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Nella tradizione italiana del federalismo europeo: Mario Albertini
di Alessandra Petrone
Per inquadrare storicamente e idealmente nella sua genesi e nel suo sviluppo il percorso intellettuale seguito da Mario Albertini, teso a configurare una teoria generale del federalismo, evidenziandone l’aspetto di struttura, storico-sociale e di valore, senza trascurare inoltre le serrate e discusse argomentazioni da lui addotte sulla problematica della natura e della crisi dello Stato nazionale, è necessario far opportuno richiamo a quella nostrana linea di pensiero (che per alcuni esponenti fu anche di azione politica) riconducibile sotto la voce “federalismo europeo”. Una corrente di pensiero questa che in Italia prende le mosse già dal primo dopoguerra, allorquando cioè si cominciò a discutere, alla luce delle note tesi wilsoniane1, sulla possibilità di realizzare un consesso di nazioni tale da garantire una pace duratura. Discussioni che vertevano in sostanza sulle effettive potenzialità di tale progetto, che di fatto si concretizzerà notoriamente, dopo la Conferenza di Pace di Parigi del gennaio 1919, con la nascita della Società delle Nazioni. La quale comunque, è bene ricordarlo, nasceva come organismo mondiale e non europeo.
Nello scenario di nuove configurazioni dell’assetto dell’Europa che, seguendo linee wilsoniane, vide moltiplicarsi il numero degli Stati nazionali, venne dunque formandosi in Italia un fronte (a carattere se vogliamo trasversale, in quanto coinvolgeva uomini di diversa formazione politica) il quale auspicava una soluzione di tipo federalistico per una possibile futura ricomposizione pacifica del vecchio continente. Una prospettiva questa che fu oggetto a più riprese delle considerazioni formulate per primo da Luigi Einaudi. Il quale, proprio riferendosi alla congiuntura storica, mise in dubbio che potesse considerarsi in prospettiva come risultato politico positivo e fruttuoso della fine della I Guerra Mondiale la creazione della SdN. La sua critica nasceva dalla constatazione della natura confederale di tale organizzazione, la quale lasciava così inalterata la sovranità degli Stati. Principio, quello della sovranità assoluta, da lui definito come un “dogma funesto”, in quanto necessariamente ostacolo principale, proprio perché caratteristica essenziale della natura indipendente ed autonoma dello Stato-nazione, alla creazione di una vera e propria unione di tipo federale in Europa: unico mezzo a suo avviso in grado di garantire una convivenza pacifica fra gli Stati2. Argomenti questi usati anche da Agnelli e Cabiati, i quali ponevano la nazione come via di transizione verso una superiore unità, esaltando il modello federale a scapito di quello confederale. Nazione, o meglio Stato-nazione, che proprio in quanto tale, limitato e chiuso spazialmente, non veniva da essi considerato idoneo a risolvere i più storicamente rilevanti problemi politici ed economici dell’Europa; essendo anzi potenzialmente soggetto a forme di pervertimento involutivo, degenerando nel “nazionalismo”3.
In generale il dibattito suscitato in Italia dalla nascita della SdN non fu ovviamente recepito negli ambienti nazionalisti e conservatori, ma ebbe difficoltà ad essere compreso, per quanto riguarda le prospettive federaliste, anche da personalità di rilievo presenti nelle forze politico-culturali più avanzate. Piero Gobetti ad esempio apprezzava l’idea wilsoniana della SdN, considerandola un momento associativo più consono alla realtà europea (costituita da differenze etniche, linguistiche e storiche molto marcate fra gli Stati), rispetto ad un modello federale di stampo statunitense. Per Gobetti infatti tale modello in Europa avrebbe significato o un’unità relativa, e quindi la federazione si sarebbe risolta nella SdN, oppure avrebbe comportato un’unità artificiale, contraria alla storia e alle tendenze umane più profonde. Altri invece, come Filippo Turati e Rodolfo Mondolfo, ritenevano che l’andamento e i risultati delle trattative di Parigi avevano snaturato lo spirito del progetto di Wilson, vuoi per le pesanti condizioni di pace imposte ai vinti, vuoi anche per l’emarginazione della Russia sovietica. La SdN si era insomma, secondo il loro non solitario avviso, trasformata in una sorta di circolo dei vincitori, monopolizzato da Francia e Inghilterra4. Se ad ogni modo con l’avvento del fascismo in Italia i discorsi sulla SdN segnano il loro epilogo, il problema di dare un nuovo assetto alle relazioni europee rimarrà comunque in vario modo un argomento presente nei differenti ambienti politico-culturali che caratterizzarono il “fuoriuscitismo” antifascista.
In effetti gli anni che si concluderanno con il secondo conflitto mondiale vedono ancora presenti in quegli ambienti il discorso europeista, anche se questo risulta in linea di massima improntato da una certa genericità. Sempre più ad ogni modo la questione di una nuova forma organizzativa fra gli Stati europei veniva collegandosi, ed anche per questo rafforzandosi, con l’impellente problema della salvaguardia dei valori democratici nei confronti dell’avanzata dei regimi autoritari. Ed è in tale contesto che si può inquadrare anche il discorso a varie voci sul rapporto tra autonomismo e federalismo o, più nello specifico, fra federalismo infranazionale e federalismo sopranazionale. Vale a dire fra un processo che attraverso la valorizzazione delle autonomie locali, con il conseguente forte decentramento dei poteri dello Stato, potesse articolare più compiutamente la democrazia – proponendosi come alternativa radicale al modello centralista, esasperato dallo statalismo fascista – ed un processo che attraverso l’unificazione in vario modo di entità nazionali sovrane potesse dare origine ad una forma di organizzazione politica comprensiva di queste ultime. Un’organizzazione tale da poter contrastare e prevenire quello che sarà invece il disastroso tentativo egemonico del nazifascismo5.
Su questi temi allora discussi l’iter argomentativo più ampio e meditato sembra essere stato quello di Carlo Rosselli il quale, sia pure in risposta a problematiche affioranti in distinti momenti, contempla entrambi gli aspetti del federalismo, infra e sopranazionale. Pur senza mettere in discussione la sopravvivenza dello Stato nazionale6, ed avendo comunque presente in primo luogo il caso italiano e la versione statocentrica del fascismo, Rosselli era giunto in effetti a ritenere non più proponibile una semplice limitazione dell’attività statale secondo versioni classiche del liberalismo. Il suo federalismo per così dire “infranazionale” venne di conseguenza configurandosi non già come fondato soltanto su forme di autonomia comunale e regionale ma piuttosto, sulla linea di Proudhon, su un’articolazione libertaria implicante lo sviluppo di autonomie a largo spettro socio-istituzionali sul piano territoriale7.
La concezione europeista di Rosselli invece di tipo prettamente federale, anche se forse non sostenuta adeguatamente dal punto di vista teorico, si afferma proprio all’indomani della conquista del potere in Germania da parte di Hitler, e quindi dell’espansione del totalitarismo, non più fenomeno isolato in Europa. E in effetti nel suo articolo Europeismo o Fascismo del 1935 Rosselli anticipa due aspetti che saranno in seguito fatti propri dal Movimento federalista europeo: l’impossibilità cioè di fare l’Europa attraverso la diplomazia, e la necessità di operare attraverso la convocazione di un’assemblea costituente europea8. Emblematiche in tal senso le parole di Rosselli:
La efficienza degli Stati e degli eserciti è funzione dei principi o dei miti che sono supposti rappresentare. Il nazismo ha un principio, una politica, un visibile scopo. Quindi un formidabile potenziale politico e guerriero. […] in assenza di ogni principio e politica […] la coalizione antitedesca è destinata a passare di sconfitta in sconfitta fino a spezzarsi o a precipitare nella guerra che assassinerà l’Europa intera […]. La passione si vince solo con un’altra passione più potente, lucida, giusta. Ci salverà solo un movimento di riscossa della coscienza europea. Riscossa sociale e politica; lega dei rivoluzionari europei e, nei paesi ancora immuni, sforzo di idealisti pratici per portare questa passione, con un linguaggio semplice e umano che esprima le aspirazioni confuse dei milioni e milioni […] per proclamare un principio: solo governo legittimo riconosciuto sia il governo basato sul consenso e sulle libertà fondamentali. […] infine per indicare alle masse un grande obiettivo positivo: fare l’Europa. […] la sinistra europea dovrebbe impadronirsi di questo tema sinora abbandonato ai diplomatici e ai “Koudenhove Kalergi”. Popolarizzarlo tra le masse. Prospettare loro sin d’ora la convocazione di una assemblea europea, composta di delegati eletti dai popoli, che in assoluta parità di diritti e di doveri elabori la prima costituzione federale europea, nomini il primo governo europeo, fissi i principi fondamentali della convivenza europea […] e dia vita agli Stati Uniti d’Europa9.

Argomentazioni quelle sostenute e difese con forte passione etico-politica da Rosselli, scomparso in modo tragico assieme al fratello Nello nel 1937, che verranno riprese negli anni del secondo conflitto mondiale, quando la crisi europea da lui paventata attraverserà la fase più drammatica. Quella che di fatto segnerà nella sua conclusione il definitivo declino dell’Europa come potenza determinante nel nuovo equilibrio che si sarebbe venuto a creare, non più europeo ma mondiale10. Ed è di questa fase storica un testo che rappresenterà notoriamente un punto di svolta nel federalismo di impronta europeista: il Manifesto di Ventotene11 di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi12. In tale testo infatti veniva affermato in maniera netta e incontrovertibile la convinzione di una crisi irreversibile dello Stato-nazione13. Conferendo inoltre un impulso decisivo al passaggio del progetto europeista dal piano teorico al piano dell’azione politica, con la creazione quasi contemporanea del Movimento federalista europeo nel 1943. Movimento politico pertanto e non partito, proprio allo scopo di raccogliere l’adesione di tutti coloro che trasversalmente in Italia, ma anche in Europa, appoggiavano l’idea di realizzare un progetto di tipo federale per la riorganizzazione politico-istituzionale del vecchio continente. Movimento quindi con un dichiarato obiettivo di politica internazionale, che considerava subalterne e secondarie le problematiche di politica interna, nella convinzione che queste potessero trovare migliore soluzione proprio attraverso uno spazio politico organizzativo più ampio. E con l’intento inoltre, e particolarmente in seguito, di conferire all’Europa una fisionomia ed un assetto in grado di incidere ancora in ambito internazionale, sottraendosi al predominio delle due maggiori potenze vincitrici: USA e URSS14.
L’azione iniziale di Spinelli quindi, una volta stabilito l’obiettivo, e cioè la federazione, fu finalizzata essenzialmente all’attivazione di una fase costituente europea. Ma l’idea di un’assemblea costituente ebbe ben presto notevoli difficoltà ad affermarsi proprio perché poteva concretizzarsi solo attraverso la volontà politica dei singoli Stati. Tuttavia Spinelli, spirito estremamente pragmatico, a fronte di un impegno pressoché costante in tale direzione cercò, al di là degli esiti concreti, di utilizzare al meglio quelle circostanze favorevoli alla causa federalista che si vennero potenzialmente a creare in vari momenti storici del processo di integrazione europea. Così fu soprattutto nel caso della vicenda CED agli inizi degli anni ’50, e così fu anche agli inizi degli anni ’80, nel tentativo di ratifica del progetto di trattato di Unione europea, elaborato proprio da Spinelli. Consentendo in tal modo al federalismo, anche se solo sul piano dell’azione politica, di acquisire una propria autonomia di comportamento e progettualità rispetto all’azione delle altre forze politiche15.
Saranno proprio Spinelli e l’attività svolta dal MFE ad orientare in maniera determinante sulle tematiche del federalismo europeo la riflessione politica di Mario Albertini. Una riflessione storico-politologica, va precisato, incentrata essenzialmente sulla problematica di una discussa diade: vale a dire crisi dello Stato nazionale e federalismo. In Albertini la tematica europeista comincia ad affiorare già nell’immediato dopoguerra, allorquando cioè nel ’45 egli si iscrive al MFE, anche se per allora si trattò comunque non ancora di una militanza attiva, ma di un interesse prevalentemente culturale. In quel periodo Albertini infatti aveva aderito al Partito liberale, per poi allontanarsene già nel ’46, anno in cui si avvicina al Partito d’Azione. Si intravedevano però già in quegli anni le premesse della successiva e conseguente maturazione dell’idea che, per un efficace rinnovamento ed una compiuta realizzazione della democrazia, non poteva più risultare adeguato il piano strettamente nazionale, divenendo invece ormai indispensabile porsi in una prospettiva europea, e considerando pertanto l’unificazione europea come necessaria condizione di quel rinnovamento16. Albertini giungerà dunque alla conclusione che quelle da lui definite «le forze democratiche di partito», nella ripresa delle loro posizioni di lotta dalla Liberazione in poi, non potevano più essere considerate come le forze decisive per la vittoria della democrazia. Egli riteneva infatti che, dovendo gestire lo Stato nazionale democratico, i partiti erano portati a quotidianamente a definirsi nei suoi limiti, perseguendo illusoriamente linee di risoluzione della sua crisi all’interno del suo quadro. Testualmente in proposito egli così si esprimeva: «È di tutti la nozione che lo Stato attuale è in crisi, ma non è di tutti la coscienza di questa crisi: i partiti, proprio per il peso delle loro responsabilità contigenti, erano e sono portati fuori da questa coscienza». Ad avviso di Albertini in effetti la crisi era dovuta proprio all’incapacità degli Stati nazionali di reggere il carico delle competenze del potere. La soluzione europea non comportava pertanto solo la lotta per le istituzioni federali a livello continentale, ma anche la lotta per la trasformazione dello Stato nazionale in Stato federato. Di uno Stato cioè alleggerito di competenze e sottratto alla logica della ragion di stato, in quanto privato dell’esercizio della politica estera, e quindi aperto alla prospettiva di una ricca vita interna, nell’ambito di una comunità democratica17.
È negli anni immediatamente successivi alla vicenda del fallimento della CED, che Albertini abbraccia in toto la causa federalista e la strategia del suo leader Spinelli18, sottolineando l’importanza della formula del movimento politico adottata dal MFE, come rifiuto delle suddivisioni e delle logiche nazionali, e avendo di conseguenza come quadro d’azione la lotta per l’Europa unita. E questo proprio dunque alla luce del fallimento della CED; un fallimento che sembrava aver fatto naufragare la strategia tesa in primo luogo ad influenzare gli uomini di governo e di partito, rendendo di conseguenza necessario rilanciare l’azione federalista attraverso la lotta democratica. Tutto ciò per Albertini doveva avvenire facendo salvi i due motivi che avevano caratterizzato la condotta del MFE già nella fase per così dire diplomatica: la non partecipazione insomma alle elezioni nazionali, e l’apertura a tutte le forze politiche maggiormente sensibili al richiamo europeista. Contrapponendosi in tal modo anche allo scenario della lotta politica nazionale sempre più caratterizzata, a suo avviso, dall’ideologismo e dall’opportunismo dei partiti19. Un richiamo forte quindi a perseverare nel percorrere la strada nuova del federalismo europeo, anche se questa, come tutte le novità rivoluzionarie, si presentava irta e difficoltosa20. Strada da percorrere tentando ormai di provocare un processo federativo che doveva originare non più dall’alto, attraverso cioè le singole politiche governative, ma dal basso, attraverso pertanto la nuova sfida lanciata da Spinelli: quella del Congresso del Popolo europeo, cui Albertini aderirà con molta convinzione. Il CPE si configurava come un’organizzazione che, attraverso una serie di comitati di base disseminati sul territorio, avrebbe dovuto eleggere i rappresentanti del popolo europeo in seno ad una apposita assemblea. Questa, coinvolgendo così un numero sempre maggiore di cittadini europei, avrebbe raggiunto la legittimità democratica ed il peso politico necessari per forzare i governi alla convocazione della costituente europea21.
In effetti l’ambizioso progetto, quello cioè di far emergere la volontà di un “popolo europeo” creando un’assemblea ad hoc, sembrava stridere tutto sommato con la debolezza dello strumento adottato. Considerando oltretutto che la vicenda CED, che segna il punto di massimo avvicinamento tra le aspirazioni federalistiche e il corso del processo di integrazione europeo, fu il frutto dello sforzo, perseguito in particolare proprio da Spinelli, di influenzare l’azione governativa ai più alti livelli, e seguendo quindi quella linea diplomatica che si voleva abbandonare. A tal proposito è del resto assai significativo che anche in seguito Spinelli, pur nel continuo suo richiamo alla mobilitazione popolare e all’autonomia, soprattutto nei momenti di difficoltà della lotta federalista non abbia mai esitato all’occorrenza ad operare all’interno delle stesse strutture comunitarie – pensiamo alla sua partecipazione prima alla Commissione e poi al Parlamento europeo – dalle quali cercò di far emergere iniziative nel senso della costituente europea. Albertini concepì invece la sua lotta essenzialmente come sforzo a costituire e radicare una forza federalista autonoma sul piano politico, organizzativo e finanziario22. Quindi da un lato uno Spinelli che opera anche in solitudine, avendo come intento sempre quello dell’efficacia dell’azione politica, e dall’altro un Albertini intento invece a che l’azione fosse sempre aderente ai valori che dovevano ispirarla23. Questo tuttavia non deve indurre a ritenere erroneamente che l’azione politica ed intellettuale di Albertini risultasse fine a se stessa, e quindi poi in definitiva sterile dal punto di vista dei risultati concreti. Albertini era perfettamente conscio della problematicità inerente all’affermazione della causa federalista, e il suo impegno nel fare del MFE una forza realmente autonoma, capace di affermarsi come organizzazione democratica di dimensione europea, nasceva dal convincimento che solo in tal modo il federalismo poteva acquisire la forza sufficiente per vincere. Egli, in un contributo sul «Popolo europeo», alla vigilia del congresso sopranazionale del MFE di Lione, nel febbraio 1962, così si esprimeva:
Nel pensare e nell’agire noi dobbiamo sempre chiederci: questo pensiero, questo atto, questo strumento è un contributo alla formazione, alla discussione ed all’esecuzione di tale azione, vale a dire della linea politica europea del federalismo, oppure no (indipendentemente dalla sua utilità per se stante)? Soltanto se la risposta è sì, noi potremo effettivamente dire che stiamo facendo qualche cosa per organizzare nella dimensione supernazionale le energie democratiche compresse su quella nazionale, cioè che ci stiamo battendo per l’Europa […]. All’inizio l’alternativa non è tra l’avere il potere e non averlo; ma tra l’avere un progetto di azione buono per gli altri oppure avere un progetto di azione destinato a rimanere la mania di pochi illusi […]. In sostanza si tratta di vedere se la nostra organizzazione supernazionale sa camminare, cioè se fornisce la base per la formazione e la scelta democratica di una linea politica europea24.

La diversità di linea strategica fra Spinelli e Albertini si paleserà in maniera evidente dopo il fallimento del CPE, che sostanzialmente non raggiungerà quel grado di mobilitazione popolare auspicato. Spinelli, con il consolidamento della CEE, aveva cominciato a maturare già dagli inizi degli anni ’60 il convincimento che la linea d’azione federalistica potesse essere meglio perseguita cercando di influenzare e indirizzare dall’interno gli organismi comunitari, riproponendo in buona parte la strategia usata durante la fase della CED. Questo però non significava riporre acriticamente la propria fiducia nel “funzionalismo”. Spinelli piuttosto accettava l’ipotesi di un’evoluzione graduale della Comunità in senso federale, utilizzando pertanto gli organismi in essa già esistenti, senza però rinunciare all’idea di attivare una fase costituente, anche partendo da questa base. Ciò comportava tra l’altro sottolineare che l’obiettivo di tutte le forze progressiste e democratiche non doveva essere quello di combattere la CEE, ma al contrario di favorirne uno sviluppo di tipo federale. Albertini invece, dopo aver preso la guida del MFE negli anni ’62-’64, rimarrà fedele alla strada imboccata con il Congresso del popolo europeo, varando il progetto similare del Censimento volontario del popolo federale europeo. Censimento che, in pratica, si configurava come una raccolta di adesioni a favore della costituente europea25. Per la verità anch’egli constatava il consolidamento del processo di integrazione economica in Europa, ma ne dava tuttavia una lettura critica. Sicuramente infatti la Comunità economica aveva svolto una importante funzione nel far convergere i mercati nazionali, fino al punto di una vera e propria unione economica; la quale però, a suo avviso, senza un potere politico europeo non si sarebbe potuta compiere pienamente. Era impensabile infatti per Albertini poter rimanere a lungo soltanto con la libera circolazione delle merci senza un bilancio federale, senza una moneta unica, senza sostanzialmente un governo europeo. Cosa questa che significava anche poter acquisire un ruolo di maggior peso e indipendenza nelle relazioni internazionali, egemonizzate dal bipolarismo USA-URSS26.
È da tenere presente che Albertini scrive le sue opere più importanti e consistenti dal punto di vista teorico negli anni che vanno dal ’58 al ’6327, frutto di un impegno intellettuale che andava sicuramente a rafforzare certe sue scelte di campo, anche all’interno del MFE. Tutto questo a cominciare dalla sua lettura critica delle vicende storiche e delle caratteristiche da lui ritenute essenziali dello Stato-nazione. Albertini esordisce mettendo in evidenza come, per rispondere alla domanda su cosa sia lo Stato nazionale, non si possa prescindere in prima battuta dal concetto di “ordine pubblico”, il quale viene generalmente inteso come sicurezza del singolo nel disporre di se stesso e della possibilità di scambiare relazioni con gli altri. Tutta la vita ordinaria, gli atti quotidiani degli individui, sono in effetti immersi nell’ordine pubblico; ma questi atti, proprio per il loro carattere abituale, non spingono alla riflessione sulla loro peculiare natura, e si presentano quindi usualmente alla coscienza di chi li compie come manifestazioni “naturali” dei comportamenti umani. Per Albertini in realtà, e a ben riflettere, in ognuno di questi atti è presente lo Stato. Lo Stato burocratico moderno costituisce infatti l’intelaiatura giuridico-amministrativa indispensabile per lo svolgimento dei complessi rapporti interindividuali di ogni sorta, inclusi quelli culturali e morali della nostra civiltà evoluta. Ma proprio questa equiparazione dell’abituale al “naturale” non fa rendere conto che la vita di relazione è tutt’altro che “naturale”, e soprattutto che l’organizzazione politica sulla quale essa si basa, cioè lo Stato nazionale, è storicamente recente28. Storicamente recente, si potrebbe aggiungere, anche alla luce della distinzione, implicitamente abbozzata da Hans Kohn, ma rielaborata da Albertini, fra una forma di nazionalità “naturale” o “spontanea” ed una artificiale. In sostanza, e su un piano generale, per Albertini le comunità “naturali” si reggono su legami spontanei che si manifestano indipendentemente dall’intervento del potere; ma gli Stati nazionali europei – salvo varianti di non poco conto nel caso del modello britannico e in quello svizzero –, a causa delle loro dimensioni, estinguendo quei legami hanno creato in sostituzione un legame artificiale tramite l’imposizione dell’unità linguistica e culturale a tutte le popolazioni insediate sul territorio dello Stato. Nell’interpretazione di Albertini la coscienza nazionale, come fatto diffuso nella popolazione, risulta dunque come la conseguenza, e non già quindi come la premessa, della formazione dello Stato nazionale. Come la conseguenza, inoltre, di un preciso programma politico, elaborato per la prima volta dai giacobini durante la rivoluzione francese, e dominante in seguito nel continente europeo, che si proponeva per l’appunto di imporre l’unità di lingua, di cultura e di tradizione a tutte le popolazioni insediate sul territorio dello Stato. In tal modo la fusione di Stato e nazione divenne per i governi nazionali la base per esigere dai cittadini un lealismo esclusivo e per sviluppare una politica estera aggressiva29.
Prendendo in considerazione le drammatiche vicende avvenute nella prima metà del ’900 in Europa, Albertini rileva come da punti di vista diversi siano stati variamente imputati errori e mali alla politica liberale, a quella socialista, a quella fascista, a quella cristiano-sociale, a quella nazionalista, rimanendo invece trascurata l’imputazione al “comportamento nazionale”. Un termine quest’ultimo reiteratamente e non a caso presente nel discorso albertiniano; un termine insomma che intende riferirsi ad un complesso sistema di atteggiamenti – quali il patriottismo nazionale, il comportamento economico nazionale, la condotta politica nazionale e così via – definiti “nazionalistici” quando sono assai fortemente accentuati, ma che non si riducono solo ad essi. Questo perché altri termini quali “sentimento nazionale”, e”pensiero nazionale”, per Albertini non esauriscono l’insieme dei comportamenti legati allo Stato-nazione, o li presentano ad uno stadio elaborato da determinate dottrine o influenzati da determinati sentimenti. Quindi è proprio l’indagine del comportamento nazionale, quale variabile indipendente, che può permettere di capire fino in fondo il senso del percorso storico nonché l’esito finale dello Stato nazionale30.
Seguendo un autorevole tentativo, denso e concettoso, di cogliere gli aspetti essenziali del problema, possiamo dire che per Albertini il “comportamento nazionale” è in primo luogo un comportamento di fedeltà. Il riferimento di questo comportamento è lo Stato, il quale non è però pensato come tale ma come entità illusoria. Gli individui esprimono questi comportamenti in termini di fedeltà a un’entità mitica, la nazione, rappresentazione idealizzata degli Stati burocratici accentrati. Questa idealizzazione della realtà è il riflesso mentale dei rapporti di potere tra gli individui e lo Stato nazionale, e serve a consolidare quest’ultimo31. Per Albertini la complessità apparente del discorso è comunque implicita nella esistenza di due formulazioni diverse della stessa situazione di potere, di due nomi insomma: Stato e nazione, il primo dei quali più facilmente definibile del secondo. Lo Stato infatti ha immediata evidenza politica e chiara espressione giuridica, rimandando quindi all’evoluzione della situazione di potere, e pertanto agli effetti complessivi dell’agire politico. La nazione invece designa un comportamento nel quale assumono carattere politico esperienze che possono essere e sono, nei loro aspetti migliori, indipendenti dalla politica. Per questa ragione il termine “nazione”, secondo Albertini, può far pensare soltanto al carattere specifico di tali esperienze e far trascurare il fatto che esse divengono “nazionali” non per se stesse ma perché la situazione di potere le collega alla politica.
Il fatto che lo Stato non venga pensato e concepito con l’idea corrispondente alla realtà obiettiva di un certo tipo di comunità si spiega per Albertini considerando che ogni situazione di potere viene per l’appunto concepita dagli individui che la subiscono non con rappresentazioni conformi alla realtà ma con rappresentazioni deformate dai pregiudizi e dalle passioni politiche: le ideologie. Questo spiegherebbe perché, tra l’altro, nello Stato burocratico accentrato, protagonista di guerre continue e terribili, si è verificata non solo una grande fusione di interessi individuali (politici, economici, ecc.), ma anche una situazione che ha comportato la coscrizione militare obbligatoria. Educando di conseguenza i cittadini in massa al dovere di uccidere e al rischio di morire non per la difesa delle proprie libertà individuali, ma per il gruppo concepito come un’entità trascendente, superiore ai singoli, naturale, sacra ed eterna. Configurandosi dunque la nazione per Albertini come l’ideologia dello Stato burocratico centralizzato, ecco perché a suo avviso si potrebbe anche sostenere che la nazione è e non è lo Stato, è e non è la lingua, è e non è il plebiscito di tutti i giorni, è e non è il costume basato sulle tradizioni del passato. Tutti questi aspetti sono in realtà presenti nella coscienza nazionale e sono presenti nel comportamento nazionale ma, per sé considerati, non sono “nazionali” sinché la situazione di potere non li collega, e l’ideologia non fornisce la coscienza di tale legame e la fede nel suo valore. Ma l’uomo ideologico per Albertini vive in un mondo immaginario, o meglio in un mondo nel quale gli aspetti concreti della situazione di fatto sono presenti nella sua mente in modo deformato e idealizzato. Per questo la “mistificazione” nazionale costituiva ormai per Albertini un rischioso anacronismo, in quanto gli Stati medi o piccoli sono e saranno condannati alla decadenza in un mondo sempre più unificato tramite il progresso tecnico-scientifico; un mondo nel quale l’interdipendenza nei rapporti umani ha superato le barriere degli Stati tradizionali. In effetti Albertini, sin dagli anni Sessanta, riteneva che la rivoluzione scientifica in atto stava modificando profondamente la struttura organizzativa dell’intero pianeta. E questo anche rivoluzionando i ruoli, i modelli comportamentali e la scala dei valori dei cittadini cosmopoliti della nuova società globale in formazione. Tale tendenza di fondo non avrebbe potuto in realtà evolversi in maniera soddisfacente se non traducendosi sul piano politico in un sistema transitorio di federazioni continentali – prima fra tutte, e di più promettente realizzazione, quella europea – e successivamente nella federazione mondiale32. Ed è alle considerazioni di Albertini sullo Stato nazionale e la sua crisi che si possono per l’appunto collegare quelle altrettanto peculiari e innovative sul federalismo, tenendo anche conto dell’originale rapporto ivi teorizzato tra federalismo e storia europea, a partire dalla Rivoluzione francese33. Albertini perviene ad elaborare una teoria generale del federalismo, includendo in esso l’aspetto di valore, quello di struttura e quello storico-sociale. Nella prospettiva albertiniana l’aspetto di valore va identificato con la pace nel senso kantiano del termine; quindi non già la tregua, un’assenza cioè temporanea della guerra, ma l’impossibilità stessa della guerra, mediante l’istituzione di un ordine legale al di sopra degli Stati. La pace inoltre si presenta in tale prospettiva, che reca tracce evidenti di “filosofia della storia”, come il valore che consente di dare un ordine razionale al mondo e un senso ultimo alle vicende umane.
Kant tuttavia, secondo Albertini, non possedeva un’adeguata cognizione dell’aspetto di struttura del problema: l’architettura cioè del governo federale. La quale fu invece notoriamente realizzata per la prima volta, sulla scorta delle considerazione hamiltoniane, in seno alla Convenzione di Filadelfia che varò la Costituzione federale degli Stati Uniti nel 1788. In essa si configurò quel compromesso fra poteri del governo centrale e quelli locali, che poteva garantire l’azione sui cittadini degli Stati associati, non distruggendo peraltro la loro autonomia. Tutto questo fu reso possibile solo sul fondamento di un comportamento sociale di tipo federale; cioè attraverso la combinazione del senso di appartenenza a cerchie politico-sociali di diversa ampiezza, il quale diede origine ad un doppio lealismo, quello cioè verso gli Stati e quello verso l’Unione. Tale modello di organizzazione politica per Albertini era attuabile solo in aree pluristatali che avessero raggiunto le condizioni materiali e ideali della libertà politica ed un certo grado di uniformità; ma anche, inoltre, dove si fosse attenuata se non scomparsa la lotta di classe e la necessità dell’adozione di una politica di potenza. Tutte condizioni queste per l’appunto presenti alla nascita degli Stati Uniti. Nella prospettiva di Albertini il federalismo si può affermare, transitoriamente dunque già almeno in Europa, solo ad uno stadio di sviluppo della produzione materiale e della conseguente interdipendenza umana nel quale sia stata superata la divisione della società in classi e dell’umanità in nazioni. I tre aspetti più sopra accennati del federalismo non possono inoltre che essere complementari, nel momento in cui esso si manifesta in maniera compiuta. Non si lotta d’altronde per la pace, ad avviso di Albertini, senza battersi per un governo democratico supernazionale, e non ci si può battere per questo governo senza mobilitare inoltre atteggiamenti comunitari per un verso e cosmopolitici per un altro34. Lo schema della distinzione dei tre aspetti del federalismo viene infine da Albertini ritienuto proficuo anche nello studio delle ideologie.
In via preliminare va subito chiarito che per Albertini il termine “ideologia” ha due significati che vanno distinti. A tal proposito egli ha elaborato una sua articolata definizione, non appiattendola sull’accezione marxiana per un verso ed avvalendosi per un altro, in maniera però critica, di quella più sofisticata del filosofo neopositivista Gustav Bergmann. Sulla questione egli si è dunque così espresso:
Se è inevitabile, sul piano del linguaggio comunemente usato (dopo Marx), far corrispondere al termine «ideologia» l’automistificazione politica e sociale, non è possibile tuttavia ridurre le «ideologie» (al plurale, liberalismo ecc.) alla pura e semplice «ideologia» (al singolare: automistificazione). Non ha senso identificare in toto il liberalismo, il socialismo ecc. con l’automistificazione. Le grandi ideologie tradizionali, sino al marxismo, sono gran parte del nostro patrimonio di cultura politica e dei nostri strumenti di conoscenza dei fatti storico-sociali, anche se è vero che si tratta di un sapere in forma non critica (senza possibilità di controllo che non siano quelle della saggezza) e se inoltre è vero che, anche a causa di ciò, è in seno a queste ideologie che si manifesta l’ideologia come automistificazione.

Per questo, ma non solo per questo, l’identificazione di un aspetto di valore, uno di struttura, ed uno storico-sociale potrebbe essere utile; poiché ciò consentirebbe lo studio delle ideologie secondo campi di esame e di discipline differenti. Si potrebbe così cogliere il grado di “automistificazione” isolando i fatti dal valore e viceversa; inserire inoltre le ideologie nel contesto storico, inquadrandone così il loro rapporto con la realtà effettuale, individuandone anche la congruenza con un sistema di potere, e verificando in tal modo la possibilità che un comportamento non sia politicamente impedito ma anzi garantito35. Ad un livello di astrazione generale, e riassumendo il discorso di Albertini, dei tre aspetti più volte citati si potrebbe quindi dire che quello di valore definisce il fine perseguito dall’ideologia; quello di struttura permette di individuare la forma di organizzazione del potere necessaria al raggiungimento di quel fine, mentre l’aspetto storico-sociale definisce il contesto storico nel quale è possibile realizzare un valore attraverso una struttura adeguata del potere. Le ideologie dunque definiscono un progetto politico che mette in luce il senso di una fase della storia attraverso l’affermazione delle istituzioni e dei valori corrispondenti. Ora per Albertini il federalismo, come ideologia al pari del liberalismo, della democrazia e del socialismo, risulta nell’epoca attuale l’unica ideologia realmente in grado di cogliere il senso nuovo della storia, quello cioè della unificazione sociale del genere umano; un senso che non può essere adeguatamente compreso dalle ideologie tradizionali. Albertini arriva a questa conclusione prendendo in considerazione come sistema di riferimento il corso della storia, attraverso il quale si possono scorgere, a suo avviso con chiarezza, le grandi tappe percorse dalla società europea nell’età moderna e contemporanea: l’epoca della formazione delle nazioni e delle classi antagonistiche; il configurarsi delle lotte di classe, da quelle della borghesia contro l’aristocrazia a quella del proletariato contro la borghesia e infine, dopo queste, l’ultima ed epocale svolta: quella della crescita in estensione dell’interdipendenza umana al di là delle nazioni. Ciascuna di queste fasi è caratterizzata dall’affermazione di un valore e di una nuova ideologia. Il liberalismo, la democrazia e il socialismo, pur costituendo conquiste ormai irreversibili, corrispondono ormai per questo solo ad alcuni assetti strutturali pregressi della società. Infatti non ha più senso contrapporre la classe operaia al resto della società, al pari di quanto ne avrebbe la mobilitazione liberale della grande borghesia, o quella democratica della piccola borghesia. Le ideologie tradizionali per questo non sono più in grado di tracciare quella linea di demarcazione tra il passato che perdura nel presente e il futuro che si preannuncia con chiari segni. Il federalismo diviene pertanto secondo Albertini il nuovo strumento di pensiero e d’azione che va sempre più coincidendo con il corso storico, arrivando a comprenderlo e a orientarlo36.
La constatazione degli scarsi risultati ottenuti con la campagna per il censimento del popolo europeo, e più in generale perseguendo la strategia di allargare il consenso popolare nei confronti della politica del MFE, oltre alla presa di coscienza (sulla scia pertanto di Spinelli), della necessità di agire sulla Comunità per orientarne lo sviluppo in senso democratico e federale, portarono Albertini ad individuare come nuovo obiettivo prioritario l’elezione diretta del Parlamento europeo. Elezioni che di fatto si terranno notoriamente la prima volta nel 1979. Questa fase segna anche un riavvicinamento tra Albertini e Spinelli, accomunati adesso nell’intento di favorire le condizioni affinché il Parlamento europeo potesse svolgere una funzione costituente, in grado di permettere un salto qualitativo alla Comunità. Albertini infatti appoggerà il progetto di trattato di Unione europea avanzato da Spinelli dopo la sua elezione a deputato all’Assemblea di Strasburgo nel 1979. Progetto approvato a larga maggioranza dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984; un progetto che però non ebbe riscontro positivo, considerato che gli Stati europei approveranno il più riduttivo Atto Unico Europeo nel 1986.
La fine degli anni ’70 e successivi segna anche un rinnovato impegno politico-intellettuale di Albertini, nella convinzione che la congiuntura storica poteva forse offrire al federalismo l’occasione di imporsi appieno come strumento di composizione mondiale nel segno della pace37. La congiuntura di un mondo cioè che appariva dominato dal bipolarismo costituito delle due superpotenze USA e URSS, ed in cui la minaccia nucleare sembrava farsi sempre più concreta. Minaccia che poteva essere scongiurata secondo Albertini non solo con la distruzione delle armi nucleari esistenti, ma impedendo inoltre realmente la possibilità di costruirne di nuove. La via obbligata per conseguire tale risultato e garantire una pace duratura imponeva ormai la creazione di una democrazia internazionale, e quindi uno Stato internazionale, fondato sulla volontà di tutti i paesi e di tutti gli uomini, effettivamente in grado pertanto di garantire la sicurezza e gli interessi di ogni paese e di ogni uomo. Transitoriamente comunque Albertini intravedeva ed auspicava, come fase intermedia, la possibilità del passaggio da un mondo bipolare ad un mondo multipolare il quale, facendo perno su una Comunità europea veracemente compiuta, avrebbe potuto determinare una reale situazione di appianamento dei conflitti38. In tale contesto, ed in prospettiva, la cultura federalista, l’unica che non separa la politica interna da quella internazionale, e che non si pone in maniera alternativa e quindi antagonista agli orientamenti politico-culturali tradizionali, cioè quello liberale, democratico e socialista, ma anzi integrativa, avrebbe potuto collaborare con essi per una affermazione sempre più completa e universale dei valori di eguaglianza e libertà. Valori realizzabili però compiutamente solo mediante quello della pace, la quale nel federalismo trova la sua autentica e più congrua collocazione morale, istituzionale e storica. Ed è a tal proposito che la Comunità europea poteva dunque rappresentare per Albertini un laboratorio di vitale importanza, in quanto il passaggio da una situazione in cui il federalismo è solo motivato dalla buona volontà, ad una nella quale esso avrà invece il carattere di un’idea socialmente riconosciuta, riceverà una forte spinta dalla completa trasformazione della Comunità. Realizzando infatti un governo democratico di una società di nazioni indipendenti ed eguali, nell’ambito di una legge costituzionale, l’Europa verrebbe a costituire un modello per tutti coloro che vogliono affrontare i problemi della pace e della giustizia internazionale. E questo partendo dalla creazione insomma di grandi federazioni regionali, premessa della stessa trasformazione dell’ONU in una autentica federazione mondiale39.
Sul piano più strettamente dell’azione politica, la proiezione per così dire “mondialista” di Albertini si tradurrà nella creazione nel 1987, insieme ad altri esponenti del MFE, del Movimento Federalista Mondiale, il quale verrà ammesso nella World Association for World Federation40. Albertini quindi agirà in quest’ultima sua stagione cercando di coniugare, sia sul piano teorico che sul piano politico, la fase europea e quella mondiale del federalismo. In questo modo, si può dire, chiude il cerchio del suo lungo e articolato itinerario politico-intellettuale. Un itinerario che presenta una notevole linearità e corrispondenza fra premesse e conclusioni, sia nel percorso dell’azione politica e sia anche in quello puramente teorico. Percorsi che si supportano vicendevolmente, delineando un doppio nesso storico-ideale; vale a dire quello fra crisi dello Stato nazionale e federazione europea, e quello fra federazione europea e federazione mondiale. Il contributo di Albertini alla causa del federalismo europeo è quindi sicuramente ravvisabile nella sua attività militante, alla guida del MFE anche in momenti difficili, riuscendo sempre a definire con estrema chiarezza quelli che dovevano essere gli obbiettivi del Movimento e il modo di acquisirli. Ma ancor di più, pare a noi, nel suo lavoro intellettuale, che conferisce all’aspetto teorico del federalismo europeo quella compiutezza che gli fa acquisire indipendenza per la sua esistenza di corrente autonoma di pensiero. E questo anche nei confronti del verificarsi o meno di determinati eventi congiunturali, in quanto ormai latore di un progetto universale, non necessariamente legato a una fase storica di breve periodo.








NOTE
1 Il presidente americano Wilson, enunciando i suoi quattordici punti nel gennaio 1918, indicava proprio al quattordicesimo di questi la necessità di creare una associazione generale di nazioni ai fini di una pace duratura. Cosa questa che era stata da lui già anticipata nel discorso tenuto al Senato nel gennaio 1917, dove aveva parlato dell’esigenza di creare non un equilibrio ma una comunità di forze; non dunque rivalità organizzate, ma una organizzazione della pace comune. Su quest’ultimo punto cfr. M.L. Salvadori, L’Europa degli americani-Dai padri fondatori a Roosevelt, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 422-443; ed inoltre C. Malandrino, Socialismo e libertà. Autonomie, federalismo e Europa da Rosselli a Silone, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 39-41. Nel testo di Malandrino, in particolare, si sottolinea come in Italia l’impatto con le teorie di Wilson risultasse stimolante soprattutto tra le forze progressiste e socialiste moderate. Infatti il complesso dei punti wilsoniani, e non solo il quattordicesimo quindi, sembrava poter anche dare adeguato spazio al sogno che era stato di Saint Simon, Mazzini e Cattaneo; e cioè quello della nascita degli Stati Uniti d’Europa. Anche se questo, bisogna aggiungere, sembrava poter essere il risultato finale di un progressivo processo di consociazione tra le nazioni europee; il nuovo assetto delle quali ne rese invece sempre più problematico il conseguimento, compromettendone drammaticamente l’auspicato esito fino al secondo dopoguerra.^
2 Cfr. Junius (L. Einaudi), La Società delle Nazioni è un ideale possibile? ed anche Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni in L. Einaudi, La guerra e l’Unità europea, Milano, Edizioni Comunità, 1950, pp. 11-33. Einaudi contrapponeva come esempio la breve vita della Confederazione americana (dal 1781 al 1787), periodo definito di anarchia ed egoismo, alla nascita della Federazione nel 1788, che segna l’inizio dello sviluppo della potenza statunitense. Egli tuttavia si dimostrava prudentemente realista nel momento in cui configurava la nascita di un’eventuale federazione in Europa come processo a tappe, ipotizzando in una prima fase unioni di blocchi di paesi omogenei culturalmente. È anche vero che in lui forse in questa fase sono presenti resistenze ad abbandonare categorie care, poiché legate ad una cultura risorgimentale, come quelle di nazione e patria. Resistenze che si attenueranno anni dopo in piena II Guerra Mondiale, quando Einaudi arriverà a proporre senza indugi la Federazione economica europea. Id., Per una Federazione economica europea, in Ivi, pp. 35-78. Comunque, per un più ampio quadro sul pensiero federalista di Einaudi, cfr. U. Morelli, Contro il mito dello Stato sovrano, Milano, Franco Angeli, 1990; inoltre S. Pistone (a cura di), L’idea dell’unificazione europea, Torino, Fondazione L. Einaudi, 1975, pp. 25-37. Ci sia consentito infine rinviare ad A. Petrone, Luigi Einaudi e le origini italiane del federalismo europeo, in SinTesi, 4 (2004), n. 5, pp. 128-134.^
3 Cfr. G. Agnelli, A. Cabiati, Federazione o Lega delle Nazioni?, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1918.^
4 Cfr. C. Malandrino, op. cit., pp. 45-55; inoltre S. Pistone (a cura di), op. cit., pp. 36-37.^
5 Per orientarsi sulla questione autonomismo e federalismo cfr. A. Landuyt, Autonomismo e federalismo, ed anche C. Rognoni Vercelli, Autonomismo e federalismo nella Resistenza, in D. Preda, C. Rognoni Vercelli (a cura di), Storia e percorsi del federalismo, Bologna, il Mulino, 2005, tomo II, pp. 585-602, pp. 603-646. Nel saggio della Landuyt in particolare si osserva come nel periodo successivo al primo dopoguerra, e nel contesto del dibattito sulla riforma dello Stato, il tema del decentramento venisse affrontato da varie aree politiche di ispirazione democratica e repubblicana, ma anche socialista riformista, incluso particolarmente il movimento Giustizia e Libertà, in maniera diversificata e articolata. Il passaggio dal piano nazionale al piano internazionale era il portato della consapevolezza del fatto che i regimi fascisti, considerati come esito ultimo della degenerazione dell’accentramento statale, potevano essere sconfitti solo sul piano europeo. Quindi autonomismo e federalismo andrebbero configurati come due aspetti dello stesso problema. L’interdipendenza dei due livelli di discussione viene sottolineata anche nel saggio della Rognoni Vercelli, la quale mette tuttavia in luce le differenze fra i due aspetti.^
6 In tal senso Dino Cofrancesco sottolinea che è sicuramente merito di Rosselli, e per esso del movimento Giustizia e Libertà, quello di aver evidenziato, unico raggruppamento di sinistra, assieme alla corrente federalista, il destino di morte incombente sugli Stati nazionali e l’incapacità delle dottrine tradizionali a comprendere la genesi delle dittature, assieme alla conseguente inettitudine dei partiti che a quelle dottrine si richiamavano. Ma è anche vero che ad avviso di Cofrancesco, secondo una lettura forse alquanto riduttiva, Rosselli continuava a pensare allo Stato nazionale come al quadro naturale di ogni agire politico. Egli sicuramente immaginava una collaborazione stretta fra gli Stati europei, finalizzata però all’obiettivo di far sì che ciascuno potesse vivere più comodamente possibile nel proprio spazio. Cfr. D. Cofrancesco, Il contributo della Resistenza italiana al dibattito teorico sull’unificazione europea, in S. Pistone (a cura di), op. cit., pp. 135-136. Non va tuttavia a nostro avviso sottovalutato il significato profondo della polemica, a largo raggio e con molteplici implicazioni, presente in alcune considerazioni di Rosselli, prefiguranti anche scenari federalisti sopranazionali, espresse già nel 1928 in Socialismo liberale: «Nel progressivo specificarsi e individualizzarsi dei vari movimenti socialisti europei, non si deve scorgere il sintomo del fallimento dell’ideale universalistico del socialismo. Al contrario, vi si deve riconoscere il segno del trapasso dall’astratto al reale, un momento fondamentale e ineliminabile nel cammino ascensionale delle masse, le quali non sono in grado di passare di colpo dallo spirito di categoria e di campanile, alla comprensione piena e vissuta di una solidarietà mondiale. La comunità dei popoli postula i popoli come entità a sé stanti, coi loro originali motivi di sviluppo: solo una sintesi organica delle varie comunità nazionali porterà un giorno alla federazione delle nazioni. […] la negazione iniziale dei valori nazionali da parte dei precursori socialisti fu la naturale reazione allo stato di profonda inferiorità e oppressione fatta alle masse. Il loro internazionalismo fu soprattutto polemico e non costruttivo. La classe lavoratrice, accostumata a vedere nello Stato lo strumento di una oppressione di classe, coinvolse fatalmente nella condanna e nell’odio anche quella patria che è invece espressione simbolica di una comunanza innegabile di storia e di destino. Oggi che le masse, nei paesi più progrediti, si vedono riconosciuta piena parità di diritti […] il vieto internazionalismo che nega o rinnega la patria è un controsenso […]. La guerra ha dimostrato di quale forza il mito nazionale sia dotato […] se i socialisti si ostineranno a ignorare i valori più alti della vita nazionale, non faranno che facilitare il giuoco delle altre correnti che sullo sfruttamento del mito nazionale basano le loro fortune». C. Rosselli, Socialismo liberale, a cura di J. Rosselli, Torino, Einaudi, 1973, pp. 477-478.^
7 Cfr. C. Malandrino, op. cit., pp. 125-129.^
8 Cfr. S. Pistone (a cura di), L’Italia e l’unità europea, Torino, Loescher Editore, 1982, p. 64.^
9 Ivi, pp. 64-67. Sembrano pertanto a questo punto condivisibili le considerazioni di Malandrino, il quale coglie l’importanza dello sforzo di Rosselli, anche in polemica con le altre forze concetrazionistiche (in particolare i socialisti), di ricondurre le manifestazioni internazionalistiche o “societaristiche”, rivelatesi sterili, ad una più concreta concezione che si potrebbe definire di “europeismo rivoluzionario”. Un europeismo rivoluzionario il cui spirito ben si evidenzia in un brano inedito, riportato da Malandrino, in cui Rosselli così si esprime: «Bisogna sviluppare un patriottismo, un nazionalismo europeo, non nel senso degenerato che ha preso questa espressione. D’altronde la differenza stessa delle parti, lingua, cultura, civiltà, obbliga a fissare una intelaiatura elastica: Stati Uniti d’Europa ha, nella presente situazione, il valore di una idea forza e di una idea forza universale». Cfr. C. Malandrino, op. cit., pp. 144-145. Questi temi sono stati più di recente trattati e ampliati in Idem, Idea d’Europa e federalismo in Carlo Rosselli, in T. Casadei (a cura di), Repubblicanesimo, democrazia, socialismo delle libertà. Incroci per una rinnovata cultura politica, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 71-94.^
10 Cfr. F. Rossolillo, Il federalismo e le grandi ideologie, in L. Levi, G. Montano, F. Rossolillo, Tre introduzioni al federalismo, Napoli, Guida Editori, 2005, pp. 51-53.^
11 La prima stesura del Manifesto di Ventotene è del giugno 1941, ma quella definitiva, che verrà data alle stampe, in una Roma ancora sotto occupazione tedesca, è del gennaio 1944. Quest’ultima conterrà, oltre alla prefazione di Eugenio Colorni (il quale si era anche preoccupato di provvedere alla stampa), altri due scritti di Spinelli: Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche, scritto nel 1942, e Politica marxista e politica federalista, scritto fra il 1942 e il 1943. Il testo in questione si apre con la prefazione di Colorni, il quale individua l’importanza determinante di un’idea non del tutto nuova, quella cioè che vede come causa ultima della guerra in atto l’esistenza stessa di Stati sovrani e indipendenti, ritenendo necessario ad ogni modo prendere in considerazione una serie di altri aspetti. Innanzitutto, ad avviso critico di Colorni, la illusorietà della soluzione internazionalistica presente nel programma di tutti i partiti politici progressisti, considerata da questi ultimi sin troppo fideisticamente come una conseguenza necessaria e quasi automatica del raggiungimento dei fini da ciascuno di essi perseguiti. In secondo luogo, quello che induceva ad accentuare in modo autonomo e polemico la tesi federalista, era l’avversione alla tradizionale e miope convinzione di considerare i problemi dell’ordinamento internazionale come questioni di politica estera, da risolversi mediante accordi fra governi, e partendo dunque dal presupposto dell’esistenza dello Stato nazionale come dato permanente. Infine, cosa più importante, la federazione europea, preludio di quella mondiale, se poteva essere ritenuta un’utopia sino a qualche anno prima, sarebbe potuta divenire possibile alla fine della guerra.
Nel primo paragrafo del Manifesto vengono individuati i punti ritenuti come caratterizzanti la crisi della civiltà moderna. La nazione, pervenuta dopo un lungo processo storico all’indipendenza, non è ormai più il luogo dove gli uomini possono organizzare la propria vita collettiva in modo efficace, ma un’entità fine a se stessa. La sovranità assoluta ha portato alla volontà di dominio, e alla necessità di acquisire nuovi territori per vivere senza dipendere da alcuno. Nel contempo, il processo di correzione delle ingiustizie sociali, anche sulla scia del principio che tutti i cittadini partecipano alla formazione della volontà dello Stato, si è progressivamente ridimensionato, fino a cristallizzarsi nei regimi totalitari. Ma la crisi della civiltà è superabile proprio attraverso l’unità europea, secondo quanto viene argomentato nel secondo paragrafo, nel quale si mette in guardia dal tentativo delle forze reazionarie di evitare il crollo dello Stato nazionale, garante dei loro storici privilegi. Di qui la nuova discriminante fra partiti progressisti e reazionari, cioè quella fra chi avrà come scopo politico la conquista del potere nazionale, e chi invece quello della formazione di uno Stato sopranazionale. Nel terzo paragrafo, si stabilisce infine un progetto di riforma della società che, passando attraverso una rivoluzione europea e socialista, avrebbe dovuto portare all’emancipazione delle classi lavoratrici, realizzando per esse condizioni di vita più umane. Cfr. A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Napoli, Guida Editori, 1982, pp. 15-44. L’importanza di questo testo, a giusta ragione considerato ormai un classico della letteratura federalista europea, è confermata anche dalle molteplici edizioni che gli sono state dedicate. L’ultima delle quali, corredata da un cospicuo saggio di Lucio Levi, è datata 2006. Cfr. A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Milano, Mondadori, 2006.^
12 Spinelli e Rossi avevano una differente provenienza politica. Spinelli proveniva dalle fila del Partito comunista da cui era stato espulso nel 1937 per contrasti riguardo la linea politica ufficiale del partito nei confronti delle epurazioni staliniane. Rossi aveva partecipato all’esperienza di GL, anche se il suo arresto nel 1932 era avvenuto prima che GL come movimento politico si fosse dato un programma, e prima quindi anche della svolta per così dire “federalista” di Rosselli. L’incontro fra i due autori del Manifesto fu comunque molto proficuo, in quanto Rossi tramite Einaudi (con il quale aveva stretto, conoscendolo alla Università Bocconi di Milano, un rapporto di amicizia e di reciproca stima) riuscì a far circolare al confino alcuni testi fondamentali sull’idea di federazione europea. Si pensi agli stessi articoli di Einaudi scritti con lo pseudonimo di Junius, oltre ai testi di Lionel Robbins. Cfr. P. Graglia, Unità europea e federalismo, Bologna, il Mulino, 1996, pp. 102-103. L’azione politica di Spinelli e Rossi sarà parecchio sinergica; tuttavia Rossi, dopo il fallimento della CED, si dedicherà maggiormente a questioni di politica nazionale. Per ulteriori approfondimenti sulla visione federalista di Rossi, cfr. A. Braga, Nazionalismo, federalismo e autonomie nel pensiero di Ernesto Rossi, in D. Preda, C. Rognoni Vercelli (a cura di), op. cit., tomo II, pp. 809-859. La Braga nel suo saggio sottolinea l’importanza del testo più organico e sistematico dedicato da Rossi al problema della federazione europea: Gli Stati Uniti d’Europa, pubblicato con lo pseudonimo di Storeno nell’estate del ’44. Per una recente edizione del testo cfr. E. Rossi, L’europa di domani, a cura di A. Amato, Napoli, Guida Editore, 1999.^
13 La convinzione dell’ormai imminente fine dello Stato nazionale in Spinelli andò incrinandosi già poco dopo la fine della guerra. E questo perché ovviamente anche l’Italia, paese vinto, andava riorganizzandosi sulle vecchie strutture proprie dello Stato nazionale. Le stesse forze politiche tradizionali, a guerra conclusa, pur utilizzando l’europeismo come bandiera, ripiegarono su problematiche politiche interne, essendo oltremodo restie in buona parte ad abbandonare categorie politiche note (come quella della sovranità dello Stato). Si possono capire quindi gli sforzi di Spinelli nel tentativo di indirizzare sul percorso federalista il PdA (cui aveva aderito già sul finire del 1943) per quanto riguardava gli aspetti internazionali del programma. Cfr. A. Spinelli, La rivoluzione federalista, a cura di P. Graglia, Bologna, il Mulino, 1996, pp. 51-52; 64-65; 72-73. Egli riteneva il comportamento delle forze politiche tradizionali non idoneo a risolvere i gravissimi problemi che la guerra aveva posto, continuando a ritenere ormai obsoleto lo Stato-nazione, anche e soprattutto alla luce degli scenari internazionali che andavano configurandosi. E questo persino quando, con il fallimento della CED (1954), diveniva sempre più palese il fatto che in Europa lo Stato nazionale non solo non era scomparso, ma era riuscito anche (vuoi in parte per una concomitanza di eventi storici) a indirizzare e condizionare il neonato processo di integrazione europea. Idem, Europa terza forza, a cura di P. Graglia, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 350-351.^
14 Infatti sia Francia che Inghilterra non potevano più considerarsi potenze di prima grandezza a livello internazionale. La Francia perché dopo la sconfitta del 1940 non si era più ripresa nonostante il riconoscimento dello status di paese vincitore ottenuto dal movimento del Generale De Gaulle. L’Inghilterra, dopo la sconfitta di Churchill alle elezioni del ’45, con la conseguente vittoria dei laburisti, palesò a sua volta l’incapacità di mantenersi allo stesso livello di potenza precedente, concedendo l’indipendenza all’India e chiedendo agli americani di sostituirsi ad essa nel controllo del Mediterraneo orientale.^
15 Cfr. L. Levi, Lo sviluppo dell’autonomia teorica del federalismo, in L. Levi, G. Montano, F. Rossolillo, op. cit., pp. 112-115.^
16 Cfr. F. Terranova, Il federalismo di Mario Albertini, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 2-7. Per quanto riguarda l’attegiamento di rifiuto della nazione come valore ideale, appare rivelatorio un articolo di Albertini del 1947 dal titolo L’amore dell’Italia nell’Europa in M. Albertini, Tutti gli scritti, I, (1946-1955), Bologna, il Mulino, 2006, pp. 135-138. Sulla necessità di trascendere il piano nazionale nella lotta per una compiuta realizzazione della democrazia, nel 1948 Albertini così si esprimeva: «Non si può più difendere la democrazia nel ristretto quadro d’una ripetizione del passato, non si può più volere la libertà senza rendersi conto che la sua articolazione politica non è nazionale ma europea». Ivi, p. 168.^
17 Cfr. M. Albertini, Discussioni federaliste, in «Europa federata», 7 (1954), luglio-agosto. In definitiva per Albertini l’azione politica reale impostata dai partiti, e resa esecutiva dai governi, non è onnipotente, ma ha le sole possibilità assegnatele da limitate libertà di manovra, che sono poi quelle del quadro politico, sociale ed economico nazionale; ma nel campo nazionale le possibilità di questa politica stanno sotto il livello di risoluzione dei grandi problemi della democrazia; Idem, Il piano della nostra azione, in «Europa federata», 9 (1956), maggio.^
18 Cfr. F. Terranova, op. cit., p. 10.^
19 Cfr. M. Albertini, La formula del Movimento, in «Europa federata», 8 (1955), settembre; Idem, La formula del Movimento oggi, in «Europa federata», 8 (1955), ottobre. Ancora sul tema dei limiti della democrazia nazionale, in particolare per quanto riguarda i partiti, Idem, Ideologismo ed opportunismo della democrazia italiana, in «Europa federata», 8 (1955), novembre.^
20 Non a caso Albertini, a proposito della necessità di superare un motivo, secondo lui divenuto inconscio, quale quello del rispetto della vita politica nazionale; un motivo che ha subordinato dalla Rivoluzione francese in poi tutti gli altri valori, e persino quelli religiosi, divenendo un principio cui tutti devono suprema fedeltà, richiama un passo di Machiavelli: «È necessario esaminare […] se questi innovatori stanno per loro medesimi o se dipendono da altri cioè, se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, ovvero possono forzare. Nel primo caso capitano sempre male, e non conducono cosa alcuna; ma, quando dipendono da loro propri e possono forzare, allora è che rare volte periclitano». Quindi per Albertini la scelta politica tra pregare e forzare, cioè tra rispettare la vita politica nazionale o non rispettarla, non poteva che essere la seconda. Cfr. M. Albertini, Pregare o forzare, in «Europa federata», 10 (1957), settembre.^
21 Per Albertini soltanto con la nascita del popolo europeo diveniva possibile passare alla fase successiva, tesa a costruire l’Europa federata. L’esistenza di un popolo europeo, parafrasando Spinelli, necessitava però di quattro condizioni: problemi comuni, diritti e doveri comuni, consenso popolare effettivo. I singoli Stati nazionali in Europa non soddisfacevano più a questi requisiti, essendo ormai incapaci di controllare problematiche non più di dimensioni statali. Di qui insomma l’esigenza di un popolo europeo, e cioè di uno spazio politico capace di affrontare problemi di tale dimensione. Cfr. M. Albertini, La nascita del popolo europeo, in «Europa federata», 9 (1956), gennaio. Sempre in tal senso, e schematizzando i tre gradi di coscienza del militante europeo, Albertini riteneva che il primo, quello della consapevolezza morale, fosse ormai superato, poiché soprattutto dal dopoguerra in poi si era diffuso un certo favore nell’opinione pubblica nei confronti dell’unità federale europea. Il secondo, quello della presa di coscienza intellettuale sul fatto che determinati problemi erano risolvibili solo nella dimensione europea non poteva avere sbocco fin quando, oltre al problema, non si fosse studiata anche l’azione idonea per risolverlo. Sul terzo, quello della volontà politica, Albertini così si esprime: «Al terzo, finalmente si comprende che lo Stato-nazione è contro l’azione democratica perché impedisce alle forze politiche, sinché restano legate alla sua vita, di condurre l’azione per sorpassarlo». Il CPE diventa così l’organizzazione politica rappresentativa di questa presa di coscienza, perché oppone alla vita politica nazionale un germe totale di vita politica europea. Quando esso comincerà a vivere, il popolo europeo avrà il suo interlocutore. Idem, I tre gradi dei militanti europei, in «Europa federata», 9 (1956), settembre. Una versione precedente ma più sintetica di queste considerazioni era stata già anticipata; Idem, Guardando al «Congresso» del popolo europeo, in «Europa federata», 8 (1955), giugno.^
22 Cfr. S. Pistone, Altiero Spinelli e Mario Albertini: La Costituente europea, in D. Preda, C. Rognoni Vercelli (a cura di), op. cit., tomo II, pp. 904-905.^
23 Cfr. F. Terranova, op. cit., pp. 167-170. Terranova a tal proposito suggerisce che mentre Spinelli sembra guidato da una sorta di “ragion storica” hegeliana, indirizzata al raggiungimento del fine, Albertini kantianamente è orientato nell’adesione dell’azione ai valori. Non ci sembra forzare troppo il discorso richiamando, a nostra volta, la distinzione weberiana fra “etica della responsabilità” ed “etica dell’intenzione”.^
24 M. Albertini, La linea politica, in «Popolo europeo», 4 (1961), agosto. Albertini auspicava per il MFE l’apertura di un dibattito teorico sulla forma d’azione più conveniente per il raggiungimento della dimensione europea. Infatti qualunque azione intrapresa senza una base organizzativa europea non poteva che risultare nazionale nell’esecuzione e perciò nei suoi effetti. Egli inoltre riteneva che nel MFE non potevano coesistere tendenze ad agire diverse, cioè come gruppo di pressione, come partito, come movimento, poiché queste si neutralizzavano a vicenda in quanto comportavano azioni di segno contrario: combattere o corteggiare i partiti, accettare o rifiutare il campo politico nazionale, cfr. M. Albertini, Un duplice impegno per i federalisti: sviluppare il dibattito e raggiungere la dimensione europea, in «Popolo europeo», 5 (1962), gennaio.^
25 Cfr. S. Pistone, Il passaggio della leadership del Movimento federalista europeo da Altiero Spinelli a Mario Albertini, in Atti del Convegno Europeismo e federalismo in Lombardia, di prossima pubblicazione.^
26 Cfr. M. Albertini, Un governo per l’Europa, in «Giornale del Censimento», 1 (1965), aprile; Idem, Quale Europa, in «Giornale del Censimento», 1 (1965), dicembre, ed infine Idem, Una partita al buio, in «Giornale del Censimento», 2 (1966), aprile. Che l’Europa potesse e dovesse rappresentare un polo autonomo nella vita internazionale, costituendo in tal modo una “terza forza”, veniva sostenuto in quel periodo ed oltre anche da Spinelli, così come risulta da una raccolta di suoi scritti in proposito. Cfr. A. Spinelli, L’Europa tra Ovest e Est, a cura di C. Merlini, Bologna, il Mulino, 1990. Una raccolta di scritti questa da qualcuno giudicata come esempio della sostanziale incomprensione della condizione internazionale dell’epoca anche da parte di un federalista sicuro, appassionato e certamente non antiamericano come Spinelli. In tal senso cfr. A. Battaglia, Europa lenta, Europa larga, in «L’Acropoli», 7 (2006), pp. 32-33 (nota 15). Il saggio di Battaglia, sin dal titolo, si ricollega alle meditate e profonde riflessioni che Giuseppe Galasso, or è un quinquennio, ha preposto all’ultima edizione della sua magistrale Storia d’Europa. Cfr. G. Galasso, Un’Europa più debole o un’Europa più lenta?, in Storia d’Europa, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. VII-XXIV.^
27 Ci riferiamo in particolare alle seguenti opere: Stato nazionale del ’58; Idea nazionale e ideali di unità supernazionali in Italia dal 1815 al 1918 del ’61; Il federalismo e lo Stato federale del ’63.^
28 Cfr. M. Albertini, Lo Stato nazionale, Bologna, il Mulino, 1997, p. 15.^
29 Cfr. L. Levi, La teoria della nazione, in «Il Federalista», n. 2, 1998, p. 122. Va qui segnalato che in una sua importante ed ampia rassegna critica, Marco Cuaz ha messo in luce come l’idea della “naturalità” della nazione abbia dominato la storiografia europea fino alla seconda guerra mondiale. Questa tesi “perennista”, denunciata oggi largamente come un’autogiustificazione del nazionalismo, è stata a suo avviso sottoposta a revisione radicale da federalisti come Albertini. Intento questi fra i primi ad «individuare nell’identità nazionale l’ideologia dello stato moderno burocratico e centralizzato, la cui funzione era di creare e mantenere un sentimento di fedeltà dei cittadini verso lo stato». M. Cuaz, L’identità ambigua: L’idea di «Nazione» tra storiografia e politica, in «Rivista Storica Italiana», 110 (1998), p. 604. Albertini tiene a precisare il carattere convenzionale del termine da lui adottato di “nazionalità spontanea”, con il quale intende mettere in evidenza certi elementi quali la lingua, il costume ecc. Distinguendo nettamente dunque con l’aggettivo “spontanea” una fase storica nella quale essi non erano ancora legati allo Stato burocratico da quella, qualitativamente diversa, nella quale invece lo sono. In realtà la parola “nazione” in età premoderna era uno dei termini generici che si attribuivano a situazioni di omogeneità riguardanti gli elementi sopracitati, ma anche a situazioni completamente diverse. Il termine “nazione” viene collegato ad un solo ordine di fatti soltanto facendo riferimento ai fenomeni nazionali moderni. Cfr. M. Albertini, Nazionalismo e federalismo, Bologna, il Mulino, 1999, p. 42.^
30 Cfr. M. Albertini, Lo Stato nazionale, cit., p. 21.^
31 Cfr. L. Levi, La teoria della nazione, cit., p. 123. Da tutto quanto più sopra detto risulta chiaro che il concetto di “comportamento nazionale” è utilizzato da Albertini per dissolvere criticamente ogni forma di entificazione di una realtà sovraindividuale. Ed in effetti, a suo avviso, «parlare di nazioni equivale a parlare dei “comportamenti nazionali” degli individui che compongono tali gruppi». M. Albertini, Lo Stato nazionale, cit., p. 115.^
32 Cfr., Ivi, pp. 121-123, p. 137 ed anche pp. 144-145. Inoltre cfr. anche M. Albertini, L’idea di nazione, in «Giornale del Censimento», 1 (1965), novembre. Operando una rilevante distinzione fra la “nazionalità spontanea” di territorio e quella di cultura, Albertini così precisa significativamente le implicazioni del suo pensiero: «Le nazioni,essendo solo il riflesso ideologico dello Stato burocratico accentrato, non sopravviveranno alla sua fine. Le “nazionalità spontanee” che dipendono dalla spontaneità del costume (“nazionalità spontanee” di territorio) e della cultura (“nazionalità spontanee” di cultura) no. Dante, Descartes, Cervantes, Shakespeare, Kant, Dostojevskij non sono stati generati dal potere politico e nessun potere politico potrà distruggerli». Cfr. M. Albertini, Nazionalismo e federalismo, cit., p. 56. Interessanti, sulle argomentazioni utilizzate da Albertini a proposito di Stato-nazione, sono i rilievi fatti da Franco Goio. Per Goio la formulazione di Albertini sembra essere più convincente nel descrivere il passaggio dal fatto della nazione (cioè i comportamenti unificati dal e nel quadro statale) all’idea di nazione, che non il passaggio dal fatto e dalla idea della nazione al valore della nazione. La particolare versione bergmanniana del concetto di ideologia che Albertini propone enfatizza non tanto la forza motivazionale che un valore acquista presentandosi nella forma simbolica del fatto, quanto la rappresentazione che i valori medesimi danno dei fatti. Quindi l’effetto principale dell’iter argomentativo di Albertini sarebbe quello di mostrare la genesi logica, oltre che storica, dell’idea di nazione come rappresentazione incorporata in un valore; non quella di mostrare per quali percorsi questo valore sia venuto in essere. Cfr. F. Goio, Teorie della nazione, in «Quaderni di Scienze Politiche», 1 (1994), n. 2, pp. 212-213. Sull’acquisizione critica del concetto di ideologia di Gustav Bergmann da parte di Albertini, facciamo cenno in seguito.^
33 Albertini identifica tre fasi dello sviluppo del federalismo, ciascuna corrispondente ad un ciclo della storia europea. La prima che va dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale, in cui il federalismo diviene necessario per dare espressione anche solo utopica a quei valori della civiltà europea negati o ridimensionati dall’affermazione del nazionalismo. La seconda fase, quella che comprende il periodo fra le due guerre mondiali, è caratterizzata dal ricorso al federalismo per capire a fondo la crisi europea. La terza fase, apertasi dopo la seconda guerra mondiale, segna infine il ricorso al federalismo per risolvere la crisi europea. Cfr. M. Albertini, Il federalismo, Bologna, il Mulino, 1993, p. 8. Inoltre, l’aver considerato quale archetipo della forma federale gli Stati Uniti d’America, implica che la democrazia rappresentativa diventi requisito essenziale delle istituzioni federali. Non possono pertanto essere considerate federali, ad avviso di Albertini, tutte quelle formazioni politiche precedenti, che si configurano tutt’al più come precorritrici del federalismo. Cfr. L. Levi, Il federalismo dalla comunità al mondo, in «Il Federalista», n. 3, 2002, p. 228.^
34 Cfr. M. Albertini, Il federalismo, cit., pp. 19-23; pp. 53-56; pp. 102-103. Per Albertini, in sostanza, il federalismo è la formula politica che consente di riorganizzare la distribuzione del potere politico conferendo autonomia a tutti i livelli di governo, dalle comunità locali a quella sopranazionale.^
35 Cfr. Ivi, pp. 91-94.^
36 Cfr. M. Albertini, Un progetto di manifesto del federalismo europeo, in «Popolo europeo», 4 (1963), maggio, ed anche Id., Il corso della storia, in «Il Federalista», n. 2, 2003, pp. 100-105.^
37 È chiarificatoria in proposito l’analisi di Sergio Pistone, il quale si mantiene sulla linea di Albertini, circa il rapporto fra teoria federalista e teoria della ragion di Stato. Egli sottolinea come questo rapporto non sia configurabile in termini di identificazione, bensì piuttosto come convergenza sostanziale per quanto riguarda la conoscenza della realtà politica e divergenza sul piano degli orientamenti valutativi. Sostanzialmente la conoscenza delle leggi della politica ottenute dagli insegnamenti della teoria della ragion di Stato è impiegata dai federalisti al servizio della pace anziché della potenza del proprio Stato, come avviene invece con i realisti politici. Questo rapporto complesso è l’elemento che distingue la posizione dei federalisti da quelle degli internazionalisti e dei pacifisti. Rispetto ai quali vi è convergenza sul piano dei valori (in particolare la pace) e divergenza per quanto riguarda gli strumenti con cui realizzarli. Inoltre, la chiara visione che l’approccio realistico rende possibile l’individuazione delle leggi che regolano l’acquisto e il mantenimento del potere, costituisce la premessa della capacità dei federalisti di definire una adeguata strategia della lotta politica per la realizzazione della pace. Cfr. S. Pistone, Federalismo e ragion di Stato, in «Il Federalista», n. 3, 2002, p. 244. Sempre su questo argomento sono altrettanto interessanti, sulla linea di Albertini, le considerazioni di Pistone sul pensiero politico di Kant e Hamilton, ed in particolare sul loro contributo all’analisi del rapporto pace e democrazia. Sia Kant che Hamilton convergono con il realismo politico nella valutazione dell’anarchia internazionale come causa strutturale della guerra, ma se ne distaccano nel momento in cui sostengono che l’anarchia può essere superata con il federalismo. Entrambi infatti vedevano nel federalismo lo strumento in grado di superare la sovranità statale assoluta, la quale garantisce i rapporti pacifici all’interno dello Stato, ma nello stesso tempo è causa della guerra nei rapporti fra gli Stati. Entrambi gli autori classici esprimono inoltre la convinzione che il sistema liberaldemocratico può realizzarsi durevolmente solo in una situazione di pace internazionale. Ciò perché, in una situazione di guerra strutturale, cioè quando la guerra è sempre possibile, le necessità della sicurezza hanno il primato su quelle della libertà e della democrazia, favorendo tendenze autoritarie. Cfr. S. Pistone, La pace come condizione della democrazia, in «Il Federalista», n. 2, 2005, pp. 71-73. A proposito della diade pace e guerra in Albertini cfr. M. Albertini, Nazionalismo e federalismo, cit., pp. 168-169.^
38 Cfr., Ivi, pp. 184, p. 191 e p. 197. In tal senso pertinenti sono le considerazioni di Lucio Levi su Albertini per quanto riguarda il rapporto che egli pone tra governo mondiale e controllo del processo storico. Con il governo mondiale la politica cessa di essere il risultato dello scontro anarchico tra gli Stati e può diventare oggetto di scelte libere e democratiche. I fini della politica non sono più condizionati dalla pressione della necessità, ma decisi dalla ragione. Da qui il «passaggio da una storia a carattere deterministico ad una guidata dalla libertà». Cfr. L. Levi, Il federalismo dalla comunità al mondo, cit., p. 239.^
39 Cfr. M. Albertini, Nazionalismo e federalismo, cit., pp. 181-182; 203-204; 209-210. Nella sua nutrita introduzione al primo volume di Tutti gli scritti di M. Albertini da noi già citati, e proprio or ora pubblicati, Nicoletta Mosconi sull’argomento in modo pertinente sottolinea che «l’impegno politico dei federalisti per la creazione della Federazione europea acquista un senso compiuto solo se proiettato verso l’unificazione del mondo». Ivi, p. 67. È questa in sostanza la differenza fra federalisti ed europeisti.^
40 Cfr. F. Terranova, op. cit., p. 20.^
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