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Alle origini dell’Antipolitica
di Valeria Sgambati
Per molto tempo, durante il lunghissimo secondo dopoguerra italiano, la riflessione storiografica sull’Italia repubblicana si è concentrata soprattutto sulle origini, sul periodo che va dal 1943 al 1948, tralasciando i pur importanti decenni successivi; poi, in concomitanza con la crisi politica ed economica degli anni ‘90, si è sempre più fatta strada l’esigenza di interrogarsi sulle ragioni e sulla genesi del declino in atto, dando vita a nuovi studi, dagli approcci ed esiti assai diversi, con periodizzazioni e interpretazioni assai diverse, che però hanno finalmente preso in considerazione l’intero cinquantennio postbellico.
Come ha osservato Agostino Giovagnoli (Interpretazioni della Repubblica, Il Mulino, 1998), dopo il 1989 sono stati pubblicati molti volumi sulla storia della cosiddetta prima repubblica, “ad opera tra l’altro di Ginsborg, Scoppola, Lanaro, Colarizi, Lepre, Barbagallo, Craveri, Santarelli, Di Nolfo”; così come si sono moltiplicate le analisi e le interpretazioni sociologiche e giornalistiche sugli anni ‘70-90. E questo perché “tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, grandi cambiamenti internazionali hanno generato la sensazione di una cesura epocale, mentre con la crisi del sistema politico italiano sembrava finire la prima Repubblica”.
Una parte significativa di questi studi e di queste analisi si è rivolta in particolare ai nuovi soggetti politici emersi con clamore alla ribalta politica nazionale nei primi anni ‘90, come la Lega Nord, Forza Italia, L’Italia dei valori, il PDS, trascurando, viceversa, un importante sommovimento politico, trasversale e di carattere nazionale, il quale, nato dalla società civile, aveva già intuito agli inizi degli anni ‘80 l’irreversibilità della crisi organica che l’Italia stava vivendo, anticipando importanti problematiche politiche e istituzionali, e avrebbe portato alla nascita ufficiale della Rete nel 1991.
Eppure, sebbene l’esperienza politica sia durata pochi anni, alcuni dirigenti, esponenti, interlocutori e simpatizzanti del movimento incubatore della Rete e poi della stessa Rete rivestono ancora oggi ruoli politici, sociali e istituzionali di primaria importanza, come don Luigi Ciotti, fondatore di “Libera”, l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il ministro Dario Franceschini, i sindaci siciliani Orlando e Bianco e altri ancora. Così come alcune tematiche e proposte politiche di quel movimento hanno ancora fondamento e attualità. Basti pensare all’abolizione del bicameralismo, alla riduzione del numero dei parlamentari, all’ineleggibilità dopo due mandati parlamentari, all’elezione diretta da parte dei cittadini dei governi, all’adozione dei collegi uninominali, all’ulteriore decentramento e riequilibrio dei poteri dello Stato.
A sottrarre all’oblio questa importante esperienza politica, che a grandi linee coincise con la fine dell’unità politica dei cattolici italiani, con il disgregarsi del sistema politico nato con la repubblica, con l’inquietante escalation mafiosa e con il tracollo economico, ci ha pensato Daniela Saresella che, sulla base anche di archivi di partito e di privati, ha ricostruito tutta la parabola della Rete dal 1985 al 1994, nei suoi diversi e maggiori ambiti territoriali, da Palermo a Milano, da Roma a Torino e a Trento. Il suo libro, edito nel 2016 da Le Monnier, reca il significativo titolo Tra politica e antipolitica perché interpreta questo movimento come un’anticipazione di certe tendenze ed esigenze che avrebbero però avuto gli sviluppi più importanti e a volte imprevisti in altre forme e prospettive politiche, quelle della cosiddetta seconda repubblica.
Lo svolgersi del movimento della Rete testimoniò, secondo l’autrice, il “nuovo protagonismo” della società civile con la volontà di elaborare e proporre un progetto politico che andasse al di là dei partiti tradizionali, che avrebbe avuto il merito “di comprendere, quando ancora risultavano sfocati ai più, gli scenari che si sarebbero di lì a poco delineati, e prima che venisse aperto il vaso di Pandora di Tangentopoli, la necessità di una “rifondazione morale” del Paese”.
Il movimento fu ideologicamente e politicamente trasversale e coinvolse esponenti politici, intellettuali, associazioni e territori assai diversi, anche se si puo’ senz’altro dire che la sua origine fu siciliana e la sua matrice culturale fu di stampo cattolico. Infatti in quei primi anni ‘80 la Sicilia, pur piagata e piegata come non mai dalla mafia e dalla crisi delle istituzioni e della DC, seppe dar vita, come descrive bene il libro, a un generale “risveglio delle coscienze” e delle associazioni di varia natura e poi all’imprevista “primavera” politica di Palermo, che portò alla formazione, nell’agosto ‘87, della “giunta anomala” di Leoluca Orlando, composta da gran parte della DC, dalla Sinistra Indipendente, dai Verdi, dai Socialdemocratici e dalla Lista civica “Città per l’Uomo”, legata alla fondazione omonima del padre gesuita Ennio Pintacuda. Una giunta che, escludendo la DC di Lima e Ciancimino, il PSI, il PRI e aprendo al PCI, intendeva spezzare ogni legame con la mafia, “superare antichi steccati tra i partiti di massa (…) e costituire un autentico laboratorio per la politica nazionale” e che suscitò molte critiche e polemiche politiche e personali sia in Sicilia, sia a livello nazionale. Come per esempio quella, dalla rilevanza politica nazionale, che nella primavera del 1989 coinvolse direttamente il sindaco Orlando -che aveva dato vita alla giunta esacolore con il PCI- e il vicesegretario del PSI Claudio Martelli, contrapposto frontalmente alla nuova gestione amministrativa del capoluogo siciliano e al protagonismo politico del suo sindaco.
L’obiettivo ambizioso di diventare un riferimento nazionale sembrò possibile in quel contesto di crisi acuta delle istituzioni e della democrazia in Italia, in cui si avviava il progressivo sfaldamento dei partiti e delle loro tradizionali culture politiche, e in presenza di un grande fermento nel cattolicesimo, soprattutto democratico. Infatti, molti intellettuali e politici cattolici, di diverso orientamento, da Paola Gaiotti a Pietro Scoppola, da Giuseppe Lazzati a Beppe Tognon e altri ancora, avevano espresso “il proprio disagio di fronte al degrado della vita pubblica” e avevano indicato la necessità di “costruire futuro”, fondando associazioni e organizzando incontri e confronti “al di fuori dei partiti tradizionali” in molte parti d’Italia oltre che a Palermo, ovvero a Roma e a Milano, a Trento e a Torino.
Nonostante le molte e prevedibili difficoltà, dalla Sicilia in rinnovamento si riuscì in breve tempo a estendere l’influenza politica, a guadagnare consensi insperati e a stabilire intese e accordi importanti con altri protagonisti e altre realtà della politica e della società italiana. Tra queste ultime, le più importanti furono il gruppo costituitosi negli anni ‘70- 80 intorno al sindaco comunista di Torino, Diego Novelli, e alla rivista “Nuova Società”, che si caratterizzarono per l’apertura al confronto e al dialogo politico e intellettuale, per l’attenta ricerca delle cause e delle conseguenze della crisi economica e sociale in atto, per la campagna a favore della moralità pubblica; e il gruppo trentino della “Rosa bianca”, che nel 1981 aveva fondato la rivista “Il Margine” per rilanciare l’impegno civile dei cattolici democratici. Questo gruppo trentino, ritenendo definitivamente conclusa la militanza all’interno della DC, voleva aprirsi al confronto e alla collaborazione con altre forze politiche e culturali, soprattutto della sinistra italiana.
Ancora più significativo fu, come sottolinea Daniela Saresella, l’apporto dato dalla società civile di Milano, che negli anni ‘80 viveva un fosco clima politico e giudiziario, culminato in tangentopoli agli inizi degli anni ‘90. In quel periodo e in quel contesto il variegato mondo cattolico ambrosiano, che andava da Giussani a Lazzati, da Martini a Turoldo e a Monaco, si mostrava in grande mobilitazione per iniziative varie che volevano mettere al centro della riflessione “il bene comune” e la necessità di riportare “l’agire politico nel campo della moralità”. Nacquero così a Milano nuove associazioni e riviste, così come scuole di formazione socio-politica, del tipo di quelle già nate a Palermo, ma più aperte e“popolari”. Anche la parte “liberal” e laica della città cominciò a manifestare volontà di partecipazione diretta, trovando uno spazio di riflessione e d’intervento nel circolo “Società civile”, sorto nel 1985 per iniziativa di un gruppo di intellettuali e professionisti milanesi, di diverso orientamento, come Nando Dalla Chiesa, Gherardo Colombo, Alberto Martinelli, padre Turoldo, Corrado Stajano, Paolo Brera, Gianni Barbacetto e tanti altri. Volevano battersi contro la partitocrazia e le tare nazionali, compresa la mafia, proponendo, per conciliare modernizzazione e moralità, “una ricetta – come scrive l’autrice- che sembrava uscita da un redivivo Voltaire: la tolleranza, l’onestà, il rigore, la correttezza, la verità”.
Tra Palermo, diventata simbolo nazionale della lotta alla criminalità, e Milano il rapporto si era sviluppato fortemente e stabilmente, anche grazie all’amicizia sorta, dopo l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, tra il figlio Nando e Leoluca Orlando, e rafforzatasi in concomitanza del nuovo impegno civile dell’erede del generale e delle crescenti difficoltà politiche incontrate dalla giunta palermitana, osteggiata a livello locale e nazionale dalla DC di Andreotti e Forlani e dal PSI di Craxi, che portarono al definitivo fallimento della giunta innovatrice e all’abbandono della democrazia cristiana da parte del sindaco siciliano.
Dalla sinergia di queste forze ed esperienze eterogenee eppur convergenti su taluni fondamentali obiettivi, di carattere civile, sociale e istituzionale, nacque nel 1991 la Rete per opera soprattutto di Orlando, ormai non più sindaco democristiano di Palermo, di Dalla Chiesa, Novelli, Alfredo Galasso, Carmine Mancuso, i quali presentarono a Roma la nuova formazione politica, “postideologica”, con queste parole: “vogliamo mettere insieme idee e iniziative in modo trasversale, rompendo le paratie stagne che separavano finora uomini con sentimenti e aspirazioni comuni. Ci misureremo sulle riforme istituzionali, a partire dall’opposizione al presidenzialismo; sui problemi della giustizia, del fisco, degli enti locali, dell’informazione. Al centro poniamo i valori dell’uomo”.
La Rete, che registrò subito nuove adesioni e simpatie, come quella di Paolo Prodi e Raniero La Valle, ma anche repentini abbandoni come quello di Pietro Scoppola a favore del movimento referendario di Mario Segni, era nata in un periodo particolarmente travagliato a livello nazionale e internazionale, che si sarebbe ulteriormente aggravato negli anni successivi, e pertanto suscitò immediatamente i timori e le stigmatizzazioni della DC, che l’accusava di avere scarsa chiarezza nel programma e di provocare conseguenze deleterie per il mondo cattolico e per la stessa governabilità del paese.
Il programma della Rete, pur in assenza di precise proposte in materia economica, aveva alcune indicazioni precise come quella di puntare a un ulteriore decentramento, alla difesa dell’autonomia della magistratura, all’elezione diretta da parte dei cittadini degli esecutivi e soprattutto rivendicava “il primato della ragione etica sulla ragione politica” e partitocratica e la finalità di una “democrazia compiuta”.
Il nuovo movimento, come sottolinea Daniela Saresella, si trovò subito a fronteggiare nei primi anni ‘90 un clima politico e giudiziario sempre più deteriorato, a causa della crisi delle classi dirigenti, del dilagare del malaffare e della nuova strategia criminale di “cosa nostra”, che portò agli omicidi di Falcone e Borsellino e poi agli attentati terroristici di Roma, Firenze e Milano. Tutto ciò contribuì a radicalizzare le posizioni della Rete che, con in testa Orlando, cominciò a parlare dell’esistenza di un “regime” in Italia, dell’inestricabilità dell’intreccio tra mafia e politica e del pericolo di un “golpe” più o meno mascherato. Tuttavia, i riscontri politici ed elettorali non furono affatto incoraggianti, se si escludono talune affermazioni dove il movimento era più radicato, e si dovette registrare un trend discendente di voti alle varie elezioni tenute tra il ‘91 e il ‘94. La Rete, scontando la mancanza di un vero coordinamento nazionale, l’indecisione nella strategia delle alleanze, la disomogeneità delle sue componenti, la scarsa compattezza interna, l’emergere di rivalità e personalismi, arrivò così alla precocissima crisi e allo scioglimento nel 1994. Nondimeno, fu dal suo interno che prese l’avvio un progetto politico importante per il futuro italiano, quello della creazione di un “polo progressista”, in grado di far superare al paese la difficile transizione politica, ancora più cupa durante il “biennio grigio” ‘92-94. Infatti già nel 1993, per impulso soprattutto di Antonino Caponnetto, fu presa in considerazione l’ipotesi della costituzione di un vasto schieramento che avrebbe dovuto raccogliere “i contributi della sinistra storica, del cattolicesimo popolare e democratico, dei nuovi movimenti politici ispirati alla tutela dell’ambiente, nonché di tante associazioni femminili e studentesche”. E tale organizzazione avrebbe dovuto avere per obiettivi principali il disciplinamento dell’informazione, il rafforzamento del federalismo e dello stato sociale, la riforma della legge elettorale per le Regioni, la revisione dei sistemi di elezione dei deputati, dei membri del CSM e della Corte Costituzionale.
Mentre si avviava la realizzazione di questo ambizioso progetto, arrivarono i disastrosi esiti delle doppie elezioni del 1994, che sancirono il trionfo di Forza Italia, l’affermazione della Lega, la frantumazione politica dei cattolici e la sconfitta della Rete,alleata con i Verdi e Alleanza Democratica, che non avevano raggiunto la soglia minima del 4%, mentre il PDS e Rifondazione Comunista avevano sostanzialmente mantenuto il loro consenso. L’analisi della sconfitta elettorale da parte della Rete partiva dalla presa d’atto che la “domanda di radicale cambiamento”, derivata dai cambiamenti della società, avesse premiato la destra e non la sinistra, in quanto quest’ultima risultava ancora inadeguata e arretrata culturalmente e politicamente. Secondo i retini, “la sinistra rispondeva in modo difensivo alla crisi dello Stato sociale, alla sproporzione tra i suoi crescenti costi economici e la decrescente qualità dei suoi servizi, mentre la destra proponeva una via d’uscita che era ideologicamente efficientista, anche se aggressiva, classista e antisolidarista nella sostanza”.
L’irrisorio consenso politico-elettorale ottenuto dalla Rete acuì però i contrasti, le tensioni e i personalismi interni portandola praticamente allo scioglimento alla fine del 1994; ma le forze e i protagonisti del movimento continuarono, in campi diversi, a essere politicamente e socialmente molto attivi e a esercitare per molti aspetti la loro influenza: “l’approdo – come rileva Daniela Saresella- per i più fu (…) nell’ambito della politica e della cultura progressista”, contribuendo soprattutto alla successiva, importante esperienza dell’Ulivo di Romano Prodi.
Come già gli azionisti, dopo lo scioglimento dell’importante quanto effimero partito d’azione, seppero orientare la loro “diaspora”nel mondo politico italiano, dopo il 1947, in un senso anticipatore, decisamente democratico e modernizzante, così, secondo quanto emerge dal libro, anche i semi gettati dalla Rete sarebbero stati vitali e avrebbero dato frutti tardivi, non sempre adeguatamente riconosciuti e valutati.
Ma questa non è l’unica analogia che, secondo l’autrice, si puo’ cogliere tra le due esperienze politiche e culturali rappresentate dal Pda e dalla Rete: infatti ambedue sono nate dalla società civile in tempi di grave crisi e sono state caratterizzate dal pluralismo delle culture politiche e dall’“intransigentismo”, così come hanno orientato la riflessione sull’assetto istituzionale, sull’importanza del rapporto tra politica e cultura, della moralità pubblica e della selezione della classe dirigente, sui rischi e sulle conseguenze della partitocrazia. E soprattutto entrambe nella loro breve durata non sono riuscite ad approdare a una convincente sintesi politica, sebbene talune loro idee e proposte abbiano avuto notevole influenza. Basti pensare che la Rete, nell’ancor più breve arco di vita rispetto al Pda, riuscì comunque a conseguire taluni suoi obiettivi: l’abolizione dell’immunità parlamentare, la punibilità del voto di scambio mafioso, la difesa della legalità e dell’indipendenza della magistratura e altro ancora.
Si puo’ senz’altro affermare che “la Rete- come scrive l’autrice- rappresentò dunque il primo tentativo (dell’Italia repubblicana n.d.a.) di elaborare e proporre un progetto politico che andasse al di là dei presupposti ideologici e che si basasse essenzialmente su programmi condivisi: le differenti esperienze e la diversa appartenenza culturale non erano concepite come un problema ma come occasione di arricchimento e di confronto.” Fu forse una partenza troppo accelerata ma sicuramente non fu una falsa partenza, perché si basò sulla ricerca e sul metodo del dialogo, si collegò agli importanti sviluppi politici successivi e animò positivamente la battaglia delle idee agli inizi di una lunga crisi di transizione che non è ancora finita.
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