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Il Governo, il Partito Democratico, l’economia italiana: dal referendum del 2016 alla querelle della legge elettorale. (Dal secondo semestre 2016 al primo semestre 2017)
di Massimo Lo Cicero
Sommario e contenuti

In questo articolo cerchiamo di collegare i problemi di medio e lungo periodo dell’economia italiana ed il livello di stabilità al quale, nel breve periodo, andiamo incontro. Il Governo ha elaborato una prima manovra di aggiustamento entro l’estate ma dovrà poi configurare, entro dicembre, i caratteri ed i contenuti della legge di Stabilità.
Questa seconda, ed assai più complessa, elaborazione della politica economica italiana dovrà guidare nel 2018, ed in regime di crescente incertezza, anche una parte della configurazione geopolitica del mondo globale. Nel 2018 dovrebbe scadere, infatti, la legislatura alle nostre spalle ma sembra probabile una interruzione della legislatura ancora prima del dicembre 2017. La probabilità è una conseguenza della mancata elaborazione di una nuova legge elettorale per molti mesi mentre, ora, in poche settimane si dovrebbe varare questa legge e, precipitosamente, allestire una campagna elettorale che dovrebbe esprimersi nella scadenza della legislatura, ed in una competizione elettorale, che dovrebbe concludersi entro settembre: ottenendo un nuovo Parlamento ed un nuovo Governo.
Si tratta di una sequenza abbastanza improbabile sotto il profilo istituzionale e nella prospettiva di un Governo così vicino alla scadenza della legge di Stabilità per il 2018 che, forse, non si potrebbe neanche concludere. Creando un fragile appuntamento, a cavallo tra la fine dell’anno e la scadenza della legislatura nel 2018, che impone una doppia opzione. Assicurare il Governo in atto per realizzare una legge di stabilità che possa far fronte nel breve periodo, perché un Governo successivo, che possa emergere dopo la scadenza della legislatura, possa anche ridefinire e proporre una diversa politica economica, per il 2019,in seguito alla futura configurazione del Parlamento.
Avendo avuto il paese il tempo per chiudere nel 2018 la legislatura e per valutare adeguatamente i contenuti di una campagna elettorale, che si annuncia complessa, anche in ragione di una legge elettorale nuova e troppo vicina alla scadenza naturale della legislatura stessa.
Troncare – ecco la duplice opzione che si potrebbe manifestare – l’esperienza di Governo e sciogliere le Camere, se il Presidente della Repubblica intendesse agire in tal senso, aprendo la strada ad un nuovo Parlamento ed ad un nuovo Governo, che dovrebbero rapidamente definire una legge di stabilità entro poche settimane, e forse anche meno, per costruire la dimensione di medio e lungo periodo che l’economia italiana dovrebbe percorrere nel futuro prossimo. Ovviamente, in questa seconda sequenza di azioni, aumenterebbe l’incertezza, relativa alla difficoltà di sciogliere le Camere e riconfigurare l’impianto istituzionale, ed il tempo ed il contenuto, dell’impianto per la politica economica necessaria, sarebbero più difficili da realizzare. Fermo restando un insieme di problemi ereditati dal passato prossimo, cioè dal 2014 al 2017, ma anche dal passato remoto, l’esplosione della crisi del 2008: alto debito pubblico, riorganizzazione del sistema bancario non ancora compiuta, disoccupazione elevata ed un tasso di crescita ridotto alla metà del tasso di crescita per l’Unione Europea, nel 2017 ed il 2018, che viene indicato con il 2% medio, incluso il tasso dell’uno per cento, che gli indicatori segnalano per l’economia italiana.
Circostanza che si traduce, per le economie europee più robuste, in una maggiore discrepanza: essendo presente nella media generale una varianza molto significativa tra la stessa e la presenza degli indicatori italiani. Sciogliere questi due nodi antitetici non sarà facile.
In questo articolo cerchiamo di valutare le aspettative delle imprese italiane; la natura delle banche e le opinioni recenti della Banca d’Italia, che, nelle considerazioni finali lette da Ignazio Visco il 31 maggio 2017, ha offerto una significativa valutazione della lunga recessione alle nostre spalle ma anche un confronto, tra la grande crisi degli anni trenta e quella precipitata nel 2008, ed una valutazione parallela dell’economia reale italiana: mediante una precisa identificazione del perché la produttività del sistema economico e del pil procapite abbiano rallentato progressivamente una crescita che avrebbe, invece, potuto migliorare lo stato attuale delle cose.
Mario Draghi, infine, ha iniziato una campagna di politica economica che possa andare oltre la politica economica non convenzionale. Ha trovato un collegamento, una sorta di “martingala”, tra il 2013 ed il 2017 che, per ora, ci indica un ritorno alla media originaria del prodotto interno lordo del 2013: l’Unione Europea nel 2017 torna, complessivamente, ai livelli di allora. Come abbiamo già detto questa media contiene anche una certa dose di varianza per alcune nazioni: l’Italia è una di queste ed il sintomo rappresenta un problema, perché l’Italia è la seconda nazione industriale dell’area euro ma molte nazioni nell’ambito dell’area euro, e dell’insieme, del Mediterraneo hanno comunque tassi di crescita più alti di quello italiano.
Mario Draghi ha affiancato a questa circostanza anche la necessità di aumentare la convergenza verso la crescita dell’Unione Europea ed ha spesso indicato come e perché, nel passato alle nostra spalle, da De Gasperi a Guido Carli, i primi venti anni della Repubblica siano stati in crescita ed abbiano configurato quello che si diceva essere il “miracolo economico”1. Il passato non ritorna ma si possono certamente valutare i primi e gli ultimi venti anni della storia economica e politica dell’Italia. Mentre le istituzioni dell’Unione Europea e la BCE pensano oggi in termini di ripresa dell’inflazione, entro il 2% come indica la stessa BCE, e la riduzione della politica monetaria non convenzionale, alla luce del parallelo riallineamento tra il tasso di crescita del pil negli Stati Uniti e nella Unione Europea.
L’incertezza, e le riconfigurazioni geopolitiche del mondo globale, sono, e saranno nei prossimi mesi, il contorno conclusivo di questo nuovo percorso parallelo tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti.



1. L’inflazione e l’economia italiana

Vi ricordate i prezzi del 1959 e quanto valevano poche lire gli oggetti ed i servizi che gli italiani potevano comprare? Perché aumentavano progressivamente i prezzi ma anche i salari e gli stipendi dei lavoratori. E, pochi anni dopo, si cominciò a discutere di politica dei redditi. Oggi, invece, nel 2017 siamo di fronte ad una deflazione microscopica e ad una incertezza crescente per il futuro prossimo.
La comunicazione dei media ci invia messaggi compiuti, fino ad un certo punto, rispetto ai segnali che ci danno, al contrario, le grandezze economiche degli organismi internazionali: secondo Mario Draghi esiste un problema che riguarda l’incertezza ma il grosso dei paesi europei si muove verso una spinta inflattiva. Inferiore al 2% annuo come ricorda e vuole la Banca Centrale Europea.
Ma alcune economie, l’Italia in particolare, ha sperimentato un secondo semestre del 2016 in piena incertezza e, dopo la crisi di Governo, deve rimettere in moto la macchina della crescita2.
Ancora incertezza, dunque, ma anche una strana combinazione tra deflazione, al di sotto dello zero per cento, quindi quasi nulla, ed una strana reticenza delle famiglie e delle imprese a rimanere liquide: per capire dove e come si possa e si debba andare avanti.
Questa deflazione annunciata, ma minimale, allarma le altre economie europee ed aumenta l’incertezza. Quindi dovrebbe essere anche spiegata meglio per tranquillizzare famiglie ed imprese. Che altrimenti aumentano la spinta deflattiva e trattengono la moneta, sia verso i consumi che gli investimenti.La moneta, lo strumento in questione, misura la dimensione dei valori, facilita gli scambi ed è una riserva di valore: è definita dalla sue funzioni, fa quello che fa e non esiste per se stessa. Ogni cosa potrebbe, può, essere usata come moneta.
Di fronte allo strumento si aprono due strade: l’inflazione, quando la moneta aumenta la sua quantità ma lascia ferma la dimensione reale del valore; la deflazione è una leva contraria. Diminuisce la moneta applicata allo scambio e, di conseguenza, il valore economico reale in gioco sul mercato viene ridimensionato. Ma inflazione e deflazione sono solo la media della straordinaria quantità di prezzi che si formano sui mercati.
Guido Carli aggiungeva una terza variante al nesso tra la moneta, le merci ed i servizi: il mutamento dei prezzi relativi tra i prodotti e dei processi di redistribuzione del reddito, associati ai mutamenti in corso.
L’inflazione, o la deflazione, insomma spostano i valori reali dei beni e ne alterano i prezzi: di ogni singolo bene e non certo della media generale dei prezzi che si sono formati sul mercato. Secondo Carli: “nei settori in cui ci sono eccessi di domanda i prezzi monetari tendono ad aumentare più rapidamente di quanto non diminuiscano nei settori in cui si manifestano eccessi di offerta”3.
Quando la somma delle pressioni in moneta sul prodotto nazionale tendono ad eccedere le sue dimensioni, l’inflazione diventa lo strumento che riconduce la somma reale di quelle pressioni entro quelle dimensioni. Un esempio di questa terza definizione dell’inflazione si manifestò all’epoca della conversione in euro rispetto alla lira. Ogni euro valeva allora circa 2000 lire.
Ma oggi si paga un euro per un caffè, duemila lire, e un pranzo da 50 euro uguale a quello che si poteva, prima dell’euro, consumare con centomila lire. Con la somma di 50 euro, dopo l’euro, si compra una pizza, una frittura ed una birra. Considerate che nel 1959 un operaio metalmeccanico poteva comprare, cibo ed alloggio, in una stanza a Rimini in estate per 600 lire. La prima colazione diamola per 60 lire come un decimo della quota di quella giornata. Quanto valgono 3 euro di oggi? Sono un cappuccino ed un cornetto, più una piccola mancia al barista: ma sono anche, se misurate in lire, seimila lire se ci fosse la nostra vecchia moneta di allora. Il cappuccino di oggi vale 10 volte una stanza ed un pranzo nella Rimini del 1959.
Lo scarto tra le grandezze e la qualità delle merci o dei servizi sembra abbastanza rilevante e questi sono gli spostamenti dei prezzi relativi tra merci e servizi.
L’inflazione del 1959 era anche la porta di una nuova epoca che si materializzò in meno di un anno. Moro andava alla segreteria del partito e Fanfani al Governo: nacque il centrosinistra e la combinazione dei due “cavalli di razza” della Democrazia Cristiana proiettò il paese verso la crescita. Naturale, come diceva Carli, che la nascita dello sviluppo si alimentò degli aumenti dei salari e dei redditi grazie alla crescita della domanda ed alla progressiva riorganizzazione dei singoli prezzi per le auto, gli elettrodomestici ed anche le case.
Ma era anche naturale che la coppia dei due “cavalli di razza” aveva la possente certezza di garantire un futuro, con l’apertura ai socialisti, e ci riuscì per tutti gli anni sessanta. L’incertezza, con cui Draghi, deve fare i suoi conti ora è invece molto più elevata: perché la coesione delle forze politiche è diventata davvero troppo inconsistente.



2. Napoli, il Mezzogiorno e l’economia italiana: una parentesi

Mentre si indeboliva la capacità di crescita per l’economia, nel secondo semestre del 2016, si preparava, nel Mezzogiorno e, di riflesso nell’intero paese, la possibilità di riordinare i processi economici e finanziari e trasferire, in questo modo, nuovi segnali di ripresa e di sviluppo sia per il Sud che per il Nord dell’Italia.
Nel 2017 sono ormai cento gli anni, che sono passati a partire dal 1917, e si potrà celebrare la storia dell’associazione degli industriali napoletani, a giugno. Quegli industriali iniziarono e crearono, prima della Confindustria e del Fascismo, una stagione di nuove tecnologie meccaniche ed elettriche ma anche la spinta ad una coesione tra le forze, allora mature, dell’industria napoletana.
Maurizio Capuano, uomo di affari e manager di grandi qualità, aveva sviluppato un insieme di società che gravitavano sulla produzione e la distribuzione dell’elettricità: la energia orizzontale, che alimentava la nuova stagione dell’industria. Dai tram a cavalli alla illuminazione, dalla forze per le macchine industriali alle innovazioni per la struttura delle abitazioni e dei luoghi condivisi, dai teatri agli ospedali ed alle scuole. Lentamente l’elettricità ha trasformato il mondo ed ha spiazzato la forza dell’energia a vapore: industria 2.0 è stata la grande rivoluzione dell’energia elettrica4. Nel mondo ed, allora, anche nell’economia meridionale e nella metropoli moderna ed europea, Napoli, dalla seconda metà dell’Ottocento allo scoppio della seconda guerra mondiale. Capuano era napoletano, ed era capace di attirare talenti, ed infatti ne trovò uno altrettanto capace, Cenzato. Che, nato a Vicenza, e laureato al Politecnico di Milano nel 1904, si affiancò a Maurizio Capuano e ne divenne l’erede: partecipando attivamente ai processi di elettrificazione del Mezzogiorno ed alla creazione del Gruppo Meridionale di Elettricità. Capuano muore nel 1925 mentre Cenzato ne eredita la capacità e la strategia industriale, che trasforma il Mezzogiorno e la urbanizzazione della città di Napoli, esausta dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Nella parentesi tra Capuano e Cenzato, nella leadership tra i due imprenditori, appare un altro gigante: Teodoro Cutolo. Amministratore degli stabilimenti industriali dell’llva e di Torre Annunziata. Nel 1925 Cutolo diventa Presidente dell’Unione Industriali perché era la personalità economica più nota dopo Capuano. E si insedia nei locali di Palazzo Partanna.
Questi tre giganti, dell’energia elettrica e del management, ci ricordano come dalla fine dell’Ottocento alla ricostruzione, ed al miracolo economico, Napoli sia stata una metropoli nella quale arrivavano imprenditori esteri, capitali finanziari internazionali mentre la spinta del commercio e delle industrie ricompensava ampiamente la città rispetto alla perduta capitale politica dei Borboni.
Superato il Fascismo e la guerra, la città cresce rapidamente, e con eccessiva densità, durante il miracolo economico. Alla guida degli imprenditori si affiancano i costruttori dei tracciati urbani e delle grandi infrastrutture: Rivelli, Carola, De Lieto, Brancaccio, Ceriani, Cutolo. Dopo il terremoto dell’Ottanta Enzo Giustino propone il Regno del Possibile: un progetto, incompiuto, per riordinare il tessuto urbano della città di Napoli e ridefinire il perimetro largo di un’area metropolitana e la rigenerazione del Centro Storico. Giustino è l’anello di congiunzione tra le imprese meridionali e la sua visione di un riscatto necessario per il Sud. Ed è anche il primo protagonista napoletano che arriva alla vicepresidenza di Confindustria, alla destra dell’avvocato Agnelli, allora presidente. Ma il progetto di Giustino sul Regno del Possibile non viene realizzato, non riesce a sfondare e la città si ripiega su se stessa e le sue periferie. Dopo il terremoto del 1980 avanza una sequenza di imprenditori che recuperano la dimensione industriale: Paliotto, Salvatore ed Antonio D’Amato, Cola, De Feo, Iavarone, Lettieri e Graziano. Nel 2014 riappare sulla scena un imprenditore che guarda alle trasformazioni urbane e non ai lavori pubblici: Ambrogio Prezioso, la persona che chiuderà il centenario avviato dalle tecnologie di industria 4.0 e cercherà di ridare alla forma della città metropolitana di Napoli una nuova trasformazione5.
Ci sono quattro stagioni singolari in questi cento anni. La forza dell’industria e la capacità di Napoli di sostenere quella forza dal primo Novecento alla fine della guerra. Dalla combinazione tra la rinascita di Napoli e la crisi del terremoto nascono affanni e remore, che la città non riesce a superare: anche quando alla guida di Napoli arrivano forze della sinistra negli enti locali. La nuova stagione porta con se una fascia di imprenditori che torna all’industria ma che non riesce a trovare percorsi cooperativi: filiere di collegamento con le grandi imprese a partecipazione statale, private od in corso di privatizzazione si segmentano in verticale. Sotto di loro si allarga una dimensione di piccole imprese familiari. Ma l’industria si ritira progressivamente da Napoli e dalla sua metropoli, esiste ma non riesce a sostenere i sei milioni di abitanti della regione.
L’industria esiste ma non è sufficiente oggi, nelle circostanze attuali della Campania: la demografia promuove ridondanti volumi di disoccupazione e la prevalenza dei servizi sull’industria relega al lavoro nero, ed alla marginalità, larga parte dell’economia.
Una idea della nuova stagione di un risanamento urbano e di ricerca creativa delle nuove tecnologie sarebbe pronta. Ma servono alcune condizioni, necessarie e sufficienti, per lanciare la scommessa. Rinunciare alla solitudine del comando e riproporre una permeabilità assoluta e circolare tra le imprese: grandi, piccole o medie che siano. Perché insieme si cresce e la scala della crescita allunga ulteriormente la dilatazione dell’economia. Perché le Università hanno capito che unire la conoscenza, alla capacità tacita di lavorare nel mondo imprenditoriale, eccita la conoscenza stessa ed il talento imprenditoriale. I due “draghi alati” che dovrebbero guidare il futuro, accademia ed intuizione imprenditoriale, possono e devono diventare il nuovo motore dell’economia. Perché il nostro paese ha bisogno di collegare il Nord con il Sud, Napoli con Torino, la Campania e la Basilicata con il Piemonte e la Liguria. Allargare la dimensione delle cose da fare apre le strade alla cooperazione ed alla crescita. Restare da soli, e rancorosi in un angolo, è l’inizio di una morte certa.
Questa, insomma, finisce per essere la vicenda di un secolo singolare, il Novecento, che ridimensiona progressivamente negli ultimi dieci anni la questione italiana: economica e politica, simul stabunt aut simul cadent. Ma è anche una scommessa centenaria, di alti e bassi, come abbiamo già detto. Nel 1884 Napoli riuscì a scatenare una epidemia di colera. Ma dal 1885 al 1917, la capitale perduta diventa, invece, una vera e propria metropoli europea: sul confine del rapporto tra il Nord europeo e la sponda Sud del Mediterraneo.
Sono anni in cui si riorganizza la struttura urbana, arrivano industrie meccaniche, la riorganizzazione urbana accende le reti di trasporto, tranviarie, l’illuminazione delle strade, l’elettricità. Capitali esteri vengono impiegati per tutti questi investimenti, la crescita urbana, la cultura e la Belle Époque offrono a Napoli la qualità economica e politica che la riscatta dal regno perduto. Uomini d’affari napoletani, ma anche provenienti dal resto d’Europa, creano, nel 1917 l’associazionismo imprenditoriale con una lunga stagione alle spalle: li guida, come sappiamo, Maurizio Capuano, avvocato ed imprenditore, che è il presidente della Società Meridionale di Elettricità ma è anche la guida di questa società napoletana, che è diventata ricca e cosmopolita. Sta per finire la prima guerra mondiale. Dal 1917 alla fine degli anni Sessanta, nonostante alcuni problemi Napoli regge ancora. Ci sono l’Iri, che aiuta le imprese e le collega allo Stato ma non le statalizza; arrivano fondi dagli Stati Uniti, nasce la Cassa del Mezzogiorno, aiutata dallo stile e dallo schema della Tennessee Valley Authority negli anni Trenta. Nasce una spinta alla riorganizzazione di Napoli. E dopo la seconda guerra mondiale nascono la voglia e la volontà di creare un Piano Regolatore, che possa essere governato dai grand commis istituzionali e dagli imprenditori della metropoli meridionale.
Nel 1959 fa capolino il centrosinistra e poi, subito dopo il miracolo economico. Carli spegne la spinta eccessiva degli investimenti nel 1964: ma Ernesto Mazzetti scrive un libro importante, che parla del casertano come l’area del nord nel Mezzogiorno, viste le fabbriche nazionali ed estere che si contendono la crescita da Salerno a Frosinone. Con gli anni Settanta si spengono gli ardori: crisi energetica e crisi politica si sovrappongono, il terrorismo appare sulla scena. Aldo Moro, che con Amintore Fanfani aveva aperto la porta al centrosinistra, viene assassinato. Negli anni Ottanta esplode la bolla del terremoto in Campania: scompaiono gli ultimi sforzi delle sovvenzioni alle imprese e nasce la slavina di una enorme spesa di Stato, insieme ad un aumento del debito pubblico. Scrive Pierluigi Ciocca nel 2005 che, dopo il 1992, e la crisi fiscale e valutaria del paese, l’economia italiana diventa “languente”: “la peggiore performance della sua economia in periodi di pace dal tempo di Cavour e della Destra Storica”. E continua Ciocca: “Nel 1992 l’IRI fu trasformato in società per azioni e prese avvio la sistematica cessione delle sue imprese. Nel 2000 l’Istituto venne posto in liquidazione, chiusa nel 2002”6. Scompare l’Iri di Beneduce, che lo aveva trasformato in una sorta di efficiente banca di affari non convenzionale: del resto gli innovatori, come Mario Draghi, non possono e non debbono essere convenzionali. Scompare la spinta di Pasquale Saraceno, che cercava di essere l’advisor della politica, mentre la politica si allargava pressantemente verso uno statalismo inutile, che sarà sempre più degradante rispetto al governo dell’economia e della finanza. Carlo Ciampi, negli anni Novanta, ci traghetterà nell’euro ma da quel momento scompare la questione meridionale e nasce una questione settentrionale, che vuole ridurre in due l’Italia. E ci riuscirà all’inizio degli anni Novanta e poi nella stagione dell’euro. Mentre nel Mezzogiorno si cerca di costruire progetti dal basso e valorizzare il territorio meridionale e le sue competenze: ma le forze locali non riescono a raccogliere la necessità di integrare nord e sud per integrare l’Italia in Europa. La crisi del 2008 separa ulteriormente il Sud dal Nord ma anche il Nord dall’Europa del Nord. L’Unione Europea non è un’area monetaria ottimale e si vede, proprio grazie alle forme della crisi che lascia alla deriva i paesi mediterranei mentre la Germania si arrocca sui paesi baltici e su quelli scandinavi. Dalla crisi del 1992, purtroppo, non ci siamo mai più rialzati: anche perché sono scomparsi i partiti e, di conseguenza, è scomparsa anche la politica. E senza la politica, le sue visioni e le sue speranze, non si va da nessuna parte mentre la burocrazia si espande nella molteplice e ridondante macchina frammentata dello Stato: Regioni, province, città metropolitane e comuni. Ma anche altre parti del sistema perdono progressivamente la capacità di fare e la stabilità necessaria per governare il futuro.
Negli anni Ottanta il Sud avanza l’ultimo sussulto: che annega nella slavina dei soldi dello Stato mentre Napoli si incaglia tra i pro ed i contro del “Regno del Possibile”. Nome puntuale ma mai sperimentato sul campo, purtroppo. Perché puoi ambire al possibile ma è sempre più semplice che chi non vuole praticare l’ambizione racconta che è meglio che le cose restino come stanno. Certo è più facile rimandare ed aspettare piuttosto di voler creare una comunità coesa che sappia cosa vuole e come realizzarla.
A Napoli questa strada è stata smarrita dalla comunità degli industriali e degli analisti. Ma Napoli è anche entrata in una spinta dal basso che non aveva né la forza né la strategia di poter diventare la grande metropoli che era stata durante la belle époque. Dunque si è arenata negli anni Novanta, poi dall’euro al 2008 ed, infine, nella melma della crisi che ha sconvolto il Mezzogiorno: dilatando ulteriormente la propria possibilità di ricucire il Sud con il Nord. E l’Italia con l’Europa. Spiegare dopo cento anni questo complesso groviglio diventa difficile. Maurizio Capuano e Francesco Saverio Nitti, nei primi anni del ventesimo secolo, avevano alle spalle l’industria, le reti, il porto, l’elettricità, la cultura e la conoscenza: potevano agire e creare una comunità di imprenditori che, insieme, avrebbero alimentato le forze necessarie coperte dalle loro spalle.
Mentre ora ci sono solo le forze fragili presenti dell’industria napoletana che esiste, ma si è sgonfiata; agisce verso i mercati esteri ma non riesce a sviluppare un mercato interno ed una capacità di spesa adeguata; è circondata dalla spinta del terziario e dei servizi ma è accerchiata da una grande popolazione con molti giovani disoccupati, molte piccole imprese, aziende in bilico, imprese tecnologiche e capaci di agire: per se stesse. Non bastano gli enti locali per allargare questo spettro: non bastano gli sforzi intrapresi negli ultimi quattro anni da parte del Governo. Una lunga deriva negativa ci ha portato in secca. Senza i partiti non esiste la politica ma, se non esiste la politica, non possono funzionare neanche l’economia e la finanza.
Non si tratta di chiedere ancora aiuti allo Stato. Ovviamente: ogni impresa riconduce a se stessa i suoi saperi, e le sue invenzioni, ma non può e non deve allargare troppo il raggio del suo futuro possibile. Deve restare in relazione con l’incertezza diffusa dalla cattiva politica per trovare un nuovo futuro se e quando l’incertezza sarà diradata. Cento anni dopo bisogna convivere con l’incertezza e sperare nel ritorno di una politica di nuovo conio sulla scena.
Capuano nel 1917 camminava su un’autostrada. Nel 2017 bisogna trovare adeguati compagni di strada: l’economia e la politica; le imprese, le banche e le università, un vero mercato del lavoro. Ma questa soluzione non è ancora un’autostrada ed è anche abbastanza ripida per andare avanti. Una parte significativa dell’Italia, e degli Italiani, ha scoperto, grazie al Ministro Calenda, che il cambiamento dei sistemi industriali e finanziari, e la trasformazione dei mercati, sono molto arretrati nel nostro paese, rispetto a quello che succede nel resto del mondo: sia nelle economie avanzate – quelle in cui rientra anche la nostra nazione – che nelle economie emergenti, che crescono a tassi di sviluppo molto più alti delle economie avanzate. La scoperta riguarda Industria 4.0: la quarta rivoluzione industriale, dalla fine del 700 ad oggi. Industria 4.0 nasce in Germania, dopo l’apparizione dell’euro, contrapponendosi alle tecniche dell’economia digitale, sviluppate dagli anni Novanta in poi negli Stati Uniti. Quella che venne chiamata la terza rivoluzione industriale durante il Novecento: quando elettricità, meccanica, elettronica, la meccatronica, cioè una combinazione tra le ultime due, e l’esplosione del mondo digitale avevano sviluppato mercati ed economie avanzate.
In Italia Industria 4.0, nel 2016, è diventata quasi un problema: mettendo al centro la capacità delle tecnologie innovative ed una minaccia profonda per i lavoratori, che verrebbero espulsi in presenza delle nuove tecnologie, proiettate sulla estrema frontiera della conoscenza. La combinazione tra tecnologia e disoccupazione viene considerata una connessione, tra persone che controllano e governano le macchine, mentre le macchine parlano tra loro attraverso linguaggi, guarda la combinazione, impostati e costruiti dalle persone che costruiscono le macchine. Questi sacerdoti “esoterici” dello sviluppo, conservano ed amplificano le proprie capacità mentre i lavoratori, delle economie avanzate si sentono minacciati da un esodo di grandi dimensioni, una sorta di tempesta maltusiana. Ma questa non è affatto la spiegazione giusta di cosa sia Industria 4.0.
Il problema si pone per la incapacità, di una larga parte del ceto politico, ad avviare e gestire una ripresa della crescita dopo la grande crisi mondiale del 2008. Consideriamo un grande settore dei mercati: l’automobile e le sue connessioni, tra vendita delle automobili e filiere frammentate, che producono le parti singolari delle automobili, modificandole alla nascita di nuove tecnologie. L’industria dell’auto ha attraversato sia la seconda che la terza rivoluzione industriale. L’auto è stata gestita con la meccanica, con la elettronica, e con la loro interazione, cioè la meccatronica: ora si accinge alla sfida dell’ibrido, la elettricità, e guarda a traguardi ulteriori per il futuro dei carburanti.
L’industria dell’auto cresce e si rinnova; coloro che progettano e costruiscono le auto sono capaci di adattarle a nuove combinazioni. Mentre i consumatori non hanno alcuna capacità di capire come si costruisca e come si possa riparare un auto. Comunque aumentano le vendite delle auto ed aumenta la capacità professionale di chi progetta e gestisce la costruzione e la manutenzione di un automobile.
Da che mondo è mondo, quando cambiano le tecnologie, aumenta la capacità delle ricorse umane di sviluppare innovazioni ma aumentano anche le risorse umane, che si presentano sul mercato per produrre e vendere le nuove merci ed i nuovi servizi che generano le innovazioni.
Con quali conseguenze? Bisogna aumentare la capacità operativa dei lavoratori; trasferire una cultura più adeguata a quella che le generazioni precedenti hanno coltivato; sviluppare la conoscenza sulla frontiera dell’innovazione, favorendo l’apparire di nuovi strumenti e nuove soluzioni. Nasce, in questo modo, un circuito virtuoso tra famiglie ed imprese: che lega i lavoratori allo sviluppo imprenditoriale ed alimenta, grazie all’aumento dei salari, la capacità di spesa delle famiglie. Questo è il circuito del reddito e della spesa. Ma questo circuito ha bisogno di una espansione parallela rispetto alla tecnologia ed al cambiamento degli strumenti, dei beni e dei servizi, sia per i consumatori che per i lavoratori.Al centro della quarta rivoluzione industriale restano le risorse umane e la loro capacità di espandere il sapere e la conoscenza. Quel sapere genera nuovi strumenti mentre la dimensione cognitiva dei consumatori si allarga sempre di più e richiede non solo tecnologie innovative ma piuttosto utilità e tutele diffuse. Ovviamente senza la crescita tutto questo non potrebbe accadere. Mentre il problema della crescita domina larga parte dell’Europa. Industria 4.0 dovrebbe, proprio in Europa, allargare e tonificare la presenza delle risorse umane del continente.
Gli strumenti necessari per realizzare questo risultato sono grandi investimenti sulle scuole e le università ma anche un incremento della crescita, che possa ridistribuire una parte della ricchezza per ottenere servizi collettivi ed una espansione di beni culturali e beni ambientali.
Le innovazioni della conoscenza e lo sviluppo delle culture sono la nuova ricchezza che Industria 4.0 deve coltivare grazie ad una enorme attenzione alle risorse umane. Da questa sponda si parte per trasformare le relazioni tra le persone e le macchine. Allargando il linguaggio delle persone e la loro comprensione di un mondo più complesso ma anche più facile.
Coltivare questi progetti in occasione del centenario di Confindustria a Napoli ed in Campania sembra una connessione efficace tra la storia che le imprese hanno alle spalle e la capacità che debbano impiegare per attraversare e coltivare terre ancora incognite.



3. Inclusione e Crescita: le parole chiave

Nel mese di maggio ci sono state le tre tappe del G7: a Bari, a Matera, ed in Sicilia, a Taormina. Iniziative e meeting per ospitare i prime sette stati del pianeta ed i loro Governanti sono state organizzate.
Ma, purtroppo, sono rimaste al palo due Regioni importanti del Mezzogiorno: Calabria e Campania. Entrambe si affacciano sulla costa di ponente. La prima è in pessime condizioni, economiche e sociali; la seconda, la Campania, è dissociata al suo interno.
Perché in Campania esistono e resistono imprese industriali ed una ondata di turismo, proveniente dall’estero, che insieme producono risorse monetarie. Grazie alle esportazioni delle imprese industriali ed al trasferimento di spese, da parte dei turisti, che diventano reddito per la popolazione della Campania nella sfera, poco governata, che potrebbe essere ulteriormente allargata grazie a tre ordini di risorse: i beni culturali, la conoscenza e le ricerche delle molte università della regione, l’ambiente naturale che si diffonde sulle coste marine, sulle montagne e nelle zone interne. Se alla torrenziale e disordinata marea del turismo, si affiancassero strumenti adeguati ed un regime organizzativo razionale, questi tre grandi mercati allargherebbero ulteriormente la crescita del turismo ed anche la crescita delle organizzazioni e delle imprese, che dovrebbero produrre e diffondere servizi, creando ricchezza dal lato dell’offerta, per alimentare e vendere sui mercati i beni culturali, la ricerca e la conoscenza, l’ambiente naturale.
Il ministro Pier Carlo Padoan, a Bari, ha proposto una doppia indicazione semantica: inclusione e crescita7.
Da questi due canali dovrebbe partire la spinta che potrebbe riportare allo sviluppo, ed ad una globalizzazione meno frantumata ma molto più correlata tra le economie e gli Stati, verso l’Europa e sulla scena mondiale.
La distribuzione delle due opzioni politiche proposte da Padoan è evidente: includere significa mitigare le disuguaglianze e consentire una redistribuzione di ricchezza che, a sua volta, dovrebbe tradursi in una condivisione di fiducia reciproca tra le persone, capace di allargare la sfida verso il futuro. Redistribuzione è una parola che deve necessariamente essere accompagnata alla crescita: perché la crescita genera la ricchezza e la redistribuzione allarga lo spazio della condivisione e della pace tra i popoli. Bisogna allargare la torta e non accontentarsi di una ripartizione tra le fette della torta, se resta uguale la dimensione della stessa.
La Campania è parzialmente capace di generare la crescita, grazie all’industria ed al turismo, ma viene appesantita da un eccesso di popolazione che non riesce a trovare, neanche all’interno della regione, una strada per includere nel sistema economico, nel mercato legale, una larga parte dei sei milioni di persone che si trovano nella regione. La Calabria presenta problemi molto più difficili da superare. Mettendo insieme Campania e Calabria il problema, ovviamente, si degrada ulteriormente e la soluzione si allontana. Puglia, Basilicata e Sicilia, orientale, sono invece sulla strada potenziale di crescita e di inclusione. Queste tre regioni si possono certamente collegare con la Sicilia occidentale, la Calabria e la Campania: ma resta inutile lo sforzo da intraprendere sulla scia del mercato globale se il Mezzogiorno si divide in due lati, ad ovest ed ad est, piuttosto che a Nord ed a Sud.
Pierre Moscovici è il commissario per gli affari economici e monetari dell’Unione Europea. Ed ha fatto rimbalzare le intuizioni di Padoan su inclusione, crescita e globalizzazione in termini numerici e negativi, per l’Italia, che resta maglia nera per la crescita: sotto lo 0,9% per il 2017, e sopra 1,1% nel 2018. Mentre l’Unione Europe viaggia quasi intorno al 2% nei prossimi due anni. Per certi versi, insomma, l’Italia si assesta da Milano a Bari e da Matera a Taormina: includendo una sorta di connessione economica longitudinale verso l’oriente e verso la grande alleanza ipotizzata dalla Francia e dalla Germania (per fortuna, almeno per ora).
Ma in questo modo si lascia andare alla deriva le dimensioni delle regioni di ponente, da Roma alla Sicilia occidentale, passando per la Campania. Collegandosi anche al nord ovest, seppure meno debole del fronte di ponente verso il Mediterraneo. Siamo in un punto critico dei nostri rapporti dentro il Sud e verso l’Italia e siamo di fronte ad una vera e propria divaricazione dell’Italia rispetto all’Unione Europea. Uscire da queste impasse è molto pericoloso: per la stagione ultraventennale del nostro paese in termini di mancata inclusione ed in termini di mancata crescita. Ma sarebbe ancora più pericoloso immaginare che il Mezzogiorno sia capace di esprimere da solo una qualche politica di inclusione e di crescita, una sorta di colonia autonoma. Nel Mezzogiorno, come abbiamo appena detto, si frantumano anche i confini delle regioni, e le stesse aggregazioni di comunità che, invece di crescere sulla scala della fiducia e sulla consapevolezza che la condizione dei progetti sia migliore della contrapposizione tra coloro che si fronteggiano per annullare i progetti altrui, ripiegano su se stesse e riducono le potenzialità della crescita.
La società meridionale deve conservare i propri valori migliori ma dovrebbe, parallelamente, liquidare le soluzioni in cui si snobba la fiducia in cambio della presunzione o dell’aggressione. Un grande ostacolo è la numerosità di comuni, provincie e regioni che si considerano i perni dello sviluppo pubblico del Mezzogiorno: politica, burocrazia ed, a volte, anche le strutture sociali del Sud considerano il Mezzogiorno un recinto impermeabile. Ma non si può né ci deve essere una colonia se si propone la strada di Padoan e Moscovici: inclusione e redistribuzione, crescita e sviluppo, una nuova dimensione della globalizzazione.
L’Italia, per crescere deve utilizzare la fiducia e la relazione cooperativa con la popolazione e le istituzioni meridionali.
Una nuova unità nazionale potrebbe riuscire a darci una strada per arrivare davvero in una nuova Europa. Guardiamo avanti e lasciamoci indietro un passato che non ci ha dato, nel Sud e dopo molti decenni, ancora niente di nuovo.



4. L’economia italiana e le imprese: la prima volta di Enzo Boccia

Il 31 marzo 2016 il consiglio generale di Confindustria designa Vincenzo Boccia come presidente nazionale della Confindustria; Boccia viene eletto il 25 maggio del 2016. Dunque il 24 maggio del 2017 finisce il primo anno di lavoro del nuovo presidente: in quel giorno Vincenzo Boccia ha esposto i progetti e le opportunità maturati nell’ambito dell’associazione delle imprese italiane. Boccia apre la sua relazione con una indicazione che ha tenuto ferma da quando è diventato presidente: l’Italia è il secondo paese manifatturiero in Europa, ma è anche il settimo nel mondo. Ma il nostro paese dovrebbe essere più consapevole di quanto non sia certo di essere.
Al nostro paese, insomma, Boccia suggerisce di affrontare ed approfondire la cultura industriale e mantenere una forte coerenza nei comportamenti sui mercati e nell’economia nazionale.
Il nostro paese, nella graduatoria dei paesi esportatori, nel 2016 ha toccato un record notevole: 417 miliardi di euro. Orgogliosamente Boccia aggiunge: “Il punto non è dove siamo, ma dove potremmo essere. perché possiamo andare oltre, verso nuovi e più alti traguardi. Ma per farlo non dobbiamo lasciare nessuno indietro. La nostra forza viene dal sentirci parte di una comunità e del nostro agire collettivo”8.
Il terreno nel quale deve giocare l’economia italiana è ampio: noi siamo nell’Unione Europea e dobbiamo anche allargare e promuovere la qualità dei nostri mercati e della nostra economia. Siamo un paese che, grazie all’export ha un avanzo nella bilancia dei pagamenti, come la Germania, che è prima di noi nella graduatoria dell’economia industriale. Ma siamo anche un paese che, nelle vicende economiche della lunga recessione, che dal 2008 ha colpito l’Europa, è riuscito d esportare grazie alla politica monetaria non convenzionale di Mario Draghi: che ha ricondotto in un canale tra 1.040 ed 1.150 euro il valore della nostra moneta rispetto al dollaro americano.
Questo ridimensionamento del valore dell’euro rispetto al dollaro ha consentito alle imprese italiane di allargare il proprio mercato anche fuori dell’Europa e del resto del mondo. Bisognerebbe ricordarsi, invece, che, solo un anno prima della crisi l’euro schizzava anche ad 15,99 sul dollaro americano. Dall’inizio dell’euro ad oggi la media del rapporto tra l’euro ed il dollaro si attesta a 1.218 alla fine del mese di maggio 2017. Siamo un paese capace di agire sui mercati dell’economia industriale ma non siamo ancora capaci di tenere il equilibrio il sistema economico nazionale.
Boccia insiste su alcuni temi che meritano di essere all’attenzione. Abbiamo già detto delle trasformazioni che si muovono grazie agli sviluppi di Industria 4.0: rispetto alla riqualificazione dei lavori e delle competenze ed alla capacità di gestire adeguatamente tecnologie che si riproducono molto rapidamente. Ma dobbiamo considerare che la nostra economia è anche al centro del più grande tra i mercati mondiali. “Con 500 milioni di consumatori e 21 milioni di imprese l’Europa è il mercato più ricco del mondo – dice ancora Vincenzo Boccia – ma potremo difenderlo soltanto se capiamo che la concorrenza non è tra i paesi dell’Unione Europea bensì tra l’Unione ed il resto del mondo e che la questione industriale va messa al centro dell’agenda di politica economica europea ed italiana”9.
Ma Boccia non si mantiene solo nei binari dell’economia e dei mercati. Chiede di ridurre il debito pubblico e di cooperare, con il Governo ed il Parlamento, per aprire una nuova stagione di riforme.
Perché bisogna “rassicurare la comunità internazionale sulla nostra ferma volontà di procedere lungo la strada delle riforme, conquistando così una maggiore libertà nel varare misure per la crescita – dice ancora Boccia – continuare lungo la strada delle riforme significa non solo scriverle e approvarle in Parlamento, ma anche garantire perseveranza e coerenza d’azione e fare sì che i comportamenti si adeguino alle nuove norme. Questa è la sfida del Paese. Per vincerla servono governabilità e stabilità”10.
Le riforme non sono uno strumento facile da maneggiare. Perché le riforme comportano una riorganizzazione delle istituzioni ed una spinta a comportamenti che possano davvero trasformare il contenuto delle riforme stesse, e non solo ridursi alla mera elaborazione di nuove leggi. Le leggi sono necessarie ma il cambiamento dello stato delle cose deve trasformare, rendendole sufficienti, le proiezioni che le riforme devono realizzare perché le cose siano state davvero cambiate.
Il Presidente di Confindustria non nasconde, nella sua relazione, una vocazione verso una legge che si fondi su un approccio maggioritario e sembra diffidare dalla tentazione proporzionalista, che riemerge in Parlamento. E si mostra preoccupato di “una nuova stagione di immobilismo, in un quadro neo corporativo e neo consociativo. Il ritardo accumulato dal nostro Paese su molti fronti è il frutto malato di questo vizio antico. Così come l’insana abitudine agli scambi con la politica”11. Boccia cita anche Guido Carli nella relazione tra imprenditori e lavoratori: “O i due principali soggetti sociali che producono ricchezza, cioè imprenditori e lavoratori, acquistano la consapevolezza che l’organizzazione sociale è un fatto che li riguarda direttamente, oppure il Paese è condannato ad arretrare irrimediabilmente in una condizione sub-coloniale”12.
E si dichiara disponibile a dare inizio a questa stagione.
Qui tracciamo una piccola agenda, che non ha certamente la possibilità di descrivere l’insieme dei contenuti della relazione di Boccia, ma che comunque può essere raccolta sul sito web di Confindustria.
Si tratta di riuscire a condividere un “Patto per la Fabbrica” con le organizzazioni sindacali. Ma serve un innalzamento della produttività.
E da quasi vent’anni in Italia è stato evidenziato che la produttività è ferma nell’intero sistema economico e cresce della metà o meno rispetto agli altri paesi nel settore manifatturiero. Superare questi scogli significa aumentare le retribuzioni con l’aumento della produttività. Ed è possibile solo con una moderna concezione delle relazioni industriali: premi di produttività, da detassare in modo strutturale.
Si tratta di costruire nella società e nell’economia del Mezzogiorno un futuro più adeguato all’integrazione con il Nord e con l’Unione Europea. PIL, export, natalità di impresa ed investimenti, nel Sud, stanno avanzando ma con moderati progressi. Bisogna fare leva sui Fondi strutturali 2014-2020 che da due anni non hanno ancora realizzato una dimensione adeguata degli investimenti che si sarebbero potuti realizzare. Ma il Governo ha anche firmato i patti attuativi dei Masterplan, di cui si occupa con grande attenzione il Ministro Claudio De Vincenti. E questo potrebbe essere l’anno in cui bandi, progetti e finanziamenti dovrebbero decollare.
Si tratta di collegarsi ad un quarto partner, oltre alle imprese, la politica e i sindacati, che giocano un ruolo indispensabile nella partita della crescita. Si tratta delle banche e dei mercati finanziari.
Bisogna ridimensionare il carattere banco centrico dominante e cominciare ad agire in termini di mercati finanziari: quotati e non.
Confindustria intende lavorare con l’Associazione Bancaria per valutare modelli di analisi del merito di credito e modelli di comportamento sui mercati finanziari. Si può crescere senza debito.
Ma servono imprese rafforzate e senza leverage eccessivi o margini di profitto troppo esigui. Uno strumento utile è il Fondo di Garanzia per le Piccole e Medie Imprese. Ma la questione bancaria continua a preoccupare, sia per i bilanci, appesantiti dalle sofferenze, sia per la stretta del credito rispetto ai rigidi parametri di Basilea.
Si tratta, infine, del progetto, nato dalle macerie della seconda guerra mondiale, che sessant’anni fa prendeva inizio a Roma. Dobbiamo essere cittadini europei, di nazionalità italiana, ma dobbiamo ragionare, anche a livello industriale verso i mercati dell’Unione Europea. Le fusioni e acquisizioni tra noi e la Germania, noi e la Francia, noi e la Spagna, sono la prova che nuove imprese e nuovi imprenditori stanno creando un modello di impresa europea.
La dimensione europea è un obiettivo al quale si deve tendere nel medio periodo: la casa comune che abbiamo costruito ha bisogno di forti riparazioni, ma non possiamo abbandonarla per la nostra incapacità di apportare le modifiche necessarie. Dopo l’addio del Regno Unito, abbiamo rischiato di essere travolti. L’elezione di Macron in Francia dimostra, al contrario,che si può e si deve aprire una nuova stagione di rilancio del progetto europeo. Dobbiamo essere consapevoli di scambiare l’impegno ed i sacrifici di oggi per un futuro migliore: per le nostre imprese e per il nostro Paese.
Si tratta anche, tuttavia, di far convergere le imprese italiane verso il più grande salto tecnologico degli ultimi decenni e non possiamo rinunciare a coinvolgere i giovani, che, altrimenti, si allontanano per impiegare altrove le loro capacità. Per questo servono misure non ordinarie, per questo bisogna concentrare le risorse disponibili sull’azzeramento per tre anni del cuneo fiscale nelle imprese che assumono giovani. Per questo che siamo pronti a lavorare per la crescita tra imprenditori, lavoratori e loro rappresentanti, istituzioni finanziarie, università e strutture di ricerca ed, infine, per una politica che sappia riordinare e guidare il nostro paese. Questo insieme di elementi, ed altri ancora che sono presenti nella relazione di Boccia, possono dare un’idea di come e perché questo primo approccio del nuovo Presidente di Confindustria si può configurare come un documento interessante, e capace di essere affidato agli sviluppi futuri del mercato, italiano e mondiale.



5. Le ultime Considerazioni Finali di Ignazio Visco

Secondo Ignazio Visco “Nell’area dell’euro la crescita si va consolidando, sospinta dai consumi e dagli investimenti in beni strumentali. L’aumento del prodotto interno lordo dovrebbe essere prossimo, quest’anno, al 2 per cento, circa il doppio che nel nostro paese. L’inflazione al consumo, quasi nulla dalla fine del 2014, è risalita negli ultimi sei mesi, sostenuta dai rincari dei beni energetici e alimentari. Secondo le previsioni di marzo della Banca centrale europea nella media dell’anno dovrebbe collocarsi all’1,7 per cento, ad appena l’1,1 per cento al netto delle componenti più volatili.
Per l’Italia i corrispondenti valori sarebbero di poco inferiori all’1,5 e all’1 per cento. L’attività economica e l’inflazione beneficiano dell’orientamento fortemente espansivo della politica monetaria; le politiche di bilancio sono complessivamente neutrali. Le misure che nel Consiglio direttivo della BCE abbiamo deciso di adottare dalla metà del 2014 hanno contrastato con successo i rischi di una spirale deflazionistica; dati gli alti livelli di indebitamento, pubblico e privato, essa avrebbe provocato gravi effetti depressivi sull’economia dell’intera area. Da marzo dello scorso anno, quando è stato rafforzato il programma di acquisto di titoli, la probabilità di deflazione desunta dalle quotazioni delle opzioni scambiate sui mercati, che aveva superato il 30 per cento all’inizio del 2015, si è gradualmente ridotta, fino a quasi annullarsi. Si è arrestata la tendenza al ribasso delle aspettative di inflazione a medio e a lungo termine. L’obiettivo di stabilità dei prezzi nell’area dell’euro – un aumento prossimo al 2 per cento annuo da mantenersi in modo durevole in un orizzonte di medioperiodo – non è ancora raggiunto”13.
Il Governatore ha ricapitolato l’intero ciclo della sua gestione.
Ricapitoliamo alcune delle sue descrizioni.
L’economia italiana viene frenata dalla disoccupazione e da una crescita fiacca dei salari, anche dove le condizioni sono migliori sui mercati del lavoro14. Restano deboli la domanda di credito e l’offerta da parte delle banche: perché l’incertezza scoraggia i progetti di investimento delle imprese ma anche il rifiuto del rischio da parte delle banche, per la fascia di imprese nelle quali sono eccessive le dimensioni dei leverage oppure sono troppo bassi i margini di profitto atteso. I tassi di interesse a lungo termine sono molto bassi grazie alla politica monetaria della BCE.
La politica monetaria, tuttavia, non può garantire il ritorno alla crescita stabile ed occorre costruire progetti di riforma per alleggerire la numerosità delle leggi, spesso contraddittorie, e la ridondanza delle procedure e l’assenza di una responsabilità personale nelle risorse di management pubblico e di quello privato.
Bisogna ridimensionare molto la spesa pubblica e rafforzare i progetti infrastrutturali che alimentano energia, autostrade, ferrovie, telecomunicazioni. Sia perché i progetti eseguiti alimentano il circuito del reddito nel breve periodo ed anche perché i servizi erogati dalle nuove infrastrutture realizzate alimentano sia il reddito dei lavoratori che la spinta dei consumatori grazie all’aumento della crescita. L’espansione dell’economia è ancora debole ma il ciclo dei settori si sta espandendo nella maggior parte dei settori industriali e forse anche nei servizi. L’edilizia non residenziale affanna anche in ragione della modesta dinamica degli investimenti pubblici rispetto alla spesa pubblica corrente.
Migliorano le esportazioni e si profila un incremento contenuto della spesa delle famiglie con prospettive di reddito; esiste, insomma, una potenziale ripresa degli investimenti privati. Le regioni meridionali, in questi casi, sono molto meno osservate per sviluppare progetti rispetto agli sviluppi del Nord. Il ritardo rispetto al resto del Paese rimane superiore al 40 per cento, in termini di prodotto pro capite. La crescita futura in Italia dovrebbe ricomporre uno sviluppo equilibrato e rimuovere gli ostacoli, istituzionali e finanziari, che frenano le potenziali realizzazioni del Mezzogiorno.
L’alto livello del debito pubblico rappresenta una vulnerabilità ed un freno per l’economia. Accresce i costi degli investimenti produttivi del settore privato; induce forme di tassazione distorsiva, con effetti negativi sulla capacità di reddito; alimenta l’incertezza; riduce i margini per le politiche di stabilizzazione.
Si può contribuire a rafforzare la crescita economica dando spazio agli investimenti pubblici, riconsiderando agevolazioni ed esenzioni fiscali, proseguendo nell’azione di contrasto all’evasione.
Un impegno costante, nel controllo dei conti pubblici, è la condizione per ridurre il rapporto tra debito e prodotto in un contesto di ritorno stabile alla crescita. Potrebbero derivarne effetti positivi sul clima di fiducia, l’attività economica e la spesa per interessi.
Resta aperta l’esigenza di riportare anche il sistema bancario alla stabilità della sua presenza ed alla ricomposizione delle strutture patrimoniali che sono abbastanza divergenti da banca a banca. In aggiunta bisogna trovare una soluzione ai crediti deteriorati sia per offrire, come spiega Visco la questione, sia per trovare nuove soluzioni tecniche e nuovi strumenti per collegare questi crediti deteriorati alla ripresa della crescita economica15.
Ignazio Visco ha anche proposto alcune slide che rappresentano i caratteri dell’economia italiana rispetto al resto del mondo negli anni che vanno dal ventesimo al ventunesimo secolo.
Secondo i maggiori mondiali centri di analisi economica ci troviamo, dal 2012 al 2019, con un profilo della crescita del pil che si muove leggermente al di sopra del 3%. L’area dell’euro parte da -1%, raggiunge il 2015 e si pone leggermente al di sotto del 2%. L’Italia emula la linea precedente dell’area dell’euro: parte da -3%, arriva al 2015 e si stabilizza intorno all’uno per cento fino al 2019.
In parallelo con il pil viene mostrata una slide che indica il tasso di inflazione.
Anche in questo caso il mondo parte dal 4%, cade fino al 3% nel 2016 ma si solleva, di poco, rispetto al 3% fino al 2019. L’Italia nel 2012 si trova poco sopra il 3%, in termini di tasso di inflazione. Cade fino al 2015 fino a 0 si riprende arrivando dal 2017 al 2019 poco sotto il 2%. Il medesimo percorso si vede nell’area dell’euro ma, in questo caso, la linea dell’area dell’euro si allinea poco sotto la linea dell’Italia.
Queste sono le prime due slide del documento allegato alla relazione.
La slide numero 4 espone un confronto relativo all’economia italiana: descrivendo la dinamica economica del pil nella grande depressione (1929/1938) e nella grande recessione (2007/2016). Nella grande depressione, partendo dal valore di 100 del pil procapite si cade per sei anni fino alla quota 90 e si rimbalza, con un profilo a sega, tra il settimo e l’ottavo anno, dove il secondo è quello che ricade circa a quota 90 per rimbalzare, infine, al decimo anno, il 1938, poco sopra il valore di 102. La crisi era stata superata! Se si osserva la grande recessione lo schema è molto diverso. Partendo dal 2007 il pil pro capite scende fino al settimo anno, arrivando a quota 88 rispetto al 100 iniziale. Ma resta quasi orizzontale la sequenza dei due anni successivi, che riportano il 2016 a quota 90. Dopo dieci anni non siamo usciti dalla crisi e, di conseguenza, dobbiamo rimontare accelerando, ma non abbiamo ancora elementi adeguati per alimentare la crescita del pil procapite.
La slide numero 7 è molto inquietante, perché si riferisce al tasso di disoccupazione nell’area dell’euro ed in Italia. L’arco temporale è, ancora una volta, il 2007 rispetto al 2017. L’area dell’euro, esclusa l’Italia, nel 2007 aveva un tasso di disoccupazione poco sopra l’8%. Questo tasso scende al 7,5% fino al 2009 e poi rimbalza, quasi all’11% tra il 2010 ef il 2011. La crisi si sviluppa in parallelo tra le dinamiche della disoccupazione e quelle delle grandezze economiche: debito pubblico e banche. Nel 2013 il tasso di disoccupazione sale oltre il 12% ma, da quel momento, ricade tra il 2016 ed il 2017 con una dimensione del 9,5%. Anche in questo caso siamo tornati al 2009.
Guardiamo il percorso del tasso di disoccupazione in Italia.
Nel 2007 si parte del 6%. E si cresce, fino al 2010, ad 8,5%. Si scende all’8% tra il 2011 ed il 2012. Si arriva nel 2014 a quasi il 13%, superando la linea dell’area euro, e poi si ricade fino al 2016/2017 per stabilizzarsi a tra 11% e 12%. Ma siamo comunque sopra la linea dell’area euro. Il nostro tasso di disoccupazione è più alto di quello dell’area euro, al netto dei dati italiani.
Ed ecco l’ultima slide, la numero 8. Siamo in presenza di uno scenario molto interessante. Si parte dalla unità di Italia e dall’età giolittiana. Si continua con il primo dopoguerra, la grande depressione ed il secondo dopoguerra. Il pil pro capite diventa il 5,5% dal 1861 alla fine del secondo dopoguerra (1973); con una caduta, ovviamente, nel periodo della grande depressione, ma il pil procapite non arriva sotto lo zero. La produttività, al contrario del pil, cresce più lentamente: dal 1861 al secondo dopoguerra (1973) arriva a 3,5% ma cade sotto lo zero durante la grande depressione. Seguono il pre ed il post trattato di Maastricht; e si continua con la grande recessione e la ripresa (2013/2016). La produttività crolla dal 3,5% del 1973 al 2007 (post trattato di Maastricht). La grande recessione spinge al quasi 1% la produttività fino al 2013. La produttività sale sopra lo 0,2% tra il 2013 ed il 2016. Dal 1973 al 2016 anche il pil pro capite si comporta come la produttività. Era arrivato al 5,5% nel 1973 ma scende prima poco sopra 15 al 2007. Crolla nella grande recessione a -2% del pil pro capite. Rimbalza fino a 0,65 nella ripresa (2013/2016).
Pil pro capite e produttività sono correlati ed il primo supera comunque la seconda. Ma il vero problema dell’economia italiana si spiega molto bene: sia nella crescita del pil pro capite mentre la produttività cresce meno del primo indicatore. Ma poi la produttività precipita al di sotto del pil pro capite che, comunque, precipita meno ma sempre in caduta dal 1973 al 2016.
Ne segue che la caduta della produttività è una forza che impedisce la crescita potenziale di un paese che ha capacità, esperienza e risorse umane. Ma non ha un sistema politico adeguato alle sfide del mondo globale, non ha un sistema istituzionale ed una burocrazia efficace, ha una difficile capacità, di cooperare e competere, per allargare lo spazio dell’economia e dei mercati. Riesce a creare, in alcuni settori ed in alcuni e particolari sistemi di produzione, una crescita della ricchezza.
Ma presenta anche un basso tasso di crescita ed una divaricazione dei redditi e dei patrimoni che si allarga in maniera preoccupante16.
Definita questa dimensione macroeconomica si può aggiungere anche una ulteriore dimensione di lungo e medio periodo che ha accompagnato l’economia italiana. Anna Giunta è una professoressa di economia mentre Salvatore Rossi è un economista che ha percorso l’intera carriera nella banca d’Italia e ne è diventato il Direttore Generale. Insieme hanno scritto un libro intrigante e non convenzionale. Pubblicato da Laterza17.Il libro racconta l’ascesa ed il declino, dal Rinascimento alla lunga e snervante stagnazione che arriva dal 2008 ai nostri giorni sulla scena mondiale, ed in particolare sull’Europa ed il nostro paese. Che è stremato davvero: anche perché il declino, come si dice impropriamente, parte dalla crisi energetica degli anni Settanta e si conferma ancora rigorosamente stagnante dalla seconda metà degli anni Novanta. Ma non si tratta di una caduta libera. Piuttosto i due autori fanno emergere una sequenza di tre processi che divaricano le forme dell’economia mondiale: le economie emergenti e quelle avanzate, che si aggregano nelle catene frammentate della globalizzazione; la ricorrente forza dell’economia americana che si batte, fino ad ora vincendo, sulla economia renana, Stati Uniti vs Unione Europea; la fragilità e la distanza che allontana l’Italia dall’Europa, una brutta prospettiva, perché l’Italia, come dicono giustamente Rossi e Giunta, non è la Grecia. Tuttavia, proprio perché non è la Grecia, ma è stata per secoli una grande nazione ed una robusta economia, l’Italia determinerebbe, con il suo collasso eventuale, un danno ancora più grande di quello che ha subito e sta ancora subendo la Grecia.
Il libro è molto interessante, grazie al metodo con cui si propongono argomenti e ragionamenti ai lettori: partendo dalla storia e dalle trasformazioni che hanno cambiato la forma e la natura dell’economia italiana. Si arriva ad una singolare descrizione proprio nelle ultime pagine: “il volto dell’Italia è bello, sorridente, ma un po’ fané, un po’ flaccido … A questi interrogativi ha cercato di rispondere questo libro con analisi, fatti, dati. Metodi da economisti, quindi i più rigorosi possibili, ma usati alla fine per rispondere ad una domanda che trascende l’economia: perché il nostro paese si è come ripiegato su se stesso da un quarto di secolo e che prospettive ci sono di rimetterlo in carreggiata?”. Analisi, fatti e dati sono descritti nel libro, senza retorica ridondante o bramosie econometriche. I numeri indicano gli effetti delle trasformazioni che abbiamo subito, dal nostro Novecento alle terre incognite del mercato globale. Il paese ha certamente perso importanti occasioni avanzando nella sua strada. Dalla crisi degli anni trenta la strategia di Beneduce, e la creazione dell’IRI, hanno riportato, finita la seconda guerra mondiale, l’economia italiana ad una competizione che guidava le grandi imprese, in partnership tra pubblico e privato, e trascinava, dietro di sé, una marea di piccole e medie aziende. Gli anni Settanta, e la crisi dell’energia, generano un trauma: di duplice natura. L’IRI diventa sempre più una burocrazia politicamente incapace, e troppo ridondante nel voler guidare l’economia attraverso lo Stato, peraltro sempre più fiacco nella sua capacità di partecipare al successo delle grandi imprese italiane. Tramonta, quindi, la macchina dello Stato imprenditore e nascono i “calabroni”, che non hanno le ali ma spiccano il volo nel cerchio dei distretti territoriali. Sono le medie imprese che, spesso e purtroppo, non reggono le trasformazioni che avanzano nel mercato globale: la progressiva scomparsa del comunismo, la nascita di un mercato che si espande e che cede il passo dal Fordismo alle fragmented chains.
È precisa la descrizione di come la macchina verticale, delle grandi imprese tradizionali, si consumi tra le due guerre, nella dimensione di scala, e nella concentrazione di tecnologie e risorse umane per governarle. Ma, spiegano Rossi e Giunta che “la mano invisibile del mercato lascia il posto alla mano invisibile della gerarchia".
In altre parole l’impresa esiste, secondo Ronald Coase18, perché i costi complessivi (di produzione e di coordinamento interno) risultano più bassi di quelli che sopporterebbero se si affidassero al mercato.
La teoria neoistituzionalista, insomma, propone una nuova lettura dei fatti aziendali: più realista e più profonda. Negli anni Cinquanta anche l’Italia si aggiunge, tardi, alla dimensione di scala ed alla grande impresa. Ma, come abbiamo già detto, negli anni Settanta esplode l’inizio della fine per l’età dell’oro per il primo capitalismo. Decade progressivamente l’IRI, crescono i “calabroni” ma non spuntano né nuovi grandi capitani d’impresa né strategie per accelerare la dimensione dei mercati finanziari e ridurre la dimensione monopolistica del controllo delle banche rispetto alle imprese.
Si chiudono due lame della forbice: l’espansione delle tecniche economiche della cultura anglosassone ed americana; il progressivo deterioramento della forza adeguata nelle politiche nazionali e degli Stati nazione. Il mondo cambia e diventa un mercato nel quale si possono incontrare catene frammentate e grandissimi attori di scala mondiale. Ma sono i grandi poli della comunicazione, e delle relazioni di rete, l’effetto conclusivo dell’avvento assoluto del digitale.
Una dimensione orizzontale della tecnologia che si collega a quella del primo Novecento: l’elettricità, che aveva la medesima vocazione orizzontale. Questa connessione è la nuova modernizzazione americana mentre la gran parte, settentrionale, dell’Unione Europea si arrocca sulla dimensione renana. Questo non è l’ennesimo scontro tra banche e mercati finanziari: è la scena attuale dove si fronteggiano le economie avanzate e quelle emergenti. E le emergenti si accodano al modello americano e non certo a quello renano.
L’Italia oggi non è ancora in grado di ritrovare ragioni e strumenti, economici e politici, per tornare sulla scena del mercato mondiale.
La diffusione di innovazione è la chiave per la crescita della produttività nell’area dell’euro come in quella del resto del mondo: lo ha detto Mario Draghi in una conferenza congiunta tra Banca centrale Europea ed il Massachusetts Institute of Technology, MIT. Laseconda stagione sarà l’incontro tra economie emergenti ed economie avanzate. L’Italia dovrebbe adeguare le sue istituzioni, e la sua economia, ai modi ed ai termini in cui si svilupperà questa seconda stagione. Lo dicono, senza retorica, Rossi e Giunta nell’epilogo del loro volume: ma lo dicono proprio “per scongiurare il declino storico della nazione”. Leggere questo libro di Giunta e Rossi può essere molto utile ed interessante, in questo anno che nasce dall’incertezza e potrebbe anche allargare la dimensione della stessa incertezza: grazie alla complessità del rapporto che si sta creando tra la probabile caduta della legislatura e gli eventuali contraccolpi che ne deriverebbero, in termini di incertezza, se questa opzione dovesse prevalere sulla molto più ragionevole indicazione della chiusura della legislatura nel 2018.



6. I problemi e le strategie indicate da Mario Draghi

Mario Draghi ha utilizzato fino in fondo gli strumenti di cui poteva e doveva disporre dopo la crisi ed il suo ingresso nella BCE: il controllo della dinamica, positiva o negativa, dei prezzi; la politica monetaria ed i suoi effetti sui comportamenti delle banche, che devono concedere credito alle imprese e sottoscrivere titoli del debito pubblico, in adeguate proporzioni. I problemi che Draghi ha affrontato sono tre: gestire la relazione tra merci, moneta e prezzi; supportare con la politica monetaria una potenziale espansione del credito da parte delle banche, riducendo i tassi e rendendo liquido il sistema bancario; agire con coerenza sugli sviluppi dei programmi che aveva annunciato.
Ha messo la sua faccia sulla opzione di una espansione che avrebbe dovuto ribaltare la crisi ed ha fatto quello che aveva detto di saper fare, con grande tempestività. Partiva, nel suo incarico, sul punto limite di una pericolosa rottura: quello nel quale la deflazione diventa recessione e l’economia si avvita su se stessa.
L’inflazione è una crescita generale dei prezzi e la deflazione è una caduta generale dei prezzi. Ma le merci sono molte ed ognuna di esse ha un prezzo. Nella deflazione, come nell’inflazione, non tutti i prezzi si modificano al medesimo ritmo. Quindi si modificano i prezzi relativi delle merci: se aumentano le tariffe sui servizi, diminuiscono i prezzi degli alimentari ed aumentano le tasse; si riduce il reddito delle persone e c’è un modifica della struttura relativa dei prezzi.
Le famiglie, vista la pressione fiscale e la crescita delle tariffe sui servizi, comprano alimentari e pagano l’affitto, quando ci riescono. Anche fossero fermi i prezzi dell’abbigliamento,o si riducessero meno degli alimentari, non ci sarebbe capacità di spesa per insufficienza del redditi falciati dalle tasse. Dopo uno scenario, di prolungata mancata inflazione, serve una spinta per rimettere in moto la relazione tra redditi e spese delle famiglie. Si deve riprendere la domanda effettiva, le scorte si assottigliano, grazie alla ripresa dei consumi, e le imprese riprendono a produrre: a condizione che le banche possano finanziare nuovi investimenti.
Draghi ha ridotto ulteriormente i tassi di interesse, portandoli ad un livello prossimo allo zero e, nel caso estremo, sotto lo zero: se le banche, alle quali la BCE concedeva mezzi monetari, non utilizzavano quei flussi per finanziare le imprese, le banche dovevano pagare un tasso di interesse, una penalità, alla BCE per non aver creato credito con i mezzi ricevuti dalla banca centrale. La scelta di Draghi per una possente espansione della politica monetaria, attraverso i tassi ridotti e la creazione di strumenti non convenzionali per rendere liquido il mercato bancario, è stata necessaria per supportare la crescita ma non è stata sempre sufficiente. Nella circostanza di un progressivo ritorno alla dimensione dei mercati, reali e finanziari, dal 2013 ad oggi, serve anche una “scossa” che riaccenda la fiducia nelle imprese, e crei nuovi progetti di investimento, ma serve anche una riconversione radicale dei bilanci pubblici: tagli alla spesa corrente, tagli alle tasse, avvio di progetti infrastrutturali, che riducano la produttività media del sistema europeo, diventando una sponda ulteriore della domanda effettiva per le imprese. Nel suo discorso a Jackson Hole del 22 agosto19, Draghi aveva individuato un sentiero stretto che i Governi dell’Unione Europea dovevano, ed avrebbero dovuto praticare: trasformare la politica fiscale riducendo spese correnti e tasse; riqualificare la politica degli investimenti pubblici utilizzando anche la Banca Europea degli Investimenti ed i Fondi Europei, conferiti dagli Stati, per creare nuove infrastrutture. Questo discorso è stato considerato una svolta, una pietra miliare come il “whatever it takes”, l’annuncio di riforme strutturali, uso della leva fiscale aggregata per rilanciare la domanda e uso della leva monetaria tramite Credito e Quantitative Easing. Draghi ha frammentato tre tabù contemporaneamente.
Ha basato il suo ragionamento non convenzionale utilizzando una nozione eterodossa di politica economica promiscua, o non convenzionale, che combina insieme misure monetarie e fiscali.
Ha parlato di una posizione fiscale aggregata a livello di eurozona e non solo alla situazione paese per paese, Stato per Stato, mercato nazionale. Ha descritto che aver impedito alla BCE di agire come “lender of last resort” ha generato un alto prezzo – ha reso i governi vulnerabili e ridotto il loro spazio di manovra fiscale – contraddicendo il principio che la banca centrale non debba supportare i governi. Insomma, la politica fiscale dei Governi debba collocarsi in parallelo con la politica monetaria della BCE.
La politica monetaria ha un indirizzo strategico, si muove lungo una prospettiva di lungo termine (forward guidance). Nel dibattito mondiale questa prospettiva strategica viene contesa da due metafore: Apollo ed Ulisse. La prospettiva Omerica (Ulisse) definisce un percorso ma chi lo ha progettato si impegna a realizzarlo. Questo è il caso di Draghi. La prospettiva delfica (Apollo) indica quello che potrebbe essere il futuro ma è molto meno vincolante e stringente per colui che ne ha descritto lo scenario potenziale20. Questo potrebbe essere il caso delle agenzie di rating, che spiegano come credano che debba andare il futuro delle organizzazioni che osservano!
Draghi ha assicurato all’Unione Europea una strada possibile per avviare la ripresa della crescita e sostiene con la sua organizzazione, ed il suo carattere, questa strada. Ma Draghi ha anche voluto una sorta di moral suasion, scegliere politiche fiscali più idonee ed incisive e ridurre gli attriti ed i limiti degli apparati pubblici degli Stati: le mitiche riforme del mercato del lavoro e del mercato dei capitali, oltre che della pubblica amministrazione.
Alleggerendo attriti e limiti, avviando una ripresa degli investimenti supportata dalla politica monetaria, la occupazione si deve espandere, grazie ai crescenti investimenti, e la disoccupazione, per converso ridursi. Mario Draghi rappresenta oggi, quindi, un delicato pilastro per lo sviluppo della crescita europea: dato che sostiene l’impianto della politica monetaria, che ha progettato e sta realizzando, nonostante alcuni dei componenti del suo consiglio direttivo avrebbero fatto meno di quanto sia accaduto ed altri avrebbero fatto più di quanto sia accaduto. Ma anche perché spende la sua capacità di persuasione morale agli attori del sistema (politico, imprenditoriale e finanziario) per ottenere le condizioni di un concerto che sia davvero capace di riattivare la crescita nel vecchio continente. E di mantenere i legami tra Europa e Stati Uniti perché, abbandonati ciascuno dei due per la sua strada, l’Occidente inizierebbe a disperdersi.
Mario Draghi riporta in alcune delle sue analisi una sorta di recupero e di riproposizione di una economia liberale che utilizzava adeguatamente le sue opzioni di politica economica.
In primo luogo come ottenere una forma di governo maggioritaria.
“Già pochi anni dopo la sua morte improvvisa, nel giugno del 1861, Cavour iniziò a rappresentare un riferimento nel dibattito in atto nel paese, vuoi come nostalgia per un’Italia che avrebbe potuto essere e che senza di lui non fu, vuoi in termini critici, come una delle cause della nascita di un’Italia unita sulle ceneri di una possibile rivoluzione democratica. Ancora pochi anni fa, il “connubio” cavouriano è stato indicato come segno originario di una difficoltà strutturale del paese a convivere con una competizione politica fra schieramenti contrapposti nel quadro dell’alternanza al governo, se non addirittura come matrice primigenia di un segno trasformistico ricorrente nella storia italiana.
Specialmente quando la situazione è di diffusa instabilità, sia a livello nazionale, sia sul piano internazionale, è necessaria una conduzione che mantenga saldamente il potere di iniziativa politica. Ma essa guarda alla partecipazione di altre forze politiche e di altri governi come momenti di forza e non di sterile condivisione del potere.
Cavour agì in un contesto europeo improvvisamente destabilizzato dalle rivoluzioni del 1848 che avevano scardinato gli equilibri di potere definiti dal Congresso di Vienna dopo la caduta dell’impero napoleonico. Fu un periodo di turbolenta transizione, in cui per i protagonisti della politica europea si aprivano grandi opportunità congiunte a grandi rischi. Oggi siamo nuovamente in una fase storica in cui l’Europa è in movimento, dopo il dissolvimento del blocco sovietico, la riunificazione della Germania, gli effetti della crisi dei debiti sovrani nell’area dell’euro, l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, le tensioni geopolitiche nell’Europa dell’Est. In termini diversi, oggi come allora potremmo dire che si è alla ricerca di una nuova stabilità”21. Nelle condizioni attuali del mondo globale la prospettiva di queste condizioni si può riconoscere nel presente. Draghi infatti conclude che “Un Paese che ha bisogno dell’Europa per conquistare la propria indipendenza e la propria unità a cui anelava da secoli senza successo, continuerà ad averne bisogno per affrontare le sfide che si porranno nel corso della sua esistenza. Ma a Cavour fu sempre chiaro che il rapporto con l’Europa sarebbe stato fertile se il Paese avesse appreso a progredire e a crescere anche da solo. Altrimenti, la sua stessa indipendenza sarebbe stata compromessa. Allora, come oggi, il rapporto con l’Europa era fondato sulla solidarietà derivante dal mutuo beneficio e sulla responsabilità degli Stati nazionali indipendenti. In un contesto pur così diverso come quello attuale, la sua ispirazione, la sua maestria nel tenere conto con ambizioso realismo degli interessi delle forze in campo, la sua capacità di tenere unite le forze interne ed esterne al paese necessarie al conseguimento del proprio progetto, in definitiva il suo straordinario successo, sono, specialmente in questi giorni ricchi di richiami a cupi passati, una irresistibile fonte di ispirazione per chiunque, non solo in Italia, veda nella collaborazione internazionale l’unico modo di governare problemi che gli Stati nazionali non riescono ormai da molto tempo a risolvere da soli”.
Mario Draghi ha affiancato altri tre grandi personalità a quella di Cavour: Alcide De Gasperi, Tommaso Padoa-Schioppa, Robert Marjolin22. Ma ha anche individuato, in due casi, la necessità di dare una struttura adeguata alle tecniche ed alle relazioni tra gli strumenti e gli obiettivi che si possano utilizzare attraverso la politica monetaria23.
Draghi ha individuato la gestione di una politica economica che si avvicina progressivamente ad una più stretta identificazione politica dell’Unione Europea: una ispirazione per chiunque veda nella collaborazione internazionale l’unico modo di governare problemi che gli Stati nazionali non riescono ormai da molto tempo a risolvere da soli; concentrarsi sugli interventi che portano risultati tangibili e immediatamente riconoscibili; portare a termine le iniziative già in corso, perché fermarsi a metà del cammino è la scelta più pericolosa; un mercato unico può restare a lungo libero ed equo solo se tutti i soggetti che vi partecipano sottostanno alle stesse leggi e regole e hanno accesso a sistemi giudiziari che le applichino in maniera uniforme, non si tratta di anarchia, ma di una costruzione politica, che richiede istituzioni comuni in grado di preservare la libertà e l’equità fra i suoi membri; se e quando avvieremo nuovi progetti comuni in Europa, dovranno obbedire agli stessi criteri che hanno reso possibile il successo degli anni alle nostre spalle.
Ed infine bisogna riconoscere gli strumenti e gli obiettivi che allargano le possibilità della politica monetaria non convenzionale: le determinanti dell’inflazione; gli effetti di propagazione della politica monetaria; l’allineamento tra le politiche; non dobbiamo pensare alla composizione delle politiche, entro i confini delle nostre giurisdizioni, ma alla composizione globale che può massimizzare gli effetti della politica monetaria; con il tempo, la nostra esperienza in materia di strumenti non convenzionali colmerà la restante lacuna di conoscenze; nel frattempo le banche centrali devono dimostrare che non vi è discontinuità quando i tassi di interesse raggiungono lo zero, le misure non convenzionali possono essere tanto efficaci quanto quelle convenzionali. La politica monetaria convenzionale agisce orientando i tassi di interesse reali del mercato monetario verso livelli inferiori al tasso reale di equilibrio e questo a sua volta stimola la domanda e l’inflazione; gli strumenti non convenzionali possono tuttavia essere ancora efficaci in tali condizioni.
Siamo ormai oltre le terre incognite che Mario Draghi aveva annunciato: siamo di fronte ad un’architettura dove esiste la possibilità di governare la crescita oltre la soglia della recessione, che l’Unione Europea ha superato alle nostre spalle. L’Italia ha bisogno di accelerare la crescita attraverso una maggiore produttività, una relazione tra tecnologie e capacità di aumentare la dimensione della conoscenza delle relazioni tra strutture e funzioni nelle imprese, un riordino delle istituzioni parlamentari ed una maggiore capacità di governare i processi economici e sociali.
Riportare l’Italia ai medesimi traguardi dell’Unione Europea è la sfida che il paese deve accettare: per entrare davvero in un mondo globale che possa ridurre le sue incertezze ed adeguarsi ad una crescita che potrebbe essere la leva per una redistribuzione della ricchezza. Questa potrebbe essere una prospettiva di medio e lungo periodo.
Nel contesto dello scenario in essere, in questo momento, convivono tre direttrici nell’ambito dell’Unione Europea e dei suoi rapporti con il resto del mondo. Marcon e Merkel vengono considerati, negli ambienti europei ed internazionali, come i due paladini che possano governare le dinamiche future dell’Unione Europea. Un diverso approccio di questo progetto è stato proposto dal Ministro dell’economia e delle Finanze italiano: Pier Carlo Padoan. Secondo Padoan24 bisogna allargare la numerosità degli attori che devono far convergere tra loro le nazioni e le economie, incluse nell’Unione Europea, e devono sapere come camminare su uno stretto sentiero nel medio e nel lungo termine: aumentare la produttività e ridurre il debito pubblico, per allargare la crescita economica e riportare oltre la sacca della recessione dal 2008 al 2013, e costruire un ulteriore processo di unificazione tra il gruppo dei paesi che fanno perno sull’euro ed il gruppo dei paesi che fanno perno sul mercato ed utilizzano l’euro e, ciascuno di loro, una propria moneta. In un libro, scritto molto prima del suo incarico di Ministro, Padoan si proponeva una divaricazione precisa: agire in conflitto tra gli attori dell’euro e del mercato, divaricando l’insieme dell’Unione, oppure far convergere gli attori dell’euro e quelli del mercato per ottenere una convergenza affidabile e stabile per la ripresa della crescita e dello sviluppo economico25. Se tutto questo processo potrà svilupparsi nei prossimi anni, probabilmente, l’Unione Europea potrebbe diventare il più grande mercato del sistema, rispetto al resto delle economie avanzate. Mentre le economie emergenti dovranno rincorrere, più velocemente, e dunque ricomponendo processi di convergenza tra economie avanzate ed economie emergenti, i grandi mercati globali.
Se questo scenario, di cooperazione interna alla Unione europea e di collaborazione tra un gruppo importante ed autorevole di Stati, si sostituisse al doppio consolato, della Merkel e di Marcon, ci sarebbe comunque una ulteriore debole realizzazione del progetto europeo e non un vero e proprio salto in avanti. Lo sfondo dello scenario, in chiave di cooperazione e di collaborazione, sarebbe ovviamente disegnato con un carattere politico liberal–democratico.
Una sorta di primo passo verso una confederazione di Stati nei prossimi anni.
Ci sono altre due scenari che devono, tuttavia, essere confrontati al primo.
Le elezioni amministrative in Italia hanno mantenuto una sorta di equilibrio a tre: centrodestra, centrosinistra e movimento dei cinque stelle. Una terna stabile e difficilmente affiancabile tra due contro il terzo. Ne segue che la creazione di un quadro politico aderente allo sviluppo della crescita debba essere costruito piuttosto da parte del Governo e non delle situazioni locali sui territori. In queste circostanze sono necessarie opzioni top down e non bottom up: meglio agire dalla parte dei Governi, e dei Parlamenti, che in una frammentazione parziale dei risultati e delle possibilità nell’ambito di territori che, comunque, non sono omogenei e convergenti nell’ambito dei sistemi locali: né sotto il profilo economico né sotto quello politico.
Sulla base di questo scenario è facile, nell’ambito della politica italiana, arrivare al terzo scenario. Crollata la possibilità di creare una ragionevole legge per le elezioni nazionali, e considerando che simili leggi vanno varate all’inizio e non alla fine delle legislature, non resta altra opzione realistica che aspettare il termine della legislatura e poi, una volta costruita una stabile ed impegnativa legge di bilancio per il 2018, andare a creare un nuovo Parlamento ed un nuovo Governo proprio nella primavera del 2018.
Lo scenario Merkel – Marcon, insomma, ha posto le basi per una scelta che si collochi in un orizzonte liberal – democratico, che possa avere sfaccettature adeguate alla convergenza verso le grandi opzioni necessarie all’Unione Europea: la moneta, le banche, i progetti imprenditoriali, la difesa e gli interni, la gestione comune dei migranti. Una rete che possa includere queste scelte di ordine generale e creare un grande mercato europeo, che possa trovare un’adeguata sistemazione nei rapporti tra Stati Uniti e Cina. Il resto, credo, lo scopriremo vivendo: molto più tardi del mitico orizzonte, ormai, dei trenta anni dalla nascita dell’euro.












NOTE
1 Vincenzo Scotti e Sergio Zoppi hanno scritto, recentemente, un libro a due voci che rivisita il ciclo di quei venti anni. Si tratta di Vincenzo Scotti e Sergio Zoppi, Non fu un vero miracolo, L’Italia ed il meridionalismo negli anni di Giulio Pastore e Gabriele Pescatore, Eurilink, Roma, 2016.^
2 L’incertezza ha stretto in una morsa il secondo semestre del 2016. Da una parte la polarizzazione del referendum, che avrebbe dovuto ridefinire il profilo della Costituzione, ha assorbito in gran parte la controversia referendaria mentre il Governo ed il Parlamento non hanno considerato lo sviluppo della crescita economica, una finestra potenziale che si profilava proprio nel secondo semestre. Da questo punto di vista si nota sia la vittoria del si sul no nel dicembre: circostanza che ha determinato una incertezza crescente ed endogena al nostro paese. Nello stesso semestre, d’altra parte, si è messa in moto una ridefinizione delle relazioni economiche e politiche dell’intero sistema mondiale. Circostanza che ha reso esogena e crescente la spinta, da parte di molti Governi di importanti cambiamenti. Chiudendo in queste lame della forbice, endogena ed esogena, le spinte che hanno, di conseguenza, rallentato la propensione allo sviluppo di nuove opzioni di investimento e di riordino stabile delle relazioni politiche tra le nazioni del mondo globale.
L’Italia ha perso davvero tempo nel trapasso tra il 2016 ed il 2017.^
3 G. Carli, Nuovi caratteri del processo inflazionistico, in G. Carli, New Features of the Inflationary Process, presentation by Paolo Savona; Introduction by Federico Carli; Luiss University Press, Roma, 2003.^
4 M. Lo Cicero, Sud a Perdere? Rimorsi, rimpianti e premonizioni, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010. Si veda, in particolare, il capitolo 4, Napoli: la grande occasione mancata e la cosa temuta. Una città invertebrata.^
5 Riprenderemo nei prossimi paragrafi la nozione di Industria 4.0; si tratta, comunque di una modalità semantica che propone uno spostamento significativo dello sviluppo della tecnica industriale e dei suoi risultati.
Si vedano due volumi interessanti, in proposito: K. Schwab, La quarta rivoluzione industriale, prefazione di John Elkan, Franco Angeli, Milano, 2016; Industria 4.0, a cura di A. Magone e T. Mazali, prefazione di E. Segantini, Guerini e Associati, Milano, 2016.^
6 P. Ciocca, Storia dell’IRI, 6. L’IRI nella economia italiana, Storia e Società, Laterza, Roma-Bari, 2015.^
7 Pier Carlo Padoan è un eccellente Ministro dell’Economia e delle Finanze. E sta lavorando alacremente sulla manovra che rappresenta sia il primo che il secondo semestre del 2017. Sarebbe assolutamente necessario che sia proprio lui il regista della Legge di Stabilità, che dovrà indicare e governare la crescita e le sue dimensioni nel 2018 e nel 2019. Superate le discussioni sul G7, Padoan sta distribuendo segnali e suggerimenti per risolvere i problemi della politica economica a medio termine che dovremo affrontare. Il 22 giugno del 2017 espone alcuni spunti su “Il Messaggero”. “L’azione per le riforme del governo italiano continua anche se tecnicamente stiamo entrando nell’anno elettorale”. Padoan, sempre su Il Messaggero, non ha fornito novità sui contenuti della manovra, limitandosi ad osservare che la sua dimensione “non è simbolica” e che nel “pacchetto” di aprile ci saranno anche “misure a sostegno delle imprese”.
Padoan agisce anche sulla “Repubblica” del 2 giugno 2017 e, nel motivare la decisione del Governo italiano di aumentare il deficit spiega che un consolidamento più stringente “comprometterebbe la ripresa e metterebbe a rischio la coesione sociale”. Spiegando che l’Italia cresce meno di quello che dovrebbe e dunque ha diritto ad uno sconto sul deficit maggiore di quello che le attribuisce l’Europa. Sempre il 4 giugno 2017, sulle colonne de “La Stampa”, Padoan ripete che la fine degli stimoli della BCE all’economia non sarà un disastro: I nostri conti sono in sicurezza, il vero male è l’incertezza politica”. Si vedano anche i resoconti de “Il Corriere della Sera” del 4 giugno 2017 e quelli del “Il Sole 24 Ore” 2 giugno 2017, dalle colonne del quale Moscovici risponde a Padoan che “non faremo nulla che ostacoli la crescita”. Si capisce, insomma che le relazioni tra coloro che governano la stabilità dell’Unione Europea sono oggi molto più collegate tra loro di quando il percorso della recessione non aveva ancora trovato una strada di cooperazione tra i Ministri economici dell’Unione Europea e dello Stato italiano.
Anche questo diventa un merito di Pier Carlo Padoan.^
8 Relazione del presidente Vincenzo Boccia, Assemblea 2017, Roma, 24 maggio, p. 2.^
9 Relazione del presidente Vincenzo Boccia, Assemblea 2017, Roma, 24 maggio, p. 4.^
10 Relazione del presidente Vincenzo Boccia, Assemblea 2017, Roma, 24 maggio, p. 8.^
11 Relazione del presidente Vincenzo Boccia, Assemblea 2017, Roma, 24 maggio, p. 9.^
12 Relazione del presidente Vincenzo Boccia, Assemblea 2017, Roma, 24 maggio, p. 12.^
13 I. Visco, Considerazioni Finali del Governatore, Relazione Annuale, 31 maggio 2017.^
14 Si veda D. De Masi, Lavorar gratis, lavorare tutti, Perché il futuro è dei disoccupati, Rizzoli, Milano, 2017.^
15 Secondo Ignazio Visco “Gli effetti della crisi non potevano non riflettersi sui bilanci delle banche. Tra il 2007 e il 2015 l’incidenza sugli impieghi bancari dei crediti in sofferenza (le esposizioni, cioè, nei confronti di debitori insolventi) è più che triplicata, raggiungendo un livello comunque inferiore al picco della metà degli anni Novanta. Le difficoltà degli intermediari sono state acuite, in diversi casi, da comportamenti fraudolenti e scelte imprudenti nell’erogazione dei prestiti. Alla fine dello scorso anno i crediti deteriorati delle banche italiane, iscritti nei bilanci al netto delle rettifiche di valore, erano pari a 173 miliardi, il 9,4 per cento dei prestiti complessivi. L’ammontare di circa 350 miliardi, spesso citato sulla stampa, si riferisce al valore nominale delle esposizioni e non tiene conto delle perdite già contabilizzate nei bilanci; esso non è pertanto indicativo dell’effettivo rischio che grava sulle banche. Dei 173 miliardi di crediti deteriorati netti, 81 miliardi, il 4,4 per cento dei prestiti totali, riguardano crediti in sofferenza, a fronte dei quali le banche detengono garanzie reali per oltre 90 miliardi e personali per quasi 40. Vi sono poi 92 miliardi di altre esposizioni deteriorate, già svalutate per circa un terzo del valore nominale; per una parte di queste il ritorno alla regolarità dei pagamenti è certamente possibile, in una misura legata ai tempi e alla forza della ripresa; una gestione attiva da parte delle banche è necessaria per ridurre significativamente la quota che si trasforma in sofferenze. Tre quarti delle sofferenze nette sono detenuti da banche le cui condizioni finanziarie non impongono di cederle immediatamente sul mercato. Quelle che fanno capo a intermediari che stanno attraversando situazioni di difficoltà e possono trovarsi nella necessità di disfarsene rapidamente ammontano a circa 20 miliardi. Come abbiamo documentato, i valori ai quali i crediti in sofferenza sono iscritti nei bilanci sono in linea con i tassi di recupero effettivamente osservati negli ultimi dieci anni. Se fossero venduti ai prezzi molto bassi offerti dai pochi grandi operatori specializzati oggi presenti sul mercato, che ricercano tassi di profitto molto elevati, l’ammontare di rettifiche aggiuntive sarebbe dell’ordine di 10 miliardi. Alla fine del 2011 le sofferenze nette delle banche italiane erano pari al 2,9 per cento del totale dei prestiti. Un intervento “di sistema” sui crediti deteriorati, con un importante contributo pubblico sulla falsariga di quanto era avvenuto in altri paesi, non appariva giustificato, né possibile. L’aumento delle sofferenze non era concentrato in uno specifico settore dell’economia; le previsioni macroeconomiche formulate nel corso del 2012 erano ben più favorevoli dei risultati poi conseguiti. Con l’acuirsi delle tensioni sul mercato dei debiti sovrani, un intervento dello Stato sui crediti deteriorati non appariva compatibile con le condizioni di finanza pubblica. La situazione è rapidamente cambiata negli anni immediatamente successivi. La crisi economica si è protratta e accentuata ben oltre le previsioni; il conseguente aumento dei fallimenti d’impresa e della disoccupazione ha alimentato la crescita delle sofferenze nette, che raggiungevano il 4,8 per cento dei crediti nel 2015. Il rientro delle tensioni sul mercato dei titoli di Stato, avviatosi dalla seconda metà del 2012, si consolidava nel corso del 2013, rendendo a quel punto auspicabile la costituzione di una società di gestione degli attivi bancari deteriorati con supporto pubblico, ipotesi che noi abbiamo attivamente sostenuto. La realizzazione dell’intervento è stata tuttavia impedita dagli orientamenti in materia di aiuti di Stato assunti dalla Commissione europea a metà del 2013.
Nei mesi scorsi, anche a seguito delle proposte elaborate da istituzioni europee, si è tornati a discutere di una tale iniziativa. Siamo ancora convinti che sarebbe una misura potenzialmente utile, a condizione che il prezzo di trasferimento degli attivi non sia distante dal loro reale valore economico, che l’adesione allo schema da parte degli intermediari avvenga su base volontaria, che le caratteristiche dei piani di ristrutturazione delle banche partecipanti siano ben definite ex ante. Va al più presto chiarito se vi è un’effettiva determinazione a proseguire su questa strada: l’incertezza rallenta la definizione delle transazioni in corso, scoraggia quelle che potrebbero realizzarsi nei prossimi mesi. Nel 2016 si sono ridotti sia i flussi di crediti deteriorati sia l’incidenza dello stock e di quello delle sofferenze sul totale dei prestiti. La prosecuzione della ripresa sostiene queste tendenze. Le operazioni di cessione attualmente programmate dai maggiori gruppi potranno accrescere significativamente l’entità della riduzione del rapporto tra sofferenze nette e impieghi”.^
16 Si veda L. Bini Smaghi, La tentazione di andarsene, Fuori dall’Europa c’è un futuro per l’Italia, il Mulino, Bologna, 2017.^
17 A. Giunta e S. Rossi, Che cosa sa fare l’Italia, La nostra economia dopo la grande crisi, Anticorpi, Laterza, Roma-Bari, 2017. Sulla questione di un lento decadimento dell’economia italiana si veda anche R. Prodi, Il Piano Inclinato, il Mulino, Bologna, 2017 ed Enrico Letta, Contro venti e maree, idee sull’Europa e sull’Italia, il Mulino, Bologna, 2017.^
18 Si veda il classico volume di R. Coase, Impresa, Mercato e Diritto, il Mulino, Bologna, 1995. Si vedano anche O. Williamson, Le Istituzioni Economiche del Capitalismo, Imprese, mercati, rapporti contrattuali, Franco Angeli Milano, 1987; O. Williamson, L’organizzazione economica, imprese, mercati e controllo politico, il Mulino Bologna, 1991; O. Williamson, I meccanismi del governo, l’economia dei costi di transazione: concetti, strumenti, applicazioni, Franco Angeli, Milano, 1998.^
19 La disoccupazione nella zona euro, Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, al simposio annuale della Federal Reserve a Jackson Hole, 22 agosto 2014.^
20 Si può leggere, per approfondire questo problema, Richard W. Fisher, President and CEO Federal Reserve Bank of Dallas, Forward Guidance, Hong Kong, april 4, 2014.^
21 Premio Cavour 2016: Commemorazione, Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione del conferimento del Premio Cavour 2016, Santena, 23 gennaio 2017.^
22 Si vedano Riscoprire lo spirito di De Gasperi: lavorare insieme per un’Unione efficace e inclusiva, Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione del conferimento del premio Alcide de Gasperi, Trento, 13 settembre 2016; L’importanza di un allineamento tra le politiche per realizzare il nostro potenziale economico, 5ª Conferenza annuale in memoria di Tommaso Padoa-Schioppa tenuta da Mario Draghi, Presidente della BCE, al Brussels Economic Forum 2016, Bruxelles, 9 giugno 2016; Come le banche centrali affrontano la sfida dell’inflazione bassa, Marjolin Lecture tenuta da Mario Draghi, Presidente della BCE, alla Conferenza SUERF organizzata dalla Deutsche Bundesbank, Francoforte, 4 febbraio 2016.^
23 Si veda La dimensione internazionale della politica monetaria, Intervento introduttivo di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione dell’ECB Forum on Central Banking, Sintra, 28 giugno 2016 ed Assolvere un mandato simmetrico con strumenti asimmetrici: la politica monetaria in un contesto di tassi di interesse bassi, Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, alle celebrazioni per il bicentenario della Oesterreichische Nationalbank,Vienna, 2 giugno 2016.^
24 Il Ministro Padoan ha rilasciato il 19 giugno 2017 una intervista molto interessante, di Fabio Bogo e Francesco Manacorda, per il quotidiano La Repubblica. Secondo il Ministro “Bisogna continuare sulla strada delle riforme, senza fermarsi assolutamente anche se saremo in periodo elettorale”. Padoan si ritiene confortato dall’arrivo sulla scena politica di Emmanuel Macron ed annuncia una notizia. L’asse Berlino-Parigi non sarà una coppia per due ma una terna per tre attori, che dovranno allargare la qualità ed i temi della politica economica e finanziaria dell’Europa. “In luglio – afferma Padoan – ospiteremo in Italia un incontro fra i tre ministri delle Finanze per stabilire assieme le priorità sull’Unione Monetaria”. L’asse Berlino-Parigi dovrà comprendere anche Roma e l’Italia. Padoan conclude questo annuncio con una ragionevole ipotesi di scenario per il medio termine. Ai giornalisti che gli chiedono se l’Italia cresce ad un ritmo inferiore rispetto ai partner europei e di chi è la colpa di questo effetto, la nostra o quella esterna, risponde in maniera molto semplice ma anche compiuta. “Visto che con noto come ministro tecnico – risponde Padoan – vorrei precisare una cosa: non siamo più in recessione. L’Italia cresce dalla fine del 2014... le previsioni di crescita sono incoraggianti, anche migliori – a sentire il Fondo Monetario Internazionale – di quelle previste dal Governo.. Camminiamo per un sentiero stretto in cui bisogna evitare di cadere da una parte, cioè fare aumentare il debito oltremisura anziché ridurlo; oppure dall’altra, dove rischiamo di soffocare la crescita”.^
25 Si veda P.C. Padoan, Dal mercato interno alla crisi dello SME, Diversità ed integrazione in Europa, NIS Roma, 1996. Nel volume di Pier Carlo Padoan, in relazione alla metafora da lui proposta di un club monetario vs un club commerciale per definire le due facce dell’Europa possibile, l’autore descrive, in prima battuta, “che il processo di integrazione tra Nord, Sud ed Est dell’Europa è possibile nella misura in cui si stabilisce un rapporto tra giochi paralleli e giochi sovrapposti. In particolare si è argomentato che l’allargamento del club ad Est, di cui avrebbe beneficiato sopratutto il Nord, avrebbe ottenuto il consenso del Sud, mantenendo così la coesione all’interno della UE, nella misura in cui il Nord avesse accettato una gestione meno restrittiva delle relazioni economiche e monetarie» (p. 171).
Ma Padoan aggiunge anche una ulteriore possibilità nello sviluppo delle future dinamiche dell’Europa: «Per puro spirito accademico potremmo considerare, allora, un’altra ipotesi di integrazione, che corrisponderebbe.... alla soluzione cooperativa nel gioco tra Nord ed Est, ma non anche a quella cooperativa nei giochi tra Nord e Sud. In questo caso l’unione monetaria si formerebbe solo con alcuni paesi escludendone altri – come la Grecia, il Portogallo e la stessa Italia – che non avessero raggiunto un profilo macroeconomico compatibile con l’accesso alla moneta unica … la parte settentrionale della Comunità, infatti sarebbe caratterizzata da un “nucleo forte” rappresentato da paesi omogenei sia sul piano della specializzazione commerciale che da quello del comportamento macroeconomico e ciò non potrebbe non condizionare i tempi ed i modi di ulteriori aperture verso i paesi dell’est europeo. I benefici della maggiore integrazione di questi paesi, che deriverebbero alla Germania e ai paesi europei con essa maggiormente integrati, costituirebbero una pressione difficilmente resistibile verso la coesione di maggiori aperture, anche se ciò dovesse rappresentare un accrescimento dei costi di aggiustamento per i paesi del Sud” (p. 172).^
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