo d’occhio appare invece come un gigantesco drago finito chissà come e perché in un campo di broccoli; o come un lungo serpente avvolto a un fascio di binari; o, anche, come una di quelle immense creature che Matteo Garrone ha utilizzato per il suo raffinatissimo “Tale of tales”. Ma per un addetto ai lavori come Benedetto Gravagnuolo, che riuscì a vederne solo i disegni e i rendering, era ben altro: era “il paradigma dell’innovazione linguistica nell’ambito dell’architettura ferroviaria”.
Più di una normale infrastruttura, più di una apprezzata opera d’arte. Che la nuova stazione di Afragola progettata da Zaha Hadid sia qualcosa di “trascendente”, che sia cioè un simbolo, non ci piove. Che oltre a evocare qualcosa abbia anche un suo valore funzionale, è invece ancora tutto da verificare. Su questo, sul fatto che possa rivelarsi una nuova cattedrale nel deserto, e che possa esserlo nel senso proprio indicato dai meridionalisti classici, ci piove, eccome. Del resto, sarà stato uno scherzo del destino, ma due settimane dopo l’inaugurazione ufficiale, avvenuta il 6 giugno alla presenza del presidente del Consiglio, sullo spettacolare tetto di vetro della stazione di Afragola è dovuta intervenire una squadra acrobatica di manutentori, perché c’era da iniettare silicone nelle guarnizioni. Sì, al primo acquazzone, la carpenteria metallizzata, azionata a distanza dai computer, non aveva retto. Una brutta figura? Di più. Bisogna considerare, infatti, che la vicenda delle gocce venute giù dal soffitto costituisce, per il momento, solo l’ultimo capitolo di una storia recente che ne ha almeno tre. Ricostruiamola a beneficio di una nuova fenomenologia delle cattedrali nel deserto.
Primo capitolo. L’inaugurazione. Il 6 giugno, dunque, Gentiloni arriva ad Afragola. A quel tempo l’accordo sul tedeschellum sembra blindato e le elezioni anticipate sono date per scontate. Nessuno rinuncerebbe a un nastro da tagliare, e così il premier si avvicina al microfono e fa il suo prevedibile discorso da cerimonia. “Qui garantiremo sviluppo e sicurezza”, dice. Si riferisce sia alla preoccupante scia di delitti di camorra registratisi nell’area nei giorni precedenti, sia alla mai risolta questione meridionale. In effetti, Gentiloni ha di che andare fiero. Ad Afragola, a quattordici anni dall’avvio dei lavori, dopo vari “stop and go” e una decina di inaugurazioni provvisorie, in un’Italia che conta ancora 838 opere pubbliche incompiute e in una Campania che ne ha da sola 90, quel giorno qualcosa sta andando finalmente in porto. Si inaugurava ufficialmente non una semplice stazione dell’Alta velocità. Ma molto di più. Un simbolo, appunto. Bella come nessun’altra, ha detto la Cnn. Destinata a diventare il più grande hub ferroviario del Mezzogiorno, ha assicurato il ministro Delrio.
Secondo capitolo. Il blitz. Dieci giorni dopo l’inaugurazione, il 16 giugno, arrivano i Carabinieri, la scena è tutta un’altra. Via i drappi e le coccarde. Via le telecamere, le hostess e gli addetti stampa. Nell’assolata piana di Afragola, oltre che sui recenti fatti di camorra, oltre che sui delitti legati agli appalti, ora si indaga anche su possibili illeciti amministrativi e, cosa più rilevante, anche sullo smaltimento illegale dei rifiuti. Siamo, infatti, in piena Terra dei fuochi: terra di discariche, di rifiuti occultati e di veleni. Più che una infrastruttura di servizio, agli occhi dei Carabinieri la stazione si presenta come una scenografia messa su frettolosamente. A parte ciò che serve al traffico ferroviario, tutto o quasi risulta “provvisorio”. Il verbale finale è impietoso. La caffetteria della stazione – non era dunque un vezzo averla chiamata “Temporary bar” – è priva di licenza, e c’è da pagare una multa di 5 mila euro. L’impianto di condizionamento dell’aria ha le “bocche” periferiche, ma è privo di motore. Le uscite di sicurezza sono in realtà insicure, perché danno su cantieri in cui ancora ci sono lavori in corso. Non c’è il defibrillatore e il kit di pronto soccorso. E sull’impianto antincendio manca l’ultima parola dei Vigili del fuoco. Ciò che più inquieta, però, sono i sigilli posti al parcheggio esterno di 150mila metri quadrati. E non tanto perché, completato in tutta fretta, non era stato ancora collaudato. E neanche perché per giorni ha funzionato abusivamente, incassando somme non dovute. Ma in primo luogo perché quell’area era stata oggetto di un improvviso cambio di destinazione urbanistica: da residenziale a industriale. E il sospetto ora è che tutto sia avvenuto per accelerare i tempi della bonifica, per provvedere a un controllo meno accurato su cosa, approfittando degli imminenti lavori,
la camorra si era probabilmente affrettata a smaltire illegalmente.
Terzo capitolo. La pioggia. Due giorni dopo il blitz, il 18 giugno, ecco la goccia che fa traboccare l’inevitabile vaso. Nella stazione bisogna aprire gli ombrelli. Risultato: quello che doveva costituire il segno architettonico di un paese moderno e proteso verso il futuro è diventato all’improvviso il simbolo di una italietta arruffona e dura a morire. L’italietta delle scenografie elettorali e delle sceneggiature tragicomiche; delle inaugurazioni a beneficio delle telecamere; delle comiche finali. Polemica da “nonsipuotisti”? Difficile a dirsi. Eppure si è detto anche questo. E chi, prima e dopo l’inaugurazione di Afragola, non ha smesso di raccontare e commentare il susseguirsi degli avvenimenti si è visto inserire tra i sospettati. Ma il nonsipuotismo di antica memoria qui c’entra poco, perché Antonio Genovesi battezzò così quel sentimento fatto di rassegnazione, sfiducia e cronico disincanto che avrebbe poi alimentato ogni forma di antiriformismo, mentre nel caso di Afragola i fatti parlano da soli.
A Roma-Tiburtina transitano 400 treni al giorno. A Napoli-Garibaldi 500. Nella struttura progettata da Zaha Hadid si fermano e ripartono, invece, appena 36 treni al giorno. Domani, quando sarà avviata la tratta Napoli-Bari andrà forse meglio. Può darsi, ma sicuramente non molto meglio. Lo dice anche Ennio Cascetta, il primo a scommettere sull’Alta velocità alle porte di Napoli. Intervistato dal Corriere del Mezzogiorno, l’ex assessore regionale, ora tra i più qualificati collaboratori del ministro dei trasporti, ha infatti spiegato che un domani chissà quanto vicino “da Afragola non passeranno molti treni”. E ha detto anche che “ad Afragola non nascerà alcun treno”. Valeva allora la pena realizzare una struttura così sofisticata? Michele Oricchio, procuratore generale della Corte dei conti, nella sua relazione di apertura dell’anno giudiziario l’ha inserita nel capitolo degli sprechi. “Troppa superficialità nella spesa pubblica”, ha detto severo. Il suo allarme avrebbe dovuto meritare maggiore attenzione. E invece è stato prontamente rimosso, con evidente fastidio.
Di sicuro, una stazione del genere – progettata nel 2003 per essere consegnata nel 2008 – avrebbe avuto più senso se, come si chiarì quando fu immaginata, avesse sostituto quella di Napoli; se facendo da ponte tra Nord e Sud avesse evitato ai treni veloci di entrare e uscire da Garibaldi; e se così facendo avesse permesso ai convogli di guadagnare un bel po’ di minuti: dieci o anche quindici, dicono gli esperti. Al contrario, ora i Frecciarossa e gli Italo avranno un’altra sosta da fare, e per giunta a pochi chilometri dal capoluogo. E ora tutti a dire che Afragola non sostituirà Napoli-Garibaldi. Ma perché lo dicono? Semplice, perché ora il contesto non è più quello previsto nel 2003. Nel frattempo, la stazione di Afragola è rimasta isolata come una Capri galleggiante in aperta campagna: irraggiungibile, perché il collegamento con la metropolitana regionale non è mai stato realizzato; lontana, perché fino all’ultimo c’è stata incertezza su chi e come avrebbe gestito i collegamenti su gomma; inaccessibile, perché gli svincoli stradali sono, ancora oggi, solo vagamente ipotizzati. “Potremmo realizzare un ponte o in alternativa un sottopasso, si vedrà”, ha detto De Luca il giorno dell’inaugurazione. Indicativa, del resto, è la diversa valutazione fatta in quella occasione da Delrio e dallo stesso De Luca. “Mi fanno ridere quelli che parlano di una stazione isolata”, ha detto il ministro. “Afragola è un gioiello isolato”, ha riconosciuto invece il governatore. Si ammetta: non è una scena tipica di un film con Tognazzi e Gassman?
Afragola è dunque un simbolo. Ma un simbolo carico di equivoci.
Lo è, ad esempio, di una sorta di risarcimento territoriale, perché mentre negli anni passati a Napoli si realizzavano le stazioni della metropolitana dell’arte, belle e celebratissime, in periferia il sottosuolo si imbottiva clandestinamente di rifiuti di ogni tipo, in gran parte provenienti proprio dalla città capoluogo. Almeno nelle intenzioni e al netto delle manipolazioni operate dalla camorra, Afragola potrebbe simboleggiare il venir fuori da un senso di colpa non più sopportabile. È la città che chiede scusa al suo hinterland. Tuttavia, bisognerà ammettere che senza collegamenti ferroviari con Napoli, Afragola rischia di rappresentare l’esatto opposto. Cioè, la periferia tenuta a distanza dal centro metropolitano. Diventerebbe così il simbolo della continuità. Della peggiore continuità.
Ancor di più, la stazione di Zaha Hadid è il simbolo di uno Stato che torna a investire al Sud; di una modernità griffata e costosa; di un progresso tenacemente voluto. In questo senso, rappresenta un’idea di sviluppo del tutto alternativa a quella fin qui avvalorata, per esempio, dalla Napoli di de Magistris. Da una parte la “crescita operosa”, dall’altra la “decrescita felice”. Da una parte c’è Afragola, ci sono i treni superveloci, le grandi infrastrutture, la suggestione della stazione come icona “futurista”. Dall’altra, a Napoli, ci sono invece l’estasi della passeggiata, l’incanto del lungomare “liberato” dalle auto, il sogno “dadaista” della lentezza, della sobrietà anti-moderna. Ma anche qui, chi può scommettere sulla vittoria storica dei nuovi “futuristi”? In altre parole, quale di questi due modelli apparirà più adeguato ai tempi: quello del lungomare affollato o quello della stazione deserta? Di sicuro, investire per investire o costruire per costruire non è il modo migliore per vincere la sfida. E fa ben sperare una recente considerazione del ministro Delrio. “In futuro – ha detto – le infrastrutture dovranno essere più utili che grandi”. Delrio è arrivato a queste conclusioni dopo l’inaugurazione di Afragola. Ma non importa. Il suo è comunque un vasto e condivisibile programma.
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