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La costituzione feudale e gli intenti dei baroni in terra d'Otranto nel secolo XV
di Giancarlo Vallone
Gli studi sulle istituzioni feudali del Mezzogiorno d’Italia sono indubbiamente poco frequenti, e si tratta di una specie di paradosso, perché il feudo è considerato, direi a ragione, una istituzione di importanza fondamentale nella storia del Mezzogiorno, a differenza, poniamo, del ruolo che il feudo assume nell’assetto costituzionale dell’Italia comunale. Se confrontiamo la storiografia francese, e, almeno, spagnola sulle istituzioni feudali regionali, dobbiamo per forza di cose, riconoscerne la maggiore nervatura e frequenza. Certamente tra le molte ragioni di tutto questo, alcune sono generali. Ad esempio alcuni storici del diritto hanno affrontato, ciascuno a loro modo, il feudo da un punto di vista eminentemente giuridico, estendendosi anche all’esame di quell’immenso, e in sostanza inesplorato giacimento ch’è l’antica dottrina giuridica napoletana; ma molti storici di altra formazione, per vecchio pregiudizio antigiuridico, continuano a pensare del tutto irrilevanti, ed anzi inutilmente complicanti, sia quella dottrina che quella storiografia, che, se usate, vengono in genere fraintese, esibendo, nel migliore dei casi, una comoda quanto incolta distinzione tra ciò che sarebbe “fatto” e ciò che sarebbe “diritto”. Inoltre il tentativo di liberazione della cultura storiografica italiana dal pregiudizio antigiuridico, e l’esigenza di un consapevole uso del sapere giuridico e costituzionale almeno in questioni che siano, esse stesse, giuridiche e costituzionali, come indubbiamente il tema della sovranità, o quello delle giurisdizioni, e altri, se ha certamente a che fare con l’introduzione, a lentissima penetrazione, del pensiero di Weber, deve poi molto all’opera di Gianfranco Miglio e dei suoi allievi, tra i quali in posizione eminente Pierangelo Schiera, che hanno diffuso autori come Schmitt e Böckenförde, Brunner e Hintze, e altri. Sono tutti storici e giuristi capaci di teoria, e a volte misconosciuti dalla stessa storiografia giuridica, come indica, in quell’ambito di studi, l’embrionale utilizzo del concetto di costituzione medievale1; ma il misconoscimento e l’indifferenza è massima in quegli storici di varia tendenza e formazione che non credono nella teoria- nella sua “astrattezza”- e, tutt’al più, si orientano solo su quelle teorie che non sviano la propria prassi di ricerca e non intralciano i concetti fondativi che la guidano, spesso ricavati dalla prassi stessa o superficialmente adattati a tale prassi (“stato”, “governo”, “relazioni di potere” e simili). Però questo ricavare i concetti fondativi della propria ricerca senza un confronto con il ruolo che quei concetti, se sono tali (e non, come ogni tanto avviene, mere invenzioni), hanno negli studi teorici che li riguardano, propone una distinzione tra teoria e prassi sostanzialmente bruta, che è pura illusione credere capace di avvicinare il “fatto” e la “realtà” della storia; e davvero l’esperimento di Pirenne, narrato anche da Croce, per molti è insignificante. Si tratta di un dissidio che si ripresenta in ogni generazione. E tuttavia qualcosa si muove in direzione del suo superamento; ad esempio a Lecce il “Centro di Studi Orsiniani” (dal 2009) e a Napoli il “Centro per la storia delle città campane nel Medioevo” (dal 1999) studiano la vicenda dei due maggiori corpi intermedi del Regno, o Viceregno, e cioè i feudi e le città, affrontando questioni di tipo giuridico e costituzionale sul fondamento di saperi congrui; basti per esempio ricordare un importante e recente volume di Giovanni Vitolo, nel quale le dinamiche politico-istituzionali e anche i conflitti politico-sociali, sono esaminati su un preliminare vaglio dei concetti fondativi, intesi come «lessico»2, e di un lessico legato al concreto uso storico, e alla vita storica, delle parole, evitando le astrazioni e i danni gravi anche perché diffusivi, che ad esempio una presunta «realtà del lessico» ha introdotto negli studi delle leges federiciane3.
Vorrei iniziare il mio intervento partendo dalla fine di quanto si afferma in un recente contributo di un giovane e valente storico4, e potrei così agevolmente dire che è pensabile quanto qui viene scritto a proposito della feudalità meridionale di età aragonese, e di Orsini in particolare. E cioè si può pensare che, almeno lui, Orsini, a sua volta pensasse e tendesse ad una «sovranità pressoché completa», e che un tal pensiero se attuato, avrebbe comportato «un’alterazione profonda nella costituzione della monarchia napoletana», e che pur non essendoci mai stata tale alterazione (in effetti non ci fu, come qui appunto si riconosce), ciò «non significa che un disegno in tal senso non sussistesse». In effetti, posto che alterazione dell’“ordine” della costituzione non ci fu, ch’è quanto ora mi interessa, del resto, e cioè dei progetti e intenti e conati del Principe se “sovranisti” (secondo il termine usato) o meno, si può parlare e pensare un po’ come si parla della sua morte, perché c’è chi lo vuole ucciso dai due Antonii, chi lo fa morire di malaria quartana ed è poi anche possibile pensare che sia caduto dalle scale del palazzo. Dico questo perché, sul presupposto riconosciuto dell’insuccesso dei disegni, quali che fossero, di Orsini, il contributo in esame, è costruito con attenzione appunto nel senso di non rendere immaginifico e inventivo il proprio pensare la possibilità di sussistenza di quell’idea o disegno orsiniano, ma di far invece emergere questa sussistenza ideale da argomenti probanti, appunto per non renderlo immaginario. Il mio intento è invece di comprendere se queste argomentazioni siano o possano essere probanti di un progetto o di un altro, quando non sono proposte sul fondamento dei concetti appropriati per definire il campo della loro (delle argomentazioni) efficienza. Intendo concetti come ordine, costituzione sovranità, stato, ma anche giurisdizione, territorio, e altri; e impegno, per tali espressioni, il termine concetto, perché averne davvero il concetto ed usarne soltanto la parola, possono essere, e spesso sono, due cose diverse, come ho dimostrato anche in altre occasioni. Per tutto questo, e per altro ancora, invece che dalla fine di questo scritto, sarà meglio iniziare dal suo principio, o da quella che, almeno in apparenza, è la sua idea centrale, e cioè l’idea che il baronaggio meridionale, o almeno alcuni baroni maggiori, o almeno, tra essi, l’Orsini, avrebbero avuto «una coscienza politica», e questo contro la celebre proposta crociana, e poi di Giuseppe Galasso, e di molti altri, dell’assenza di “idee politiche” del baronaggio meridionale. Intendiamoci, quella grande lettura interna della storia del Regno, che dobbiamo alla forza penetrante di Benedetto Croce, è per più versi invecchiata, ed è inutile darne ora conto; ma molte sue strutture portanti restano salde, e, ad esempio, l’intuizione, poi potenziata dagli interventi proprio di Galasso, e di alcuni suoi allievi come Musi, sulla preponderanza spagnola come determinante la effettiva «sottomissione del baronaggio» regnicolo, non è certo stata scalfita da quanti, fermandosi alla mera superficie del fenomeno della rifeudalizzazione, lo hanno identificato addirittura con un «diroccamento dell’apparato statale», proprio per una incomprensione profonda del difficile meccanismo delle giurisdizioni feudali, il che non è, qui, inutile da ricordare. Intanto io non sono interessato a contraddire l’idea che Orsini ebbe una “coscienza politica”, anche perché non è qui del tutto chiaro in cosa consisterebbe il “politico” di questa coscienza5; e però essa, o coesa o frangente, deve esser posta nel quadro dell’unità politica del Regno, e non sulla sua superficie. Alcuni degli autori classici qui contrastati mostrano allora spunti di molto spessore per fondare la questione su basi appropriate, perché Machiavelli coglie, con intuizione impressionante, il profilo della «antiquità di sangue» come ereditarietà del potere feudale e come tratto costituzionale, mentre Croce, per definire la sua idea degli «interessi particolaristici e centrifughi» dei baroni, scrive anche di una loro estraneità totale all’idea di «progresso sociale», ponendo, con questo, il profilo fondamentale per comprendere, nel vivo della società, se la relazione tra potere regio e potere feudale sia o meno in grado di costituire– in condizioni di pace – un coeso ed omogeneo spazio (del) pubblico, e una possibilità “statuale” (che non significa “statale”), e quindi approfondendo fino alle possibili radici collettive il contesto di legittimazione del potere/dei poteri. Una questione che, nello scritto in questione, è del tutto assente. Per dire altrimenti, la storia delle intenzioni resta intenzionale se non è misurata sull’unità politica, che è, secondo la «precisazione», forse geniale, di Carl Schmitt, la costituzione ‘vivente’, cioè il nesso tra apparato istituzionale degli officia Principis (in stato di accordo con i poteri feudali ereditari) e l’insieme sociale delle volontà6. Nel concreto della storia del Regno, e forse in ogni monarchia autenticamente feudale, siamo ad un punto limite: la frantumazione feudale dei poteri non consente una coesione sociale unitaria, e l’unità politica sembra restringersi al profilo del raccordo istituzionale dei poteri; al loro sistema. Al di fuori dell’esame di questo raccordo, anche se ridotto, e per di più in assenza di riflessione sullo stato di pace o di guerra, e quale, o interna o esterna (che è essenziale appunto per la sopravvivenza del profilo istituzionale unitario), tutto acquista altra dimensione, e ci si spinge a ritenere che il particolarismo baronale potrebbe velare un conato di «resistenza» ai programmi del Re, impegnando questa illustre parola -resistenza- in modo così indistinto che anche il più trito e frequente degli abusi feudali (il rifiuto del servitium, o la frode dell’adoha) potrebbe allignarvi dentro, mascherato da protuberanza ideologica; e il famigerato accordo di Lacedonia del 1486, la cui valenza altra è evidente, si erge fino a suggerire che tra i congiurati serpeggiasse l’idea «in nuce» di trasformare il Regno in una «repubblica baronale»7. Per rimettere le cose in ordine, prendo lo spunto dalla critica che viene rivolta ad un’intera tradizione storiografica sul Mezzogiorno feudale: essa poggerebbe «su una lettura monarchico-centrica» e «lo stesso svolgimento dei poteri baronali» dovrebbe essere svincolato dal nesso con le «dinamiche del potere regio» nel senso di riconoscere loro «una qualche parte»8. Questa proposizione, apparentemente chiara, e in concreto priva di contenuto, acquista un senso con la esatta comprensione dell’ordine o assetto dei poteri -costituzione- del Regno, o Viceregno, feudale del Mezzogiorno; implica un discorso su modernità e progresso almeno in senso istituzionale, cioè in ordine alla razionalità del dominio sui sottoposti e al contenimento dei corpi intermedi, e prospetta il problema, di natura teorica, e qui, per più ragioni, eludibile, del dialogo difficile tra storiografia generale (nel senso antico di etico-politica) e storiografia costituzionale, intesa, naturalmente, non come semplice e sola storia giuridica. Disinteressandosi a questo, e per dare sfondo ad una lettura non-monarchico-centrica, qui si dichiara che per comprendere l’operato dei baroni bisognerebbe «chiedersi cosa volessero diventare» e non basterebbe «studiare ciò che effettivamente erano» né significherebbe molto, a tal fine, la loro «condizione giuridica» (ch’è poi molto meno della loro posizione costituzionale)9; dunque quella «qualche parte» che si reclama per i poteri feudali nella storia del Regno avrebbe a che fare non con la realtà del loro essere potere, ma con le intenzioni feudali che si intendono politiche; ora anche ammesso che questo percorso di estraneazione dal sistema dei poteri nutra qualche prospettiva storiografica, e se ne può dubitare, certo non porta alcun contributo consistente alla prospettiva auspicata di una storiografia non-monarchico-centrica del Mezzogiorno. Insomma: nulla obbliga chi scrive di storia costituzionale del Regno feudale a occuparsi degli intenti falliti dei baroni, mentre chi studia questi intenti farebbe bene ad impratichirsi senza semplificazioni del sistema dei poteri per evitare errori, che possono ripercuotersi anche sulla valutazione degli intenti baronali. In altri termini solo comprendendo per bene come i poteri feudali fanno sistema con quelli regi si può aprire la strada ad una storiografia che sappia proporre, ad esempio, una seria differenza tra il re aragonese di Napoli e un monarca assoluto, ch’è già un buon modo per dare spazio storiografico concreto al mondo feudale del Regno. Veramente, lo scritto qui esaminato ha a che fare, nel suo insieme, con la “sovranità”: si parla costantemente di tentativi di sovranità (mai raggiunta) di Orsini, visti come attentati alla sovranità del re, e così via. Tuttavia, in tutto questo non è proposto della “sovranità” alcun concetto; non ce n’è, altrimenti detto, alcuna definizione quanto meno del profilo istituzionale; ma per quale ragione non ce ne sarebbe bisogno? Per una qualche semplice fungibilità del sapere giuridico e costituzionale? Perché si ritiene che sia comunque facile intendersi? Invece è facile fraintendere ed è necessario evitare confusioni: la “sovranità” intesa nel senso che già le monarchie assolute hanno prodotto con la costruzione d’uno spazio omogeneo (del) pubblico e che poi, per certo, le rivoluzioni liberali hanno consegnato, con la estinzione del potere dei corpi intermedi, agli ultimi due secoli, definendola come potere politico unico o, già prima, irresistibile, è un tutto ben diverso dalla “superioritas” regia delle monarchie feudali, che convivendo con le proprietà ereditarie del potere (in specie di giurisdizione) impediscono di indicare nel re, e certo nel re napoletano, il monopolista della forza e il titolare di un potere unico; perché un fatto è certo: se quel potere ereditario è altrui, non è del re, e bisogna tenerne conto10. La questione è classica da quasi cent’anni, e va conosciuta, ed io stesso, sulla scorta di illustri autori, tra i quali, in Italia, Cortese o Grossi, l’ho introdotta negli studi sul Principato di Taranto11. In un punto, si scrive di «superioritas» feudale del re, e in un altro s’indica la costituzione medievale come «ordine» o «contextio» (di poteri)12; ma se questa superiorità regia sui feudali non è posta in relazione, o in contextione, con la proprietà ereditaria dei poteri territoriali e feudali, si oscura la profondità della radice plurale dei poteri subalterni intrecciati o “intessuti” in unità politica, e la “superioritas” del re, con un effetto irreale di modernità, torna a rivestire l’insieme, mostrandosi sovranità. Quando s’afferma che l’attentato di Orsini mirava «ad uno svuotamento del potere regio fino a renderlo evanescente e ridurlo ad un fatto poco più che nominale»13, sembra immaginarsi (penserei: nello stato ordinario della vita costituzionale) che una sovranità regia doveva o poteva esser presente nello stesso dominio orsiniano, per consentire a Orsini, appunto, di attentarvi; invece il re, per la tessitura territoriale della costituzione, probabilmente aveva, in quei territori, meno potere ancora di quanto qui se ne immagina, senza che questo rendesse «evanescente» e «nominale» il suo potere, e senza che un tal potere si riducesse al semplice «giuramento di fedeltà vassallatica»14, perché se il re non è “sovrano” nel Regno, nemmeno il barone è “sovrano” nel suo feudo, come saggiamente, e in generale, avverte Paolo Grossi15. Ora, se si confonde, nell’esame dell’assetto istituzionale della costituzione, e limitandoci ad esso, la “superioritas” con la sovranità16, sfugge la distinzione e il nesso gerarchico tra quel che è superiore e quel che è subordinato, tra i capita maiestatis del re e i poteri territoriali feudali, tanto maggiori, quanto più vasta è la terra, perché la terra è potere, come è stato insegnato; e in tal modo la stessa struttura territoriale d’un grande feudo viene confusa, nello stato ordinario della costituzione, con un attentato alla “sovranità” del re. Esattamente in questo punto la pretesa di dichiarare inutili o insufficienti gli studi sull’assetto costituzionale del Regno per esaminare gli intenti baronali, mostra la sua debolezza, e si trasforma nel suo contrario: la superficialità di uno studio sugli intenti dei baroni che ignora la concreta struttura dei loro poteri. Vediamone gli effetti; e per vederli riassumo quanto è emerso fin qui: nel mentre si vorrebbe contrastare la ricostruzione “monarchico-centrica” della storia del Regno meridionale, si rimane prigionieri di un’impostazione monista di potere e costituzione, che impedisce di comprendere il fondamento plurale dell’unità politica del Regno. Soprattutto, se unità politica è costituzione, vita collettiva di popolo che asseconda il comando creduto legittimo, bisogna proporre su giusto fondamento la distinzione tra l’ordine naturale della vita politica e quanto la lede, ed anche questo nello scritto manca. Così, accanto ad un primo effetto di confusione tra struttura dei poteri e intenti feudali, che esaminerò dopo, emerge un’altra confusione tra ciò che è movimento politico o guerra feudale e ciò ch’è pace e stato ordinario della costituzione; e già da tempo s’è detto «non si comprende appieno la natura del potentato pugliese degli Orsini senza una necessaria distinzione tra il suo assetto costituzionale, ed invece il movimento politico, congiure e ribellioni incluse»17. La distinzione tra guerra e pace nella vita collettiva, non è di puro buon senso, ma è classica anch’essa della storia costituzionale, e non è soltanto di base schmittiana, e non può essere ignorata; io la utilizzo così: se una guerra esterna, come stato d’eccezione, mostra, o può mostrare, chi ha potere (il sovrano, il re), invece una guerra contro un nemico interno, ad esempio Orsini, non può tanto, e non esibisce alcuna sovranità o superiorità, appunto perché una guerra interna interrompe la unità politica, cioè il nesso istituzionale, e non sospende soltanto la costituzione, come invece avviene, se avviene, nella guerra contro un nemico esterno, che è il nemico comune di tutto il popolo, quando questo si fa tutt’uno nel rapporto amicus-hostis: un rapporto, assai difficile da realizzare in un contesto fortemente feudale, ma che, se attuato, propone davvero, in posizione disvelante, il senso profondo del “politico” e del potere. Somaini indica alcuni episodi della guerra orsina; e tra questi uno, ch’è tratto da un documento milanese del 20 agosto 1459, utilizzato in un volume di Francesco Storti, ricco di consapevolezza giuridica e costituzionale: nel caso, in piena guerra feudale, Orsini vuol rivalersi di suoi presunti crediti sul parente del Balzo, occupando «armata manu» Venosa; e fa dichiarare tale volontà al re Ferrante, che lo fronteggia sul campo per la battaglia, ma il re gli offre piuttosto, e inutilmente, come ha fatto altre volte, «de ministrarli iustitia», cioè, come Storti vede bene, di sottoporre le ragioni di Orsini ai tribunali regi18; ecco qui, una di fronte all’altra, la guerra e la pace del Regno: il re propone di restaurare lo stato ordinario della costituzione e l’ordine, con la propria superiorità istituzionale nella giurisdizione, e lo fa affermando il suo rifiuto delle rappresaglie e delle “giustizie” private, che, ha insegnato Otto Brunner, è all’origine del carattere “pubblico” della prerogativa penale dei monarchi; ma il re sa bene che la richiesta di Orsini è astuta e provocatoria, e sa bene che Orsini non avrebbe accettato di sottomettersi. Però questo rifiuto non è soltanto il disprezzo dell’autorità del re, o un attentato alla sua sovranità; è molto di più, è una guerra; e lo stato di guerra, o la ribellione di un barone, non dimostra per niente, e nemmeno per intento, quel che invece si dovrebbe dimostrare esistente nello stato di pace (ma neanche lì esiste), e cioè che il dominio orsiniano «lungi dall’essere un feudo del regno, si poneva in realtà come un corpo politico sussistente da sé e per sé»19. La guerra feudale, la larga rivolta, sono vicende d’eccezione, e in faccende come queste, per affermare o anche solo mostrare i propri intenti, quali che siano, al di là della guerra stessa, bisogna riuscire, ed averla vinta. Orsini invece troverà in fine l’accordo, cioè la pace di Bisceglie, che in effetti allarga e potenzia i suoi territori20, e forse nemmeno Somaini può sapere se proprio questo non fosse il suo intento; perciò, quando Benedetto Vetere afferma che la guerra o la congiura orsina si dava «all’interno di un sistema che non si intendeva cambiare», si può pensare diversamente da lui, ma i fatti, e, si badi, i fatti intesi anche come precipitato d’intenti, gli daranno sempre ragione21. Resta la pace; e qui per dimostrare che il potentato orsiniano altro non è, per il suo stesso complesso di poteri, che un tentativo di stato dotato, almeno in potenza, di «una condizione di sostanziale sovranità», vengono evocati, con alcune integrazioni, molti vecchi argomenti e arnesi della polemica tra Monti e Antonucci, degli anni Trenta dell’altro secolo, che sono stati invalidati non soltanto dal mero decorso del tempo, ma anche da scritti assai più recenti, quelli miei, che ne dimostrano l’infondatezza scientifica, oggi; e per la verità io attendo sempre che qualcuno mostri dove ho errato, o almeno dove ho torto (sono due cose diverse), invece di scegliere semplicemente un’altra via, quella vecchia, che se consente di ripetere gli stessi argomenti non può impedire di rinnovare gli stessi errori, come ora dimostrerò. Prima di entrare nei particolari, dirò, una volta di più, che quegli antichi argomenti, pur analizzando per la prima volta criticamente la struttura territoriale e feudale del Mezzogiorno, erano, forse già allora, provvisori, e certo casistici, elencativi, non dominati dall’interno da alcun concetto sintetico e forte (ad es. quello di costituzione) in grado di proporre quella struttura come “parte” di un tutto; e, a ben vedere, quell’idea del Monti della condizione “giuridica” singolare del Principato tarantino, rivelava, insieme alla percezione che esso non fu mai «uno Stato indipendente vero e proprio», l’assenza ed il bisogno di concetti appositi per la comprensione dell’unità. In breve: che il principe Orsini potesse più -poniamo- del barone di Torrepaduli, è nella natura delle cose e non in quella degli intenti, e non è perciò una tal naturale potenza a mostrare le sue intenzioni. Le «rilevanti innovazioni istituzionali» che il principe introdusse nei suoi domini22 - e che non sono esclusive dei suoi domini - non nascono da un ingegno eversivo, ma, per così dire, dalle viscere della terra e cioè dalla sua struttura complessa, che obbliga ad una gestione articolata. Mi limiterò, qui, ad una questione cruciale, perché è l’essenza istituzionale della politicità, e cioè alla questione delle giurisdizioni territoriali e feudali del potentato orsiniano; ma si tratta anche di una questione profondamente difficile, che bisogna studiare a lungo, e con pazienza, e dove massimo è il danno dell’improvvisazione e dell’utilizzo di strumenti concettuali impropri ed estranei al tempo storico che si vuole esaminare, come avviene appunto in questo scritto, del quale è bene riportare il pensiero sulle attribuzioni di giurisdizione del Principe, e quindi sul cd. Concistorium Principis orsiniano, che «pur senza essere formalmente titolato – come ha sottolineato Giancarlo Vallone - all’esercizio dell’ultimo grado di giurisdizione, …dovette fungere proprio da tribunale di ultima istanza, in luogo della giurisdizione regia e teoricamente in alternativa ad essa; [cioè] in pieno disconoscimento – per dirla con Giovanni Antonucci- delle prerogative sovrane» con seguito di altre considerazioni23. Noto subito, ed anzi l’ho fatto spesso, che l’adozione di coppie polari forma/sostanza oppure uso/abuso o più spesso fatto/diritto è stato sempre un comodo disimpegno per gli storici antigiuridici (o per alcuni tra loro), o per quegli storici che più semplicemente pensano inutile perder tempo con il sapere giuridico e costituzionale, ed in questioni poi, come questa, esse stesse giuridiche e costituzionali; ma il fatto è che se al tempo di Monti e Antonucci, questi saperi potevano essere, com’erano, embrionali nell’analisi storiografica del mondo feudale, oggi sono in pieno vigore, ed ignorarli è, effettivamente, una scelta di campo piuttosto debole e rivelatrice, ed è naturalmente in base a questa scelta pretestuosa che, quanto ho scritto, e non è poco, viene relegato d’autorità, nel regno ritenuto avulso e inconcludente delle forme. Intanto io non ho sostenuto in alcuna occasione che il principe di Taranto (o il suo tribunale) mai ebbe “formalmente” l’ultimo grado di giurisdizione, con avverbio (“formalmente”) che mi viene gratuitamente attribuito, quasi pensassi anch’io che “di fatto” ci fosse di più; ho invece sostenuto, ed anche provato contro opinioni dissenzienti, che i Principi di Taranto, incluso Orsini, stando alla documentazione nota, in concreto ebbero soltanto il primo grado di giurisdizione (civile e penale). Somaini, in più, pur dichiarando «persuasivi» i miei scritti, crede di individuarvi dentro addirittura la prova della sua (di Antonucci) impostazione, e dunque del mio, quanto meno, formalismo, perché se io indico uno iudex appellationum principesco nel 1425 (ed anche prima) e, per giunta, addirittura un Concistorium orsiniano, tribunale anch’esso d’appello (se non anche di istanza ulteriore) ecco già consumati tutti i gradi di giurisdizione (perché tre sono i gradi di giurisdizione), e provato così il disconoscimento delle prerogative sovrane, per dirla con Antonucci, e della «sostanziale sovranità» orsiniana, che è la ritraduzione del pensiero di Antonucci in quello di Somaini. Davvero, tra le tante cose che si sono pensate, non si è voluto pensare “che io loico fossi”. Vediamo allora se questa sbrigativa ricostruzione è priva di errori. Si tratterebbe di questo: «sin dal Trecento si era consolidata la prassi di moltiplicare i gradi di giudizio in testa al principe» e sarebbe questa prassi moltiplicativa a dimostrare che «di fatto» la corte orsiniana, quale che fosse, «dovette fungere proprio da tribunale di ultima istanza, in luogo della giurisdizione regia», come si dice in epigrafe. Si elabora dai miei scritti, suppongo, o da altro, l’immagine della «moltiplicazione dei gradi di giudizio in testa al principe», ma, a prescindere dal primo errore, ch’è quello di originare la prassi nel Trecento, e a prescindere dal fatto che non si tratta di una moltiplicazione, come poi dirò, qui si crede che il moltiplicarsi dei gradi di giurisdizione «in testa al Principe» implichi una riduzione di quelli in testa al re, perché tre e solo tre sono i gradi di giurisdizione, e se il principe se li moltiplica, il re li perde, ed è allora per questo, per dirla con Antonucci, che si abuserebbe delle prerogative sovrane. Però non è affatto vero che questa molteplicità (e non moltiplicazione) di impugnazioni (che non sono gradi di giurisdizione) sia abusiva, o “di fatto”, e soprattutto non è vero che privi il re dei suoi gradi di giurisdizione (cioè il secondo e l’ultimo); si tratta invece, se si vuol comprendere con concetti appropriati la realtà del mondo medievale, di una serie di scissioni, com’è stato scritto infinite volte, all’interno del grado in attribuzione del principe (ch’è solo il primo); e cos’è che determina questa scissione? la gerarchia delle terre. Non si sa forse che dal Principe dipendono vari feudi, e da questi feudi dipendono dei suffeudi? Non si sa forse che in ognuno di questi territori c’è una giurisdizione inerente, territoriale, perché nel mondo medievale non può esserci terra senza potere? Ed è per questo ch’è stato detto, in generale, che la gerarchia di (proprietà sulle) terre è una «gerarchia di giurisdizioni»24. Quello che dev’esser chiaro, è che si tratta di una nervatura territoriale del potere: ad ogni livello della gerarchia delle terre, corrisponde una giurisdizione; chi è titolare della terra principale, e del potere su di essa, indica il titolare della terra subordinata che giusdice in essa, e così via; ma non si tratta in senso proprio di gradi di giurisdizione, si tratta di gestione delle terre che si imputa poi al primo titolare (l’ordinario), nel limite del suo potere, impugnando fino a lui (ad es. dal baglivo al barone al principe) e poi oltre di lui, nella giurisdizione regia, se il titolare ha, come Orsini, solo il primo grado di giurisdizione. Potrei andar oltre ricordando che nei miei scritti produco larga prova di quanto precede, nonché, se servisse, ed ogni tanto serve, produco anche prove documentali e anche letterali a dimostrare che, nel contesto del potentato, anche dopo la morte di Orsini, ogni livello gerarchico di impugnazione è definito nel primo grado; e provo, contro le semplificazioni, che il termine che si consolida tecnicamente, proprio in età orsiniana, per definire il secondo grado, non è «appellatio», è «secundae causae», e si consolida in questa forma non classica (ignota al diritto romano), proprio perché il termine classico, appunto «appellatio», è stato già largamente impegnato per definire i raccordi territoriali interni ai gradi. Preferisco aggiungere che la gerarchia di terra e giurisdizione (e la scissione nel grado) è struttura propria anche della realtà dell’Italia comunale ed i giuristi del diritto comune l’hanno elaborata nell’idea, d’impianto romanistico, della giurisdizione delegata (a dato iudice appellabitur ad eum qui dedit), ed è stato autorevolmente indicato25; e, di più, non sappiamo forse che la situazione in Francia, ancora nella Francia di Enrico IV, è anche più pesante, e Loyseau lamenta che in certi luoghi ci sono «trois ou quatre degrez de Jurisdiction Seigneuriale avant que devenir à la Royale»26?. L’adozione meccanica, nello studio delle monarchie medievali, del principio romanistico, e rinato col diritto romano a Bologna, dei tre gradi di giurisdizione, produce allucinazioni, e fu detto, appunto in uno scritto del Centro di Studi Orsiniani, «proprio la estensione territoriale del potentato…mostra… che il primo livello di giurisdizione avvolge e vela anche una scala discendente della giurisdizione, ed un sistema per così dire sotterraneo di impugnazioni che è facile fraintendere con l’adozione cieca del principio dei tre gradi di giudizio, e cioè ignorando che quel principio, anche da quando se ne restaura la necessità, tuttavia continua, e a lungo continuerà, ad operare nel contesto, tipicamente medievale, della territorialità del potere»27. Somaini cita i miei libri ma non li legge; oppure li crede errati, e per cortesia mi mostra solo dissenso; però il dissenso è in dominio dell’opinione, l’errore no; ed è per questo che gli errori vanno indicati, per evitare che altri li ripetano e un grave regresso s’installi negli studi, già poco e male frequentati, sulle istituzioni feudali meridionali. In sintesi il tribunale orsiniano, così sfuggente, e incerto nella sua storia, al punto da essere quasi mitico, ha una sola certezza: è un tribunale di ultima istanza feudale, ed oltre di essa la lite prosegue nella giurisdizione regia e nelle Grandi Corti del re, che non subiscono alcun abuso o disconoscimento della propria prerogativa. C’è di più: abbiamo qui un chiaro esempio di come una consapevole analisi di diritto e costituzione è in grado di smascherare il doppio gioco tra fatto/diritto e di mostrarlo, come in questo caso, per quello che in genere è: un gravissimo errore. A questo punto si potrebbe però dire, ed è stato detto, che ricorrere alla giustizia regia, dopo tre o più impugnazioni feudali, «di fatto…era impossibile, o quasi, per le notevoli spese che avrebbe comportato»28; si tratta di un discorso assai diverso dal precedente, perché non solo non ha per presupposto errori istituzionali, ma, anzi, presupponendo con precisa affermazione che nel potentato orsiniano ogni impugnazione si risolve all’interno del primo grado di giurisdizione29, non può certo essere evocato a sostegno, come ambiguamente si fa, di una pretesa istituzionale avversa; ed è anzitutto per questo, per la sottrazione dell’argomento al suo contesto d’origine, ch’è necessario fare chiarezza sull’incertezza così creata. Ora, in ogni tempo ci sono stati litiganti che per evitare i costi processuali hanno anche evitato di impugnare la sentenza di un tribunale, senza che questo divenisse di per sé un tribunale di ultima istanza, ed il suo giudice diventasse un sovrano. Siamo indubbiamente di fronte ad una «questione di fatto», appunto perché non si tocca in nulla l’assetto costituzionale; però il fatto in questione non è configurato dal costo processuale che renderebbe impossibile, o quasi, il ricorso; piuttosto è un fatto che «pochi saranno stati i sudditi d’Orsini ad avere la voglia e la forza» di portare la lite dinanzi al re30. Si tratta di un fatto che va spiegato, e si può farlo storicamente, senza il solo appoggio di apparenti evidenze logiche. Se esaminiamo un feudo complesso del Regno nella sua gerarchia di territori, e comprendiamo che corrisponde ad una gerarchia di giurisdizioni (tutte interne al grado di giurisdizione concesso, cioè, in genere, al primo), siamo già in condizione di comprendere che evadere dai livelli della giurisdizione feudale è in sostanza impossibile per la popolazione contadina; si tratta di un dato generale, perché la popolazione contadina, nel corso del medioevo, è enormemente maggioritaria nell’intero contesto europeo, e, anche qui, pochi contadini, indubbiamente, avranno potuto sottrarsi alla semplice coazione del signore terriero, sottoponendo un suo eventuale abuso alla cognizione di un giudice; oltre costui, inizia la catena delle impugnazioni: Boutruche conosce solo un appello proposto da contadini31. Un grande potentato come quello orsiniano, e altri, come quelli dei Sanseverino, e ancora tanti feudi importanti ma di minor estensione, non hanno però solo popolazione contadina; Orsini ha in feudo città come Lecce, Brindisi, Taranto, Otranto, Gallipoli, Nardò, e infinite altre, ed in esse ci sono artieri, professionisti, imprenditori navali, corporazioni di mestiere: davvero si può pensare che a questa gente sia impossibile proseguire una lite fino al giudicato regio? Si sarà poi capito che la gerarchia delle giurisdizioni si snoda dal caput del feudo, ch’è in genere una città o centro abitato32, giù verso le terre subordinate, ed è in queste che vivono i contadini, ai quali spetta il compito più arduo nella risalita verso la giustizia, mentre i cittadini, e tra loro i ricchi, devono affrontare assai meno gradini? A conti fatti il suddito orsiniano più subordinato deve affrontare al massimo quattro livelli per la giurisdizione civile e forse due per la penale prima di intravedere la giustizia del re, ma i cittadini solo due ed uno. Si è pensato che il Concistorium orsiniano è sostituito, con la restaurazione aragonese, dal Sacro Regio Consiglio Provinciale, ch’è cronologicamente la prima Regia Udienza del Regno, senza alcuna diminuzione (e forse con un aumento) delle impugnazioni territoriali sottostanti, e che nessuno ha mai dubitato che dalla Regia Udienza s’appellasse alla Vicaria di Napoli, e ne sopravvivono infiniti esempi? Si sa che la migliore storiografia politica ha da tempo impostato nel modo giusto questa questione33? Si è valutato che se davvero fosse stato impossibile ricorrere al re dal Principato, lo sarebbe stato egualmente da moltissimi altri feudi complessi del Regno, e la Vicaria o il Sacro Regio Consiglio sarebbero allora scomparsi nel nulla con l’unità statale, mentre grazie anche alla loro florida opera di raccordo, durata fino al Decennio francese, quell’unità è sopravvissuta? Si sa o no che con l’età vicereale si iniziarono a concedere anche il secondo e il terzo grado di giurisdizione ai feudali e siccome qui sì che si interrompeva ogni possibile prosecuzione regia, i magistrati provinciali decisero che tutte le sentenze feudali di una stessa lite valessero «pro una» riavviando il flusso verso le Udienze e le corti napoletane del re? Insomma, davvero è impossibile che dal potentato orsiniano s’appellasse al re? E Orsini stesso quando controverte pacificamente sul meum e sul tuum con i suoi parenti o altri competitori, dove si pensa che finisca il giudizio, se non di fronte al re? E questo non dice nulla? Somaini sostiene che di ricorsi al re dal Principato «non pare che ve ne siano particolari attestazioni»34; quest’è però un argomento capzioso, che non prova certo l’impossibilità del ricorso, e dimostra anzi che ci si avventura incautamente in certe questioni: i primi records sopravvissuti di sentenze regie sono conservati nell’Archivio di Stato Napoli, e iniziano ben dopo la fine della stagione orsiniana, cioè soltanto dal novembre del 148535, e bisogna saperlo.












NOTE
1 Per un cenno di principio alla questione: G. Vallone, Rilettura di Pietro Vaccari, in Paola Maffei, Gian Maria Varanini (eds.), Il cammino delle idee dal Medioevo all'Antico Regime. Diritto e cultura nell’esperienza europea, vol. III di Honos alit artes. Studi per il settantesimo compleanno di Mario Ascheri, Firenze, Firenze University Press 2014, pp. 403-416.^
2 G. Vitolo, L’Italia delle altre città. Un’immagine del Mezzogiorno medievale, Napoli, Liguori, 2014.^
3 Ne ho scritto in un saggio di prossima pubblicazione, Interpretare il Liber Augustalis.^
4 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale alla fine del Medio Evo. Appunti su ruolo, ambizioni, progettualità di G.A. Orsini Principe di Taranto, in «Itinerari di ricerca storica» 30 (2016, 2), pp. 33-52.^
5 Non alludo soltanto alla questione del potere nel suo contesto di legittimazione, ma ad alcuni risvolti pratici: perché in un punto si sostiene che sarebbe lecito pensare che Orsini «coltivasse dei progetti separatistici» ed in un altro si afferma che «l’ipotesi sovranista ed indipendentista… non implicava necessariamente la secessione dal Regno»: F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale, pp. 40, 51.^
6 Sono idee comuni di Verfassungsgeschichte; per chi fosse interessato ad un primo approccio, suggerisco il contributo, di raro rigore concettuale di P. Schiera, Stato, in Lessico della politica, a c. di G. Zaccaria, Roma, Edizioni Lavoro, 1987, pp. 623-631.^
7 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale, pp. 35-36.^
8 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale, p. 37.^
99 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale, pp. 39, 51.^
10 Una applicazione consapevole in G. Galasso, Le forme del potere, classi e gerarchie sociali, in Storia d’Italia. I caratteri originali (vol. I), Torino, Einaudi, 1972, pp. 401-599: 439.^
11 Già in studi degli anni Ottanta, che ribadivano la classica distinzione weberiana tra feudi ed offici in direzione della modernità politica. Di recente proporrei G. Vallone, Il Principato di Taranto come feudo in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo” 118 (2016), pp. 291-312.^
12 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale, pp. 48, 51.^
13 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale, p. 51.^
14 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale, p. 48.^
15 P. Grossi L’ordine giuridico medievale (1995) Bari, Laterza, 200612, pp. 48-49 e n. 15.^
16 Una prova che mi riguarda di questa confusione è in F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale p. 47, secondo il quale avrei «riconosciuto» nei feudi orsiniani, e per meglio dire in certe formule in essi usate, una “aria di sovranità” da intendersi, secondo le parole di un mio certo scritto, come «una superioritas maggiormente intensa e differenziale rispetto a quella di altri grandi feudi subordinati»; ne conseguirebbe che anch’io ammetterei o avrei difficoltà a contestare che quelle formule siano «segnali…di..aspirazione alla sovranità». Invece non ho alcuna difficoltà a dire che la mia riduzione di sovranità a superioritas, può essere ritradotta in sovranità, solo se non si capisce, da quanto scrivo, che le due espressioni sono ben diverse, e la superioritas territoriale del feudale, per ampia che sia, non implica alcun disconoscimento, nemmeno formulare, e dunque nemmeno “intenzionale”, della subordinazione al re.^
17 Così, su base schmittiana, e in pubblicazione del ‘Centro di Studi Orsiniani’: G. Vallone, Le terre orsiniane e la costituzione medievale delle terre, in L. Petracca, B. Vetere (eds.), Un Principato territoriale nel Regno di Napoli? Gli Orsini del Balzo principi di Taranto (1399-1463), Roma Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2013, pp. 247-334: 287 (per la citazione), e 286-294, per l’assetto costituzionale.^
18 F. Storti, El buen marinero. Psicologia politica e ideologia monarchica al tempo di Ferdinando I d'Aragona, Roma, Viella, 2014, pp. 38-43.^
19 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale p. 49.^
20 Sulla cd. ‘pace di Bisceglie’ (21 settembre 1462) tramandataci finalmente da un documento milanese ancora da pubblicare, e sull’interpretazione di alcuni suoi capitoli di rilievo “costituzionale”, rinvio a G.Vallone, Le terre orsiniane e la costituzione medievale delle terre, pp. 289-291.^
21 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale p. 40 con la citazione e il rinvio al saggio di B. Vetere. Noto qui un profilo più generale, ma collegato: non so a quale storiografia Somaini rimproveri (pp. 38, 39) «una sorta di teleologia», quella di considerare la sconfitta dei baroni «un esito necessitato» o «inevitabile»; comunque, fermo restando che non è del tutto chiaro – storicamente - come sarebbe stato evitabile un esito inevitato, e a quale storiografia, altra da quella effimera delle intenzioni, potrebbe dar corpo questa evitabilità, perché mai un qualunque storico, da posizioni invece meramente logiche, dovrebbe considerare inevitabile una sconfitta, che i baroni stessi, lottando per la vittoria, credevano evitabile?^
22 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale, p. 40.^
23 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale, pp. 41-42 e n. 29.^
24 S. Reynolds, Feudi e vassalli. Una nuova interpretazione delle fonti medievali (1994), Roma, Jouvence, 2004, pp. 100, 328, 330, 382 e in altri luoghi. E la Reynolds certo non è prima ad aver visto il fenomeno; ad es. G. Vallone Iurisdictio domini. Introduzione a Matteo d’Afflitto ed alla cultura giuridica meridionale tra Quattro e Cinquecento, Lecce, Milella, 1985, pp. 161-173.^
25 A. Padoa Schioppa, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, vol. II, Milano, Giuffrè, 1970, pp. 116-125. Se ne legga un’applicazione lampante, per le terre feudali del Regno, nel commento di Andrea di Isernia alla const. I, 61 Officiorum (ed. Cervone, Napoli 1773, p. 120b).^
26 Charles Loyseau, Discours de l’abus des Iustices des villages in Oeuvres, Lyon, Compagnie des Libraires, 1701 p. 23b e in altri luoghi^
27 G. Vallone, Le terre orsiniane e la costituzione medievale delle terre, p. 294.^
28 C. Massaro, Amministrazione e personale politico nel Principato orsiniano, in G. T. Colesanti (ed.), “Il re cominciò a conoscere che il principe era un altro re”. Il Principato di Taranto e il contesto mediterraneo (sec. XII-XV), Roma Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2014, pp. 139-188: 169.^
29 C. Massaro, Amministrazione e personale politico, p. 168.^
30 G. Vallone, Le terre orsiniane e la costituzione medievale delle terre, p. 319, n. 247.^
31 R. Boutruche, Signoria e feudalesimo (1970), vol. II, Bologna, il Mulino, 1974, pp. 122, 126, n. 26. Qualche integrazione connettiva, per il contesto italico, e sempre per l’alto Medioevo in G. Vallone, Le terre orsiniane e la costituzione medievale delle terre, pp. 258-260 (in particolare alla p. 259 e n.57).^
32 Per il significato di espressioni come «feudo complesso» e «caput» del feudo rinvio a G. Vallone, Istituzioni feudali dell’Italia meridionale tra Medio Evo ed Antico Regime. L’area salentina, Roma, Viella 1999, ad indicem.^
33 Ad esempio da G. Galasso, Le forme del potere, p. 488.^
34 F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale p. 42, n. 29 in fine.^
35 G. Vallone, Le decisiones di Matteo d’Afflitto, in J. H. Baker (ed.), Judicial Records, Law Reports, and the Growth of Case Law, Berlin, Duncker & Humblot, 1989, pp. 143-179: 145, n. 9.^
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