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Thomas Mann e la consanguineità europea
di Fabio Guidali
Lasciandosi alle spalle il Colosseo e inerpicandosi lungo l’antico stradone di S. Giovanni, percorso un tempo dai cortei papali in direzione del palazzo del Laterano, si costeggia una delle più notevoli basiliche di Roma, consacrata a San Clemente, terzo successore di San Pietro e venerato come martire. L’ingresso posto sul fianco dell’edificio consente, una volta scesi alcuni gradini e messi i piedi sul pavimento cosmatesco, l’accesso alla chiesa superiore a tre navate, in cui convivono stili di epoche diverse, come testimoniano l’imponente mosaico dell’abside risalente al XII secolo, la schola cantorum, le quattrocentesche Storie di S. Caterina d’Alessandria di Masolino da Panicale e i soffitti e gli affreschi di tre secoli dopo. Dalla sacrestia si fa ingresso nella chiesa inferiore, resistita sino al saccheggio e alle distruzioni operate dai Normanni nel 1084. Sulle pareti della struttura paleocristiana si osservano gli affreschi del vestibolo e della navata centrale, tra cui la rappresentazione, celebre tra i linguisti, della Leggenda di Sisinnio, tratta dalla Passio di San Clemente, risalente al secolo XI. Scendendo di un ulteriore livello si notano i resti di un muro repubblicano (forse della zecca) del II secolo avanti Cristo, ma soprattutto si entra in un buio ambiente utilizzato intorno al III secolo per culti misterici, al cui centro si erge il cippo del dio ellenistico Mitra raffigurato nell’atto della tauroctonia.
Un giorno del tardo mese di aprile del 1953, due visitatori di rango si recano a San Clemente e compiono questo stesso percorso, dalla basilica superiore agli scavi archeologici sottostanti. Il primo è Ignazio Silone, rientrato da alcuni anni da un lungo esilio all’estero e tentato dal ritorno alla vita politica attiva (tra le file socialdemocratiche) in vista delle ormai imminenti elezioni. L’altro – un uomo quasi ottantenne – è il celebre premio Nobel per la letteratura Thomas Mann, che ha fatto la conoscenza dello scrittore italiano nel corso del suo peregrinare dopo l’espatrio dalla Germania nazista1. Mann è giunto a Roma per un soggiorno ufficiale, del quale, nei suoi diari, ricorda non soltanto «[i] cocktail party, la cena del PEN Club, il turbolento ricevimento all’Accademia [dei Lincei] con allocuzione televisiva», bensì anche di aver potuto vedere «[n]el frattempo molto della grandiosa città», e in particolare proprio «[c]on Silone San Clemente, l’antichità più arcaica, giù in profondità fino alla sfera di Mitra»2. Molti sono, in realtà, i luoghi romani visitati da Mann in quei giorni, come la Casa di Livia e i Musei Vaticani, ma pure Villa Adriana a Tivoli, con l’intermezzo di un’udienza privata con Pio XII. Di ritorno a Zurigo, è alla sua guida Ranuccio Bianchi Bandinelli che Mann esprime i suoi ringraziamenti quasi commossi e domanda perdono per «la mia aridità personale, la mia cortesia nervosamente impacciata e quasi paralizzata dal convenzionalismo». Tale atteggiamento di «inettitudine sociale» egli lo attribuisce anche

… all’intensità delle impressioni che in quella città grandiosa assalirono la mia sensibilità. Piazze, chiese, fontane, obelischi, colonnati, e poi il sovrapporsi e l’accostarsi dei secoli, delle età classiche e dei primi e dei successivi tempi cristiani; una profusione di opere d’arte mistiche e sensuali, nate dalla religiosità e dalla genialità, – tutto io accolsi in me stesso al pari di un sogno, sogno di grandezza, ed ancor oggi esso opera e vive dentro di me come un sogno intenso che penetra a fondo nell’animo3.

Mann aveva trascorso diversi mesi a Roma e dintorni in età giovanile in compagnia del fratello Heinrich, ma di questa sua permanenza nella capitale, degli incontri e dei luoghi visitati, a quasi sessant’anni dal suo primo viaggio in Italia, è verosimile che conservi un ricordo estremamente vivo proprio della basilica di San Clemente e dell’atmosfera esoterica dei suoi sotterranei. L’immagine del mitreo torna, infatti, nel capitolo finale del suo ultimo romanzo Bekenntnisse des Hochstaplers Felix Krull (Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull)4, ma soprattutto è proprio della basilica posta ai piedi del Celio «il sovrapporsi e l’accostarsi dei secoli» («dies In- und Nebeneinander der Jahrhunderte» nell’originale tedesco)5 che segna l’immagine romana di Mann nei suoi ultimi anni. Anche al suo editore Gottfried Bermann, che dirige lo storico S. Fischer Verlag, scrive, infatti, di essere rimasto «commosso dalla prospettiva millenaria che si spalanca in quella città», e di averne tratto «conforto alla mia coscienza europea».
Per un uomo che ha dovuto lasciare la Germania nel 1933 e poi l’Europa, e che si è ristabilito sul Vecchio Continente (ma in Svizzera) solo nel 1952, simili parole rivestono una grande rilevanza, dal momento che ne mettono in luce lo «storicismo assoluto», la certezza che oggetto della ricerca letteraria è l’uomo nel flusso delle diverse epoche e non la cristallizzazione delle virtù in un popolo o in un momento storico. La prospettiva secondo la quale Mann torna a considerare l’Europa, prendendo Roma come punto d’osservazione privilegiato, gli consente di respirare il senso di appartenenza a una comunità non solo ampia in senso geografico, ma anche straordinaria per profondità cronologica. La certezza di essere parte di qualcosa di più grande e di avere, con parole paoline, «combattuto la buona battaglia», agisce senza dubbio quale balsamo consolatorio anche su un animo tormentato e cupo come il suo. La Roma millenaria lo rincuora, come appare evidente nelle sue parole («ne ho ricevuto conforto alla mia coscienza europea»)6.
Un simile sentimento di appartenenza alla cultura occidentale, che non è semplice ammirazione per i monumenti della città eterna né mera consonanza intellettuale, compare soltanto negli ultimi anni di vita di Mann come al termine di una lunga e travagliata evoluzione del suo approccio all’idea di Europa dal punto di vista culturale e politico. Ripercorrere questo itinerario all’interno della sua opera è impresa fino a oggi tentata solo parzialmente dagli studiosi7 e significa, allo stesso tempo, abbozzare un compendio della storia dell’intellettuale novecentesco, dalla tentazione dell’isolamento nel regno dell’arte pura e poi, negli anni della Prima guerra mondiale, del nazionalismo, all’apertura democratica e alla lotta per i diritti umani caratteristica dell’entre-deux-guerres, fino al ritorno a una certa ritrosia nei confronti dell’azione diretta negli anni Cinquanta, secondo un modello pendolare che consente all’uomo di cultura di scegliere in autonomia quando impegnarsi nell’attività politica e quando, invece, astrarsene8. Quella di Mann è una vera «conversione»9 alla totalità dell’esperienza umana (che non è solo interiore, ma anche sociale e civile), e, come estrema conseguenza, all’idea di una collaborazione sovranazionale tra governi, senza che questo significhi rinnegamento della sua essenza di uomo di cultura tedesco. La coabitazione di spirito comune e orgogliosa appartenenza a una nazione fornisce abbondante materia di riflessione anche agli europei di oggi, e si rivela in Mann frutto di una lotta con se stesso lunga un’intera esistenza.



I

L’esordio di Thomas Mann come scrittore prestato (ma si tratta di un prestito a lunga scadenza) alla politica e alla polemica è da far risalire alla stesura dei saggi Gedanken im Kriege e Friedrich und die große Koalition negli ultimi mesi del 191410. Lo scoppio della guerra risveglia in lui un interesse per le questioni belliche di carattere puramente estetico e soggettivo, secondo quanto ci si può attendere da un esponente dell’alta borghesia tedesca ingenuamente indifferente alla politica e privilegiato dalla possibilità di dedicarsi in maniera esclusiva alla sua arte, dopo il successo imperituro che lo ha colto a soli ventisei anni d’età con la pubblicazione dei Buddenbrooks e il matrimonio con Katia Pringsheim, di ricca famiglia11. È tuttavia, come è noto, con le Betrachtungen eines Unpolitischen, le Considerazioni di un impolitico12, che Mann assurge a difensore eminente della Kultur13, dunque a scrittore che mette consciamente in primo piano le questioni estetiche e morali individuali, contrapponendosi allo Zivilisationsliterat, l’intellettuale per il quale a contare sono principalmente i problemi della società, come il fratello Heinrich, bersaglio polemico del poderoso volume. Nelle Considerazioni Mann prende posizione, pertanto, circa il nucleo della contrapposizione europea tra Germania e Francia, intervenendo in un dibattito di lungo corso. Fin dal periodo romantico si riteneva che l’identità tedesca, che ancora non poteva scaturire da uno Stato nazionale, potesse fondarsi su un’educazione condivisa alla filosofia e all’arte (Bildung), mantenendo le distanze dalle masse e dalla politica per trovare uno spazio interiore di libera riflessione, definito Innerlichkeit14. La Kultur era dunque connotata da concetti come anima, passione, gusto, mentre la Zivilisation era ricondotta allo spirito illuminista, politico, apollineo.
Tale contrapposizione delinea in maniera puntuale il percepito dualismo di fondo tra Francia e Germania, che Mann, ancora a metà degli anni Dieci, asseconda e che tuttavia, nello scrittore di Lubecca, non è riconducibile al nazionalismo ripiegato su se stesso caratteristico di quegli anni di scontri e inimicizie armate, bensì a quello ottocentesco, aperto e cosmopolita. Fin dalle sue prime opere, infatti, egli è immerso in un brodo di coltura letterario e artistico di dimensione europea, e vive un legame particolare con «[i]l romanzo inglese, russo, scandinavo fra il 1850 e il ’60, il teatro epico e la morale pessimistica di Wagner, la psicologia della decadenza di Nietzsche, il virtuosismo artistico di Flaubert e dei Goncourt»15. A queste profonde e varie letture si aggiungono i suoi soggiorni in Italia negli anni giovanili, occasione per subire il fascino del Rinascimento (si pensi al suo dramma Fiorenza del 1905). A colpire sono, soprattutto, la naturalezza e la spontaneità con le quali tali variegati stimoli vengono recepiti e rielaborati nel corso degli anni, così che l’opera letteraria di Mann è facilmente riconoscibile come esito di un lungo addestramento e di un profondo studio, concepibile solo all’interno di uno spazio culturale ampio, che coincide con l’Europa liberale16.
In maniera per lo stesso Mann ancora inconsapevole, ma dovuta alle vaste letture condotte, l’elogio della Germania e della presunta superiorità della sua Kultur è indissolubilmente legato all’idea stessa di Europa. Come egli scrive nelle Considerazioni, infatti, ciò che si manifesta nella cultura tedesca, di cui loda le tradizioni universalistiche e il senso di responsabilità, rappresenterebbe la sintesi delle virtù e delle qualità migliori dell’Europa. Diversamente pertanto da ciò che si potrebbe derivare dall’atteggiamento bellicoso dello scrittore, questo massiccio saggio, tormentato e per diversi aspetti ancora immaturo, non tradisce affatto l’idea di un’Europa cosmopolita, ma rappresenta una fase di passaggio fortemente condizionata dalla confusione del momento storico, in cui lo spirito tedesco si afferma come possibile salvatore dell’anima di un continente che sta collassando sotto i colpi dei diversi interessi territoriali e politici e delle contrapposizioni ideologiche. Le Considerazioni, pur rientrando a pieno titolo tra le opere di maggior rilievo del pessimismo culturale a cavallo tra Otto e Novecento, non vanno disgiunte da una loro lettura in positivo, senza la quale gli sviluppi del pensiero politico di Thomas Mann risultano innaturalmente segnati da una soluzione di continuità che, invece, non si è mai verificata.
L’idea di Germania spirituale è, sotto questo punto di vista, ben poco assimilabile a quella di un autonomo Sonderweg. Essa, infatti, non è disgiunta da un forte interesse per la realtà europea, che non riguarda esclusivamente Mann, bensì tutto il mondo politico e culturale tedesco. Nella prima metà del Novecento, si giunge infatti a definire, con un termine intraducibile in italiano, l’idea di Abendland, che designa l’Occidente (letteralmente la «terra della sera»), ma in un senso più composito rispetto alla sola indicazione geografica e politica, per la quale si mantiene l’uso di West. Il concetto di Abendland rievoca una comunità sovranazionale eretta a partire da una visione fortemente romanzata del cristianesimo medievale, legata alla gerarchia ecclesiastica, conservatrice sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista politico, oltre che antiamericana e antibolscevica17. Thomas Mann, di formazione protestante ma non credente, non rientra tra i promotori dell’idea di Abendland, eppure a tale congerie culturale deve buona parte del suo successo, dal momento che le Considerazioni si coniugano proprio con queste opinioni politiche e, allo stesso tempo, contribuiscono alla loro ulteriore diffusione. Il libro, pubblicato nel 1918, ha infatti un effetto consolatorio per la borghesia tedesca uscita moralmente prostrata dal conflitto, e ne diviene un patrimonio da cui risulta difficile staccarsi per giovani e meno giovani difensori dello spirito tedesco, molto più che per lo stesso Thomas Mann, il quale, invece, nel breve volgere di un biennio supera in un sol passo quanto meditato e scritto al tempo di guerra. Le Considerazioni divengono perciò una delle opere maggiormente rappresentative di una corrente culturale nella quale Mann non si riconosce e alla quale non intende appartenere.
Da questo suo distacco, interpretato come un voltafaccia negli ambienti dell’alta cultura nazionale (e nazionalista), deriva una serie di accuse destinate a segnare i dibattiti intellettuali degli anni successivi. Mann, che aveva difeso l’elemento dionisiaco e che si era sempre definito conservatore, ma mai reazionario (e su questo aspetto vede bene la giovane Lavinia Mazzucchetti18, suscitando la gratitudine dello scrittore)19, giunge molto presto a valutare negativamente l’irrazionalismo nel contesto angoscioso della Germania del dopoguerra, con i suoi colpi di Stato, la proliferazione della violenza e gli omicidi politici, tra cui quello del Ministro degli Esteri Walther Rathenau nel giugno del 1922. A ciò si affianca la constatazione che la dimensione politica non può essere elusa, come aveva ingenuamente professato nelle Considerazioni, ma è propria dell’uomo. A mutare è dunque l’angolatura secondo la quale Mann giudica la posizione tedesca in Europa, non la sostanza del suo pensiero. Egli conferma l’appartenenza della cultura tedesca all’Europa e la compenetrazione necessaria con le altre culture, opinioni che non aveva mai contestato, ma che ora implicano un graduale mutamento di segno della sua visione politica.
Decisivo per comunicare un simile cambio di passo è il discorso del novembre del 1922 Von deutscher Republik (Della repubblica tedesca). Le celebrazioni in onore dello scrittore naturalista (e premio Nobel per la letteratura) Gerhart Hauptmann, già sottoposto a dura critica da parte dei circoli conservatori guglielmini per le sue opere drammatiche di critica sociale – e poi finito per essere uno degli aedi del regime nazista – è l’occasione per rimarcare la «natura prettamente tedesca» del collega20, il suo spirito «[u]mano», vale a dire «non nazionalisticamente scempio né nazionalisticamente rozzo e chiassoso, ma liberale nel senso più umanitario»21. Simili espressioni potrebbero far identificare Mann, da parte di una platea di letterati borghesi, come propenso al pacifismo, un’accusa dalla quale egli intende liberarsi asserendo che «[i]l pacifismo come concezione filosofica, come vegetarianesimo psichico e filantropia eudemonistica borghese-razionale, non è affar mio»22. Malgrado ciò, egli non ha dubbi nel sostenere la Repubblica di Weimar, e anzi esorta a dichiarare l’intera Europa una repubblica, «in quanto l’idea di repubblica è legata con quella di una cultura nazionale pacifica»23.
Da queste parole, il problema della pace emerge come il principale interesse di Mann. Sapendo di avere contribuito con le sue opere a fornire «armi all’oscurantismo»24, egli ora si spinge a prefigurare un’Unione europea costruita attraverso trattative pacifiche, in cui, tuttavia, rimanga impresso il marchio dello spirito tedesco. Tedesco, infatti, sarebbe

l’istinto di un individualismo costruttore dello Stato; l’idea della comunità che riconosce l’insieme degli uomini in ciascuno dei suoi membri, l’idea dell’umanità che noi abbiamo definito intimamente umana e politica, aristocratica e sociale insieme, e che è lontana tanto dalla mistica politica degli Slavi quanto dall’anarchico individualismo radicale di un certo Occidente: l’unione di libertà e uguaglianza, la “vera armonia”, in una parola: la repubblica25.

Scomparse le connotazioni negative – piacevolmente negative – della Kultur, Mann lascia spazio ai toni positivi e costruttivi. In questo riposizionamento, egli sostiene di non ritrattare alcun aspetto essenziale del suo pensiero, ma lo scarto rispetto ai difensori del pessimismo culturale appare ora consistente. L’affondo decisivo è infatti sferrato contro Oswald Spengler, autore, tra il 1918 e il 1923, della monumentale e acclamata opera Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente, o meglio dell’Abendland). L’atteggiamento di Spengler è reputato «sbagliato, presuntuoso e “comodo” fino a un’estrema inumanità»26. In lui non si riconosce, infatti, alcuna ironia, ma solo la pretesa di padroneggiare le fredde leggi dello sviluppo storico. Mann, al contrario, giudica imprescindibile la presenza di un palpito umano, dell’Eros e del sentimento, assenti in Spengler, e che, invece, ben presto si sarebbero ritrovati nella sua opera letteraria.
Il celebre discorso Della repubblica tedesca è spesso menzionato per segnalare la solidarietà espressa nei confronti dell’instabile regime weimariano da parte di un influente rappresentante dell’intellettualità tedesca del tempo, aspramente divisa tra destra e sinistra ma in genere concorde nel rifiutare il nuovo sistema politico. È chiaro, tuttavia, come il coraggioso intervento di Mann annunci anche la professione di fede in una futura repubblica su scala continentale, posta a difesa dei valori europei e in opposizione alle tendenze miranti all’affermazione di singole unità nazionalistiche. Mann aderisce, infatti, all’Unione Paneuropea del conte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, un movimento che si propone di federare l’Europa dal punto di vista militare ed economico su basi cristiane e liberali (nonché antibolsceviche)27, pur ritenendola «un’idea politica della cui infallibilità non sono persuaso»28. L’esteta Mann, a partire dagli anni Venti, assume dunque sempre più apertamente il ruolo di uomo di cultura impegnato, e lo fa da un lato percependo la continuità della sua azione a favore della cultura come produzione di realtà e di valori, come perno intorno a cui ruotano le società, dall’altro ponendo al centro della sua riflessione l’Europa, che diviene persino indiscusso protagonista delle vicende che si svolgono nel sanatorio svizzero in cui è ambientato Der Zauberberg (La montagna incantata, o magica, nella recente traduzione di Renata Colorni). A questo romanzo Mann lavora dal 1912 al 1924, attraversando guerra e dopoguerra penna alla mano e traendo dalla scomparsa del vecchio sistema politico continentale un’epitome della cultura occidentale fino al conflitto mondiale. Da un simile sforzo intellettuale affiora il tema tipico del Mittlertum dei romantici, vale a dire la mediazione tra gli opposti ricercata dal protagonista Hans Castorp, tentato da due visioni del mondo tra loro contrarie ma complementari (dunque entrambe necessarie), quella occidentale dell’illuminista massone e liberale Settembrini e quella orientale, mistica, irrazionale e comunista del gesuita Naphta. La lotta per vincere l’anima di Castorp dà conto dell’estremo tentativo della borghesia europea di venire a capo della propria stessa confusione ideologica e di combattere le tendenze all’autodissoluzione. Più che compiere una scelta, Castorp deve imparare a mediare tra due nuclei di pensiero tra loro irriducibili, a indicare come – secondo l’antica tradizione tedesca – Mann affidi alla Germania il compito di conciliare, certo anche retrospettivamente, tendenze altrimenti disposte alla guerra come ultima e definitiva via di soluzione del dissidio. Non per caso il libro termina sulla parola «amore» («Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte […] sorgerà un giorno l’amore?», nella traduzione di Ervino Pocar)29, dunque con la speranza che la composizione del contrasto possa avere esito positivo. L’amore è proprio quell’elemento pienamente umano che Mann aveva visto negato in Spengler, unica sintesi possibile tra Kultur e Zivilisation.
Questa stessa sintesi tra Kultur e Zivilisation, che sembra diventare possibile proprio mentre Mann dà alle stampe il romanzo, con la firma del Patto di Locarno e la ripresa economica, appare finalmente, anche agli occhi dello stesso scrittore, paradossalmente già sottintesa in quel periodare difficile delle Considerazioni. Egli diviene anzi consapevole che, anche per i francesi, nemici di un tempo, lo «spirito era diretto verso l’Eterno e verso la Ragione» e l’uomo considerato molto più che un essere sociale o mistico30. Per questo motivo, Mann non disconosce mai le sue meditazioni del tempo di guerra, che sono ora ricordate come «un combattimento di ritirata in grande stile, l’ultimo e il più tardo di una borghesia tedesca romantica, disputato nella piena consapevolezza della sua vanità»31. Negli anni Venti, egli si pone tra coloro che ritengono «auspicabile la trasformazione dell’idea di cultura tedesca in una direzione conciliatrice del mondo e democratica», pur essendo consapevole che alla democratizzazione della Germania mancano «le premesse morali necessarie». Lutero, Goethe, Schopenhauer, Nietzsche e George, «[i] formatori e gli educatori dell’umanità tedesca»32, non erano, infatti, democratici, tuttavia egli non dispera dell’impresa, a patto che non si confonda la democrazia né con l’idea francese della civiltà (che implica «volgarità», «corruzione» ed «economia dei partiti»), né con il bolscevismo, ma che si imponga «un patto tra Grecia e Mosca», vale a dire «un’alleanza […] dell’idea conservatrice di cultura con il pensiero rivoluzionario di società»33. Il saggio in cui esprime una tale visione, che reca il titolo perspicuo Kultur und Sozialismus, risale al 1928 e consente alla critica e agli studiosi di inserire Mann tra i pensatori socialisti34, in quanto egli, di fronte alla crisi del mondo borghese, surclassato delle tendenze reazionarie e irrazionalistiche, ritiene che solamente il socialismo possa garantire un futuro democratico. Allo stesso tempo, Mann è convinto che la democrazia debba coinvolgere l’intero continente europeo per imporsi sul territorio tedesco. Negli anni in cui la riconciliazione tra popoli sembra avviata verso un esito positivo (è del 1928-1929 la stipula del Patto Briand-Kellogg – di valore a dire il vero esclusivamente simbolico), si notano, tuttavia, le prime avvisaglie di uno sgretolamento del fronte europeista, destinate a trasformarsi molto presto in preoccupanti segnali d’allarme.



II

Prima ancora che il nazismo giunga al potere nel 1933, come è noto, la Germania attraversa una fase di crisi economica, sociale e politica, da cui traggono profitto le forze di destra, autoritarie e antisistema, che fanno della revisione del durissimo trattato di Versailles una delle loro bandiere e che non escludono il ricorso alla violenza per raggiungere tale obiettivo. È in questo contesto che Thomas Mann pronuncia, nel Beethovensaal di Berlino, il discorso Appell an die Vernunft (Appello alla ragione), pochi giorni dopo le elezioni del settembre 1930, che hanno visto i nazisti diventare la seconda forza politica tedesca. L’allocuzione segna un momento di passaggio significativo nella sua vita pubblica, in quanto egli, per la prima volta, dismette i panni dell’uomo di lettere che utilizza principalmente riferimenti poetici e citazioni per parlare invece in maniera non mediata della situazione politica, con un’autorità che gli deriva anche dal premio Nobel conferitogli l’anno precedente. In un’atmosfera tutt’altro che distesa – si ricordano le contestazioni da parte delle SA durante il suo intervento –, Mann sente di dover giustificare, ancora una volta, la sua metamorfosi da difensore dell’art pour l’art a intellettuale impegnato, garantendo di non essere affatto «un fautore dell’inesorabile attivismo sociale»35, pur riconoscendo che vi sono momenti storici «in cui l’artista non può procedere secondo il suo impulso interiore, perché più immediate preoccupazioni imposte dalla vita scacciano il pensiero dell’arte»36. Strappato dalla sua attività letteraria a causa delle urgenze dell’ora, Mann si dimostra, in ogni modo, tutt’altro che digiuno di riflessioni politiche sulla stringente attualità. Egli, infatti, attribuisce fondatamente l’ascesa del movimento nazista a un complesso di fattori, vale a dire alla crisi economica e agli accordi di Versailles imposti alla Germania, ma pure – ed è questo senza dubbio il passaggio che più gli sta a cuore – alle correnti accademiche e di pensiero che si sono fatte strada fin dall’Ottocento, che hanno rinvigorito una «religiosità della natura, incline per indole all’orgiastico e alla sfrenatezza bacchica», e «un ingrediente di sentimentale barbarie della cultura, che è più pericoloso, che allontana dalla realtà, che confonde e rammollisce i cervelli»37. Egli può dunque alzare lo sguardo e appurare come il problema non riguardi la sola Germania, ma appartenga a tutta l’Europa, in cui «[i]l fanatismo diventa principio di salvezza, l’entusiasmo estasi epilettica, […] e la ragione si vela il volto»38. Ciò che non riesce a concepire, tuttavia, è come il nazionalismo possa attecchire in un popolo veramente europeo e dunque cosmopolita, quale è, a suo parere, il popolo tedesco, che «ha vissuto e porta nel sangue un classicismo cosmopolita ed elevato, il romanticismo più profondo e raffinato, Goethe, Schopenhauer, Nietzsche, la sublime morbidezza del Tristano di Wagner»39. Al nazionalismo, che isola i popoli, egli contrappone una politica di mediazione e di accordi, come quella fatta propria dal defunto ministro degli Esteri, e premio Nobel per la pace, Gustav Stresemann, e dichiara che «oggi il posto politico della democrazia tedesca è al fianco della socialdemocrazia»40, tornando a proporre, ora con maggiore urgenza, l’alleanza «tra Grecia e Mosca».
Alla luce di una simile orazione a lode di un’Europa libera dall’irrazionalismo e pacificata, è immediatamente riconoscibile la comunanza di idee tra Thomas Mann e Benedetto Croce, sebbene gli scambi tra i due siano relativamente poco fitti e le conclusioni alle quali giungono dal punto di vista politico non del tutto equiparabili. Il rapporto tra Mann e Croce rappresenta senza dubbio uno dei punti rilevanti della riflessione sulla cultura europea e sulla sua costitutiva valenza civile, che non a caso si impone proprio negli anni in cui, su tutto il continente, il clima si raffredda prima con la crisi economica e sociale, poi con l’avvento del nazismo41. Già nel 1920 Croce aveva recensito le Betrachtungen eines Unpolitischen e ne aveva apprezzato la separazione tra arte e politica e lo spirito antidemagogico (ed esplicitamente antidannunziano), sottolineando, tuttavia, come l’antitesi tra cultura e civiltà messa in luce dallo scrittore tedesco riguardasse «anche l’Italia, anche l’Inghilterra, anche la Francia». Il libro, «annunziato come l’opposizione tra il vero spirito tedesco e quello dei paesi latini», racconta, in realtà, «l’umana ed eterna opposizione tra aristocrazia e volgo»42, che sarebbe propria di tutte le nazioni europee come correlativo dell’avanzante società di massa, con la quale è indispensabile fare i conti. In questo modo, lo stesso Croce ribadisce l’appartenenza tedesca alla comunità dei popoli europei, che Mann, come detto, avrebbe voluto occultare scrivendo un volume che sancisce, al contrario, la piena appartenenza della Germania all’Europa.
Il dialogo tra Mann e Croce si fa diretto nel 1930 in occasione della stesura, da parte dell’intellettuale napoletano, del saggio Antistoricismo, letto a Oxford al settimo Congresso internazionale di filosofia e tradotto in tedesco dall’amico Karl Vossler43. È nella denuncia della «decadenza del sentimento storico», che per Croce è espressione di un «impoverimento mentale» e della minaccia portata alla tradizione culturale europea, che le posizioni dei due giungono a coincidere, prima ancora che il nazismo conquisti il potere. Pochi giorni dopo avere letto in pubblico il suo Appello alla ragione, Mann scrive a Croce che le argomentazioni raccolte nel saggio Antistoricismo gli appaiono particolarmente calzanti per il popolo tedesco, tentato dal considerare possibile che la storia ricominci dal principio. Egli nota, inoltre, che «civiltà e cultura» così come le intende Croce sono il correlativo della Bildung tedesca (la formazione come appropriazione di sé)44 e sono dunque parte di quell’articolato complesso ideologico in cui si possono inquadrare anche la Kultur e il Geist (spirito), un tempo da lui stesso esposto quale reliquiario della cultura borghese e ora impugnato come arma contro le tendenze autoritarie e antidemocratiche.
All’identificazione di questa affinità di vedute, Croce replica con un gesto esemplare, dedicando a Mann la sua Storia d’Europa nel secolo decimonono, che, non a caso, è una storia etica prima ancora che politica e culturale, nella quale si rimarca l’esistenza di un’unità spirituale che discende dalla tradizione umanistica europea. L’epigrafe è accompagnata da un’allusiva terzina dantesca (Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei / con simile atto e con simile faccia, / sì che d’intrambi un sol consiglio fei), che rende perfettamente l’idea non solo di un rispecchiamento, ma anche dell’esistenza di un nemico comune, dal momento che, nella Commedia, è Virgilio a pronunciare quelle parole mentre, insieme a Dante, teme di essere inseguito dai diavoli Malebranche, nel canto ventitreesimo dell’Inferno45.
A sua volta, Mann risponde al pregnante gesto di Croce in una sorta di codice che, a dire il vero, non potrebbe essere più limpido. Egli gli offre, infatti, la riedizione del suo saggio Goethe und Tolstoi. Fragmente zum Problem der Humanität, scritto nei primi anni Venti proprio in concomitanza con la sua adesione allo spirito weimariano, in cui all’attrazione morbosa per la morte che ha rappresentato il nucleo della sua formazione filosofica e che è propria dello spirito febbrile di Schiller e Dostoevskij contrappone, per la prima volta, la tranquillità, la forza e la semplicità di Goethe e Tolstoj46. È in questa sede che Mann lascia intravedere i primi passi di avvicinamento a Goethe, recuperandone la concezione di uomo come misura di ogni cosa:

L’arte, come egli dice, è soltanto una delle varie discipline umanistiche. Tutte: filosofia, diritto, medicina, teologia e perfino le scienze naturali e la tecnologia sono specie e gradazioni diverse di uno stesso tema alto ed interessante, la cui molteplicità e varietà non riusciremo mai ad esaurire, perché nel tema è l’uomo; e la figura umana è la sintesi di tutte le altre, e, per dirla con Goethe, “il non plus ultra” di ogni sapere e di ogni fare, “l’alfa e l’omega” di tutte le cose conosciute47.

Il riferimento alla confessione umanista di Goethe porta con sé l’allusione a libertà e autonomia dell’individuo quali concezioni poste al vertice della cosiddetta Weimarer Klassik, che con Goethe, Schiller e Herder rappresenta, pur con un paio di secoli di ritardo, il vero Rinascimento tedesco. Il rapporto con Goethe non ha mai costituito una “affinità elettiva” per Thomas Mann, che fin dagli anni della giovinezza si è letteralmente immerso negli scritti di Nietzsche e Schopenhauer e nella musica di Wagner. Questa «Anverwandlung, la metamorfosi di avvicinamento»48 di Mann a Goethe appare perciò ancor più significativa e non episodica se si considera che essa ha avuto inizio nei sotterranei della sua attività intellettuale e si rivela, ancora una volta, nelle Considerazioni, che si aprono con il motto goethiano (tratto dal Tasso) «Vergleiche dich! Erkenne, was du bist!» («Misura te stesso! Riconosci ciò che sei!»), a riprova di come la stessa Bildung sia un processo e non una conquista definitiva.
È questa, per Benedetto Croce, La Germania che abbiamo amata, non certo quella nazista, che nel frattempo si è imposta nel cuore del continente europeo. È la Germania in cui «poesia, filosofia, scienza non sono tedesche né di alcun popolo particolare […], perché sono di tutti coloro che le comprendono e le amano, in ogni paese»49. Letteratura e filosofia, infatti, si giovano di materiali e stimoli che non possono essere esclusivamente nazionali e la stessa fioritura della Weimarer Klassik a cavallo tra Settecento e Ottocento «aveva dietro di sé non il vuoto ma il pieno, l’opera precedente del pensiero europeo»50. Solo in questo modo, di fronte allo spirito tedesco nazionalista, Croce può non perdere la speranza, consapevole che «rimane viva la Germania del pensiero e della poesia» grazie a «tanti uomini tedeschi, che, in condizioni avverse, ne continuano insieme con noi i concetti e gli ideali, guardando all’avvenire»51. Le parole di Croce sottintendono, naturalmente, un riferimento anche a Thomas Mann, il più autorevole degli esiliati tedeschi, convintosi dopo lunghe riflessioni a denunciare il nazismo, e testimoniano come in molti intellettuali vi sia la consapevolezza profonda di una reciproca appartenenza che va al di là delle divergenze politiche (e che consente la fulgida stagione di convegni intellettuali a metà anni Trenta)52. I rimandi interni alla letteratura e al pensiero europei non sono solo segno di una paziente opera di ricamo che va a formare una sorta di Tapisserie de Bayeux della cultura occidentale, in consapevole reazione all’oscurantismo di chi affida a una sola nazione il lume dell’arte e della letteratura, ma anche di un impegno condiviso, seppure privo di una guida e di un disegno unitario, come attesta quell’«insieme con noi» che conclude lo scritto di Croce.
Lo spirito tedesco, del quale Mann desidera presentarsi come interprete privilegiato, non si pone più, nei medi anni Trenta, in opposizione alla civiltà francese (ed europea nel suo insieme), anzi solo in relazione a essa può venire valorizzato. Le basi su cui fondare una simile argomentazione sono indicate in un contributo di Thomas Mann dal sintomatico titolo Achtung, Europa! (Attenzione, Europa!), che ambisce a una vivificazione dell’umanesimo, che non sia tuttavia fine a se stessa, ma che ne faccia un connettore e un motivo di elevazione morale e intellettuale di fronte a «questo ritorno al primitivo»53, che è proprio di tutta l’Europa e non solo della Germania nazista. Ciò di cui Mann si fa interprete è «un umanesimo militante», che è europeo par excellence e che si inscrive nella convinzione che libertà, tolleranza e dubbio metodico siano il contenuto civile della cultura54. Alle medesime conclusioni lo scrittore giunge con il discorso Humaniora und Humanismus, tenuto a Budapest nel giugno del 1936, consacrato all’importanza dell’insegnamento delle lingue classiche e della filologia nei programmi scolastici, ma che si trasforma in un’occasione di apostolato in favore di un’Europa pacificata, appunto, nel segno dell’umanesimo. Egli apre il suo intervento citando Goethe, per il quale «la “buona azione” si sposa alla “bella poesia”»55, quindi gli «interessi letterari» con l’«azione concreta»56. Questo “spirito del tempo”, che Mann identifica come una novità rispetto a quanto esperito dalle generazioni precedenti, non è tuttavia riconducibile a un atteggiamento demagogico, bensì è un impegno nella realtà conforme a «un nuovo, immediato e fervido interesse per l’uomo e la sua sorte». L’umanesimo, pertanto, più che con l’erudizione, ha a che vedere con «un sentimento e un atteggiamento umano, cui preme la giustizia, la libertà, la sapienza e la tolleranza, una forma mentis che ama il dubbio, e non già per se stesso, ma per amore della verità»57. Nella sua conclusione egli può pertanto riferirsi all’Europa come a «un concetto strettamente legato all’idea umanistica»58, facendo confluire la difesa della pace nella difesa dei valori democratici così duramente messi alla prova.
Delle prese di posizione di Mann intorno alla metà degli anni Trenta colpiscono principalmente due aspetti. In primo luogo, egli è conscio che il morbo fascista ha attecchito massimamente in Germania, ma anche che non per questo il resto d’Europa ne è risparmiato. Per Mann, il problema tedesco è tout court il problema dell’Europa, non solo perché le potenze europee hanno insistito per implementare, dopo la guerra, politiche punitive, ma perché la Germania, dal punto di vista culturale, non può in alcun modo essere dissociata dal resto del continente, che dunque ne condivide, al tempo stesso, la corruzione e la speranza. In secondo luogo, identificando tra loro Europa e umanesimo, Mann sostiene che il Vecchio Continente non sia una realtà geografica o politica, ma uno spazio culturale e valoriale all’interno del quale è possibile riconoscersi indipendentemente dalla nazionalità e dal credo politico. Una simile concezione, con ogni evidenza, non ha più nulla a che spartire con la Paneuropa del conte Coudenhove-Kalergi, talmente infervorato dal suo progetto sovranazionale e conservatore da dirsi disposto a scendere a patti con l’Italia fascista.
Ormai Mann è avviato a un engagement quotidiano e attivo, che pure non appartiene del tutto alla sua personalità (egli ammette, un quindicennio più tardi, di essersi sentito «abbastanza buffo» ai suoi stessi occhi nel ruolo di «oratore ambulante per la democrazia»)59. Lo scrittore non abbandona mai, infatti, il lavoro ai suoi romanzi, che sono anzi una risorsa nel combattimento antifascista. Se la narrazione del mito del biblico Giuseppe è da leggere in chiave antihitleriana60, è principalmente con Lotte in Weimar (Carlotta a Weimar), romanzo pubblicato nel 1939, che Mann affronta di petto la questione della Kultur tedesca, facendone materia di trasposizione letteraria. Nella sua più completa opera goethiana, pubblicata nel 1939, Mann si concede perfino un’identificazione con il suo personaggio-monumento, al punto da comporre un coinvolgente (e giustamente celebre) monologo interiore nel capitolo settimo. La menzionata Anverwandlung di Mann a Goethe, il lungo processo di identificazione, avvicinamento e trasformazione, appare a questo punto definitiva, e di grande rilevanza anche dal punto di vista politico. Nel romanzo è infatti fornita una visione negativa del nazionalismo tedesco, i cui semi sono considerati allo stadio di germoglio proprio nei mesi successivi alla conclusione dell’epopea napoleonica (la narrazione è ambientata nel 1816), quando anche la Weimarer Klassik, che per convenzione giunge fino alla morte di Schiller nel 1805, può considerarsi terminata. Mann dipinge un ritratto ben poco lusinghiero dei nazionalisti, mettendone in rilievo l’insistenza sui particolarismi, l’opportunismo, la grossolanità piccolo-borghese, l’aridità spirituale. Ai nazionalisti egli contrappone l’antinazionalista Goethe, il cosmopolita per eccellenza, il quale, ormai anziano ma ancora estremamente lucido, appare come un grande uomo costretto a confrontarsi con individui piccini. Le parole che Mann mette in bocca a Goethe sono pertanto un vero manifesto politico e culturale per l’Europa di fine anni Trenta:

Il tedesco, invece di limitarsi in se stesso, dovrebbe accogliere in sé il mondo, per poter poi agire sul mondo. Nostra meta non deve essere il differenziarci dagli altri popoli, ma essere in amichevole commercio con tutto il mondo, sviluppare le virtù sociali, anche a spese dei sentimenti e persino dei diritti innati61.

La decisa virata manniana verso concezioni prettamente classiche del fare artistico può dunque dirsi compiuta, come si può riscontrare con la pubblicazione del bimestrale critico e letterario dell’emigrazione tedesca “Maß und Wert”, edito a Zurigo tra il 1937 e il 1940, di cui è curatore insieme allo scrittore svizzero Konrad Falke. Mann è conscio che, «in tempi del più esperto ciarlatanismo e di una violenta propaganda rivoluzionaria», il titolo «castigatamente pedagogico» della sua rivista, rimandando agli ideali della «misura» e del «valore», può apparire di scarso richiamo62. Eppure, «[m]isura non significa già moderazione, tanto meno mediocrità», al contrario è «ciò che è antibarbaro, la vittoria della forma, la vittoria dell’uomo». Si tratta dunque di tutto ciò che ha a che vedere con l’arte, la quale «ricusa il mediocre», dal momento che essa «decide ben presto di valori che vanno molto oltre il campo estetico, lo precedono e ne stanno alla base»63. Per un uomo di cultura sempre più implicato nella lotta antinazista con conferenze e prese di posizione pubbliche, è significativo riscontrare come non l’attività politica, ma l’arte rimanga al centro dell’interesse. È l’arte, infatti, e non la politica, a trovarsi a metà strada tra la «misura» e il «valore», mantenendosi comunque attenta alla realtà sociale e politica, che non può essere ritenuta «di second’ordine in confronto col mondo dell’anima, della metafisica e della religione»64.
Secondo questa stessa prospettiva, Mann confessa la sua propensione per il socialismo, puntualizzando, tuttavia, la sua lontananza dal marxismo (egli, infatti, non cede, come fanno invece molti altri esiliati tedeschi, alle lusinghe di Willi Münzenberg, a metà decennio il più potente funzionario del comunismo internazionale65). Per Mann «socialismo non è altro che la doverosa risoluzione di non cacciare la testa nella sabbia delle cose metafisiche di fronte alle più urgenti esigenze della materia, della vita sociale, collettiva», che porta a «mettersi al fianco di coloro che vogliono dare un senso alla terra, un senso umano»66. Il socialismo non è concepito come un disegno rivoluzionario più o meno utopistico, né come una formula politica, bensì come un compiuto umanesimo posto a fondamento dell’Europa, che deve essere sede «di un’umanità nuova, perfezionata, ancora da conquistare» e dunque di «un verace culto dell’uomo» nel quale pietà e libertà coincidano67. In un congresso del PEN Club organizzato a Stoccolma nel 1939, egli precisa perciò che «il campo politico e sociale sono parti del campo umano e che non è possibile separarli nettamente da quello spirituale e culturale». Socialismo è «la totalità dell’umano»68. Questo stesso senso dell’umano e della comunità ritorna nella sua idea di Europa, che non può essere esito della supremazia di una singola cultura che inglobi le altre, ma che vive soltanto nella profondità delle tradizioni storiche e nella compresenza di diverse aspirazioni, come era proprio della cultura antica tanto decantata nel suo discorso Humaniora und Humanismus. Mann si proclama pertanto a favore di una reciproca assimilazione culturale dei popoli europei, non certo per una delimitazione orgogliosa dei confini delle singole tradizioni culturali, secondo quanto era invece stato tentato di fare – come visto, con scarso successo – vent’anni prima nelle Considerazioni.



III

La fiducia nella possibilità di rigenerazione immediata dell’Europa e di un aborto della Germania nazista viene meno con gli accordi di Monaco, che spalancano a Hitler le porte della Cecoslovacchia e spingono Mann ad ammettere di non riconoscere più quell’Europa che, insieme agli altri esuli tedeschi, credeva «di avere moralmente alle [sue] spalle»69. Di tale tradimento egli ritiene responsabili soprattutto gli inglesi, che si sarebbero fatti ingannare dalla visione hitleriana di un mondo diviso tra nazismo e bolscevismo. Nel discorso di Stoccolma tenuto sotto l’egida del PEN Club e dunque in un consesso in linea teorica apolitico, egli invita a non confondere liberalismo (che, «nel campo spirituale ed economico, è la conservazione in vita di un’epoca», mentre «i tempi cambiano») e libertà, che è «un’idea immortale», che non è in alcun modo determinata dalle forme politiche liberali70. Per questa ragione, di fronte a una possibile fascistizzazione del continente, foriera di una paradossale unificazione dei popoli, egli può continuare a sperare in quella stessa cultura che non ha mai inteso «nel senso sentimentale e intellettuale, ma nel senso di una questione di umanità, di onore umano»71, sebbene si veda costretto a emigrare negli Stati Uniti e ad assumere la cittadinanza americana, spogliandosi, anche se solo da un punto di vista burocratico, del suo essere europeo.
L’intensa attività di Thomas Mann a favore della democrazia non si arresta negli anni della guerra, anzi si intensifica grazie alla serie di radiomessaggi regolarmente trasmessi per la BBC tra il 1940 e il 194572, che hanno di certo un effetto rincuorante per molti tedeschi esiliati. Il suo cruccio è che i tedeschi non sanno (o non vogliono) provocare «con la propria forza»73 la caduta del nazismo prima del completo annientamento della Germania, ma ciò non gli impedisce di lavorare, mentre segue l’evolversi della situazione internazionale dalla sua casa californiana, a un nuovo progetto di romanzo, avviato nel 1943 e pubblicato nel 1947. La stesura del suo Doktor Faustus. Das Leben des deutschen Tonsetzers Adrian Leverkühn, erzählt von einem Freunde, storia del compositore Adrian Leverkühn che stringe un patto con il diavolo per assicurarsi una straordinaria fertilità creativa, copre, quindi, un lasso di tempo caratterizzato sia dalla speranza di un atterramento della Germania nazista, sia dalla crescente consapevolezza che il mondo tedesco è destinato a uscire abbattuto dal conflitto. La sua conferenza Germany and the Germans (La Germania e i tedeschi), originariamente pronunciata in lingua inglese nel giugno del 1945 alla biblioteca del Congresso di Washington, riflette perfettamente il dramma di una simile situazione. In essa, Mann fonde constatazioni politiche a riflessioni alle quali è giunto lavorando al suo ultimo romanzo, che infatti, su raccomandazione del suo stesso autore, deve essere letto alla luce del passato e del destino del continente europeo. Non sorprende allora che i filologi abbiano stabilito che lo scrittore si sia disposto a stendere il discorso rileggendo la Storia d’Europa nel secolo decimonono di Croce, traendone diversi excerpta per i suoi schizzi preparatori74.
L’intervento si apre con l’ennesima ammissione di responsabilità da parte di Thomas Mann, ma questa volta non in quanto antico seguace di tendenze nazionaliste, ma come semplice rappresentante della cultura tedesca, il cui «borghesismo cosmopolita», definito «provinciale e straniato dal mondo»75, è visto come la ragione di tutti i mali dell’Europa. La Innerlichkeit, che è «interiorità, cioè delicatezza, profondità del cuore»76, allo stesso tempo è «scissione fra l’elemento speculativo e quello politico sociale», con la prevalenza del primo sul secondo77. Mann risale fino a Lutero per discernere quel tratto della personalità tedesca «separatista ed antiromano, antieuropeo» che impedisce di comprendere il valore della libertà politica del cittadino. A Lutero, egli non può che contrapporre Goethe, che rappresenterebbe «la forza popolare piena ed incivilita, […] il demonismo costumato»78. I due caratteri, il luterano e il goethiano, non li reputa tuttavia tra loro separati, e infatti Goethe è identificato con l’incivilimento, quindi con la trasformazione in segno positivo delle forze irrazionali del popolo tedesco, non con la loro cancellazione. Mann si proclama convinto che «non vi sono due Germanie, l’una buona e l’altra malvagia, ma che vi è una Germania soltanto […]. Per questo ad uno spirito tedesco non è possibile rinnegare totalmente la Germania cattiva e colpevole»79. Una così grave asserzione, a pochi giorni dal termine del conflitto mondiale, non si pone naturalmente l’obiettivo di marchiare l’intero popolo tedesco con il segno di Caino, bensì di rendere attento il suo pubblico circa i rischi sempre insiti nel cuore della cultura europea, di cui la Kultur tedesca è parte integrante.
Per chiarire il suo pensiero, Mann fa un riferimento solo apparentemente laterale alla musica, non a caso fondamentale sia nella sua formazione80, sia nel Doctor Faustus. Egli scrive che la musica è «ad un tempo calcolatissimo ordine e antiragione germinatrice del caos»81, ed è per questa ragione che, nel suo romanzo, egli associa al patto col diavolo proprio la teoria armonica dodecafonica di Arnold Schönberg (che di tale rimando è tutt’altro che lusingato)82, intellettualistica ed estremamente logica. I tedeschi sarebbero «in prevalenza musicisti della verticale e non dell’orizzontale, son più grandi maestri dell’armonia […] che non della melodia, sono più strumentalisti che esaltatori della voce umana, molto più rivolti all’aspetto dotto e spirituale della musica che non a quello canoro che dà gioia al popolo»83. Pur appartenendo a pieno titolo alla cultura europea, che della musica fa un’arte eccelsa, i tedeschi avrebbero curato solo l’aspetto prettamente romantico di questa attività espressiva, appunto il «verticale» invece dell’«orizzontale». È importante osservare come Mann non contesti ai tedeschi la scelta di questa particolare accentazione – non potrebbe farlo, infatti, senza smentire il suo stesso ruolo di vate di un certo modo di intendere la Kultur –, ma rimproveri loro di non essersi mai degnati di «accettare dall’Europa, dalla religione europea dell’umanità e della democrazia, alcuna correzione o insegnamento»84. Egli ha pertanto superato l’esasperazione dei costituenti più oscuri del romanticismo e ha ormai fatto suo un umanesimo europeo in cui la componente tedesca rimane primaria, ma non è più preponderante.



IV

Il discorso La Germania e i tedeschi colpisce l’opinione pubblica internazionale e registra una grande diffusione anche al di fuori degli Stati Uniti. Mentre si riaprono le frontiere e si ristabiliscono i contatti interrotti o resi estremamente difficoltosi negli anni di guerra, Mann si afferma come un uomo che ha resistito alla dittatura, subendo sulla propria pelle l’esilio, e che ha riscattato le eventuali responsabilità del suo essere tedesco scomponendo spietatamente ogni aspetto del mito nazionale della Kultur. Ciò non significa, tuttavia, che egli sia intenzionato a rientrare da trionfatore in Germania, né che i tedeschi siano disposti a riaccoglierlo a braccia aperte85. L’atteggiamento di Mann nei confronti della colpa tedesca, alla quale nessuno – a partire dalla sua persona – sarebbe estraneo, colpisce, infatti, un nervo scoperto. In risposta agli appelli per un suo ritorno, lo scrittore non ha remore nel negare ogni residuo di comunanza con coloro che hanno «reso omaggio a Belzebù», e in primis con gli intellettuali che hanno proseguito la loro attività sotto le insegne del nazismo, i cui scritti gli appaiono ora «del tutto privi di valore» e «impregnati tutti di un certo odor di sangue e di vergogna»86. Queste parole, indirizzate, con una lettera aperta, al romanziere Walter von Molo, che lo aveva invitato a rientrare in Germania, non mancano di fare scalpore, tanto da precludergli ogni possibile accoglienza festosa in futuro. Il caso manniano non è, tuttavia, unico: anche il filosofo Karl Jaspers, che a sua volta solleva la questione della colpa tedesca87, subisce il medesimo ostracismo88. Per i tedeschi, in effetti, nel ventennio successivo alla guerra l’unico modo per elaborare il proprio passato pare essere dimenticarlo89.
Al di fuori della Germania, le parole di Mann sembrano invece in grado di esprimere sentimenti condivisi con altri spiriti democratici e antifascisti. L’Italia, in particolare, è un paese in cui si avvertono le medesime esigenze spirituali e politiche messe in campo da Mann e si coglie un’unità di fondo sui motivi conduttori della sua opera negli ultimi decenni. Ciò appare vero soprattutto per certa parte dell’intellettualità italiana, attiva sostenitrice della Resistenza, europeista (magari federalista) e progressista, che tiene banco sulle riviste di cultura nel vivace dopoguerra. Già nel novembre del 1945 Lavinia Mazzucchetti, fin dai primi anni Venti mediatrice instancabile tra Nord e Sud Europa90, rende nota su «Oggi» di Mario Pannunzio la risposta di Mann a von Molo91, inaugurando la ricucitura dei rapporti ufficialmente interrotti fin dal 1938 per volere del regime fascista, sceso a patti con il nazismo anche sul piano culturale92.
La recente pubblicazione, per opera della germanista Elisabetta Mazzetti, di parte della nutrita corrispondenza intercorsa tra Thomas Mann e i suoi interlocutori italiani93 è occasione per un ripensamento del rapporto tra Germania e Italia94 in un’imprescindibile prospettiva europea. Il volume della Mazzetti, che con acribia segue gli sviluppi di scambi epistolari che coprono il periodo tra il primo dopoguerra e la morte dello scrittore nel 1955, è concepito per il lettore che non abbia modo di penetrare un volume pubblicato dalla stessa studiosa in lingua tedesca, più corposo e completo rispetto al suo pendant in lingua italiana95. Quest’ultimo, che in alcuni paragrafi ripropone passaggi e interventi della stessa autrice già letti altrove, si giova, tuttavia, della presentazione di alcune missive edite per la prima volta, nonché della presenza di una sezione dedicata al carteggio, a sua volta inedito, tra Mann e il filosofo Umberto Campagnolo, fondatore della Société européenne de culture, di grande valore proprio nella citata prospettiva europea. La lettura della corrispondenza e le analisi della studiosa consentono di comprendere l’intensificazione delle relazioni tra Mann e gli intellettuali italiani, che si fondano su una crescente consapevolezza dei valori dell’umanesimo, ma soprattutto sull’impegno condiviso nella concreta edificazione di una comunità europea, non limitato a una semplice enunciazione teorica e retorica.
L’Italia è terra amatissima da Mann fin dagli anni giovanili. Sebbene non sfiori neppure gli edonismi gidiani, per via di una natura nordica e razionale che è in grado di riequilibrare gli eccessi del sentimento, secondo un conflitto interiore perfettamente delineato già nella novella Tonio Kröger del 1903, egli concepisce il meridione come simbolo della gioia dei sensi e dell’impulso artistico e creativo, caratterizzandolo, allo stesso tempo, con pennellate talvolta negative nelle sue opere letterarie96. È in Italia, infatti, che Mann inizia a lavorare ai Buddenbrooks, ed è a Palestrina, alle porte di Roma, che, in un afoso pomeriggio estivo, gli si presenta il diavolo in persona, come ammette solo incidentalmente in tarda età, dopo aver disseminato la sua opera (dal racconto Der Tod del 1897 fino al Doctor Faustus) di visioni demoniache avute dai suoi personaggi97.
L’amore per l’Italia è tuttavia offuscato, in occasione di una vacanza sulla costa toscana nel 1926, da un incontro ravvicinato con un paese sempre più provinciale e perbenista, e sempre più intollerante nei confronti della presenza straniera. È questa la nuova realtà fascista98, una volta conosciuta la quale Mann si rifiuta di tornare in Italia, come scrive all’attento Enzo Ferrieri99, per ragioni squisitamente politiche. Con tatto, non conoscendo la posizione politica del suo interlocutore, egli tende a separare con nettezza gli italiani e il fascismo (cosa che non sarebbe stato disposto a fare, quasi vent’anni dopo, per quanto riguarda tedeschi e nazismo), ammettendo di provare repulsione per «particolari forme espressive della gente, una certa eccitazione e una tensione nazionalista che da qualche tempo sembrano costituire il carattere della borghesia italiana». Egli biasima, infatti, «quell’ipertrofia del vanto nazionale, che sembra essere umanamente propria del fascismo»100. Ferrieri non si lascia scoraggiare dal rifiuto di Mann di tenere una conferenza per il Circolo del Convegno, e osa pubblicarne, pur con qualche abbreviazione, il Discorso intorno a Lessing del 1929, un brano incentrato sul valore dell’illuminismo, sulla ricerca della verità e sulla tolleranza101: tastando i confini della censura fascista, Ferrieri suggerisce indirettamente che le parole di Mann possono risuonare come un incoraggiamento anche nel contesto italiano. La brutta avventura di Forte dei Marmi, inoltre, è per Mann fonte di ispirazione diretta per la novella del 1930 Mario und der Zauberer (Mario e il mago), in cui il mago Cipolla ipnotizza e assoggetta gli ospiti di un albergo, fino al tragico – ma liberatorio – finale. Il racconto è un avvertimento ai tedeschi, già orientati a subire il fascino manipolatorio dell’incantatore Hitler, ma la novella viene intesa come un attacco all’Italia, a puntuale conferma dell’impressione ricevuta dallo scrittore circa il nuovo clima di ostilità nei confronti degli stranieri102.
Ciononostante, è proprio all’inizio degli anni Trenta che in Italia si scopre la vocazione non solo tedesca, ma universalistica di Thomas Mann. Bonaventura Tecchi ricorda che lo scrittore, di padre tedesco e di madre per metà brasiliana, è in grado di comunicare le antitesi «tra mentalità germanica e sangue latino, tra autorità e libertà, severità morale e libero amore dell’arte», che tuttavia non sono semplice autobiografismo, ma espressione di un senso della crisi condiviso. Secondo Tecchi, Mann sarebbe il «rappresentante tipico di un’epoca, nella quale certi contrasti che erano nei periodi precedenti e che sono di tutti i tempi e forse di tutti i luoghi, han preso più chiara e assidua coscienza»103. Non è dunque un caso se a Mann si guarda con crescente attenzione più come pensatore che come romanziere, specialmente nell’ambito della Scuola di Milano, per via di quell’opposizione tra Geist e Leben, tra arte e vita 104, che si rintraccia nelle sue opere d’inizio Novecento105. In una fase di smarrimento, sono significativamente le novelle ante 1914 come Tonio Kröger
e La morte a Venezia, frammentarie e giocoforza non rappresentative di un pensiero composito, e non i complessi romanzi manniani, tanto meno il tutto sommato ottimistico Zauberberg (tradotto in italiano nel 1930), a interessare una generazione di giovani che cercano nell’arte una via d’uscita a una situazione esistenziale difficile, aggravata dall’oppressione politica.
Le resistenze alla cultura prettamente democratica di cui Mann è portatore non impediscono, dunque, almeno nei primi anni Trenta, un proficuo scambio culturale, grazie soprattutto alle traduzioni, di cui la casa editrice Mondadori si fa promotrice106. Anche per questa ragione, Mann, perfino in seguito all’ascesa del nazismo e al suo esilio dalla Germania, pur dispiacendosi di non poter più coltivare in piena libertà il suo rapporto con un mondo culturale che ha sempre apprezzato, si dichiara convinto che, in Italia, vi sia maggiore libertà rispetto al suo paese d’origine: non solo, a seguito di un incontro privato, tenutosi nell’agosto del 1933 nella villa del conte Carlo Sforza nel Sud della Francia, al quale partecipano anche i fuoriusciti Guglielmo Ferrero e Gaetano Salvemini, egli critica la tendenza «degli italiani a presentare il fascismo altrettanto malvagio e criminoso del nazionalsocialismo, – io credo erroneamente»107, ma giunge a scrivere alla Mazzucchetti, ancora nel 1937, che, «[s]e non m’inganno, in Italia la cultura gode oggi di un alto grado di libertà»108. A partire dall’autunno 1938, tuttavia, con gli accordi culturali stipulati tra il regime mussoliniano e la Germania hitleriana, la pubblicazione degli scritti di Mann è ufficialmente bandita e il suo nome rimane impresso solo nella mente dei più assidui frequentatori della sua opera, al di fuori di ogni dimensione culturale pubblica.
Il ricordo di Mann, in ogni modo, non può essere facilmente cancellato: ecco infatti che, già nel novembre del 1944, il periodico romano «Mercurio», diretto da Alba de Cèspedes, pubblica un saggio del critico e drammaturgo Fabrizio Sarazani, in cui Mann, del quale si sono letti gli interventi più recenti in traduzione francese, è accostato, forse per la prima volta in maniera compiuta, a Benedetto Croce109. L’intellettualità progressista italiana rileva, infatti, che la lotta contro il fascismo è non solo una lotta per la libertà, ma anche per le radici democratiche della cultura europea, ed è stata condotta a fianco di personalità con le quali non era talvolta possibile comunicare direttamente. Iniziative editoriali come la collana Orientamenti di Mondadori, che si pone l’obiettivo di fornire materiali per una discussione intorno a temi etici e politici adatti, appunto, a riorientare il lettore italiano, ambiscono a rispondere a una tale esigenza, nella certezza che i libri siano strumenti indispensabili di rinnovamento, e uno dei primi autori a essere pubblicato nella collana mondadoriana è proprio Thomas Mann. L’editore milanese dà alle stampe, sotto il titolo Moniti all’Europa, una selezione di saggi politici scritti tra il 1922 e il 1945, in grado di dare conto della parabola del pensiero manniano, con il palese intendimento di proporre lo scrittore come modello per una società che ancora si sta liberando dalle rimanenze del fascismo e di una cultura che, per evidenti ragioni, a lungo è stata costretta a preservarsi dalla politicizzazione con la chiusura nella torre d’avorio. I Moniti all’Europa testimoniano l’approdo a un «umanesimo militante» da parte di un rappresentante del mondo intellettuale geloso della straordinarietà del patrimonio culturale della propria nazione, ma, allo stesso tempo, consapevole che tale eredità è priva di valore se non è direttamente correlata allo sviluppo della persona umana in ogni suo aspetto, compresa la dimensione politica. Alla raccolta di scritti politici si affianca la ripresa delle traduzioni dei recenti romanzi manniani (Carlotta a Weimar, con una censoria modifica del titolo, è pubblicato nel 1948 nella versione della Mazzucchetti e il Doctor Faustus in quella di Ervino Pocar nel 1949). Mondadori si propone come battistrada, insieme alla casa editrice S. Fischer, anche della pubblicazione delle opera omnia manniane, rinvigorendo la familiarità di un rapporto che si fa particolarmente cordiale nel dopoguerra, all’ombra di un comune progetto culturale e politico di largo respiro.
Quando dunque l’Accademia dei Lincei seleziona Mann come socio corrispondente, lo scrittore ringrazia con una lettera in cui accetta la nomina quale membro straniero, «ma solo in quanto si possa essere stranieri all’Italia»:

Del pensiero e dell’arte italiana fui sempre, quanto mi fu concesso, cultore e devoto amante […]. Godo vivamente della nuova opportunità che ora mi offre di sentirmi fraterno, e quasi direi, non ospite ma consanguineo, agli spiriti eminenti che, ricordati o presenti, abitano le stanze dove spero di salutarLa personalmente110.

Se parlare di «Blutsverwandtschaft» («parentela di sangue») può forse apparire stridente considerato il passato recente, pur trattandosi di un’espressione congrua al linguaggio del tempo, la metafora rende efficacemente l’idea di un’appartenenza incrociata. L’incontro tra le alte sfere della cultura italiana e Thomas Mann avviene nel segno della percepita necessità che una cultura libera sia alla base della ricostruzione morale dell’Europa, e infatti la scelta dell’Accademia dei Lincei è motivata con ragioni di ordine politico e civile, non riguardando i romanzi, bensì i suoi «saggi letterari, morali e di costume […], che fanno di lui uno dei più alti giudici e critici contemporanei»111.
Nei tardi anni Quaranta, critici e pensatori italiani, con un’interpretazione estensiva, convergono nel ritenere che molti degli aspetti reputati da Mann specificamente tedeschi appartengano all’Europa nel suo complesso. La pubblicazione del testo della conferenza La Germania e i tedeschi su «Belfagor» è seguita, ad esempio, da un commento di Mario Andreis, che rimprovera con una certa asprezza a Mann l’eccessiva sottolineatura della dimensione tedesca della Innerlichkeit, che sarebbe invece caratteristica anche degli altri popoli europei112. Dello stesso avviso è la gran parte della critica italiana di fronte all’uscita del Doctor Faustus, così che, come già a suo tempo accaduto per le Betrachtungen eines Unpolitischen, analisi e osservazioni che Mann intende limitare alla sola Germania sono interpretate in senso universale. Lavinia Mazzucchetti, in particolare, prevede che «sia destino di quest’opera esser meditata e capita prima dagli europei non tedeschi che dai protagonisti della gran tragedia»113, come puntualmente accade.
Alle medesime conclusioni giunge anche il germanista piemontese Leonello Vincenti:

Questo Leverkühn è alieno da ogni ciarpame romantico: beffardamente oggettivo, non si sogna affatto di propiziarsi con pratiche di negromante un potere straordinario […]. Ma ha ciò che più importa per straniarsi dai limiti umani, la freddezza del cuore, la passione orgogliosa d’un intelletto sovrano, la solitudine egoistica, la volontà inesorabile di raggiungere il proprio scopo. Si forma così in lui un animo luciferesco che, se pur non determina nessuna colpa specifica, produce uno stato di colpevolezza religiosa, o metafisica che si voglia. Ma quello è l’animo e questa è la colpa, pensa Thomas Mann, di tutta un’epoca in una gente che per superbia e brama di potenza si sia separata dalle altre in una demoniaca solitudine. Così la tragedia di un artista tedesco può divenir rappresentativa della tragedia del suo tempo e del suo popolo114.

La colpa tedesca è dunque la colpa di un’intera epoca e dell’umanità tutta, e Vincenti esprime tale convinzione con un velato – ma senz’altro intenzionale – riferimento al citato Karl Jaspers, il quale aveva definito la colpa metafisica come corresponsabilità del singolo nei confronti di ogni altro uomo per via della solidarietà insita nell’essere parte della comunità umana. Anche coloro che non si sono macchiati direttamente di alcun crimine, dunque anche gli italiani e gli europei che non hanno preso parte ai delitti tedeschi, condividono, in quanto esseri umani messi alla prova dal diavolo, la debolezza del peccato. La vera seduzione diabolica non consiste nel lasciarsi attrarre nel gorgo dei cascami del romanticismo, ma nell’egoismo che distacca dai propri simili. Il Doctor Faustus mette perciò d’accordo i critici italiani sulla sua valenza extraletteraria, dal momento che vi si esprime lo smarrimento dell’intera umanità alle prese con una guerra che è tedesca non perché banalmente provocata dalle mire espansionistiche della Germania e dalle derive ideologiche di un’intera classe dirigente, ma per via, da un lato, del suo carattere conquistatore e distruttivo e della rivendicazione di una superiorità non materiale, bensì culturale115, e, dall’altro, della pretesa di ravvisare nel potere o nella creatività qualcosa di più importante rispetto al destino dell’uomo. Proprio l’allontanamento dall’umano è il vero peccato di Adrian Leverkühn, e per questo non gli è risparmiata la punizione.
Un’Europa colpevole nel suo complesso è, tuttavia, un’Europa che non può permettersi di sciogliersi in singole unità, proprio in considerazione della compenetrazione originaria dei suoi elementi e dell’enorme compito che deve affrontare. Non stupisce, infatti, che Thomas Mann, al culmine della sua popolarità, prenda ancora una volta posizione sulle vicende politiche, pronunciandosi contro l’incalzante guerra fredda e subendo nuovamente le conseguenze delle sue parole e dei suoi atti. La decisione di rimettere piede per la prima volta in Germania dopo sedici anni di esilio per onorare il bicentenario della nascita di Goethe, nel 1949, è legata, infatti, alla scelta di tenere un discorso ufficiale sia a Francoforte, città di nascita del poeta, sia a Weimar, che si trova, tuttavia, nel territorio sottoposto al controllo sovietico116. Mann non può affatto concepire un’Europa divisa e intende anche simbolicamente sottolineare il legame culturale esistente al di là della separazione politica, ma il suo gesto suscita l’ennesima ondata di indignazione in Germania occidentale e gli vale l’accusa di filocomunismo (al punto tale che, anche in Italia, ancora alcuni anni più tardi gli viene negato, per motivi politici, il conferimento di una qualunque onorificenza ufficiale)117.
Eppure, Thomas Mann rimane, fino alla morte, una delle più luminose stelle nel firmamento culturale europeo e italiano in particolare, sia per la rilevanza della sua opera nella formazione di molti intellettuali, soprattutto se legati alla Scuola di Milano, sia per il suo carisma di cittadino europeo e di difensore della cultura umanistica. Il primo caso è ben documentato dallo scambio epistolare intercorso tra Mann ed Enzo Paci118. Quest’ultimo era stato tra i primi, fin dagli anni Trenta, a vagliare con attenzione non solo i romanzi, ma anche il corpus saggistico dello scrittore tedesco, analizzando dal punto di vista filosofico i riferimenti critici a Schopenhauer, Nietzsche e Wagner e inserendo l’opera dello scrittore nel quadro della filosofia della crisi. Nel 1951, in occasione dell’avvio della rivista “aut aut”, Paci rende pubblico a mo’ di augurio un messaggio ricevuto da Mann119, ma ben più interessante è una lunga missiva, da lui stesso composta tra l’estate e l’autunno del 1950 e indirizzata allo scrittore, in cui vengono sottolineati tutti i punti di convergenza tra il suo pensiero fenomenologico e l’opera manniana, in particolare il Doctor Faustus. Il documento consente di prendere atto della scrupolosa lettura a cui è sottoposta ogni riga pubblicata da Mann, alla ricerca dei diversi livelli di interpretazione filosofica e delle fonti di ispirazione, fino, a tratti, alla piena identificazione120.
Il secondo caso concerne la figura di Umberto Campagnolo, il quale, attraverso la Société europeéenne de culture, fondata nel 1950, si pone l’obiettivo di richiamare scrittori, artisti e pensatori alla loro funzione nella società e all’urgenza di una loro azione di difesa dell’autonomia della cultura rispetto alla politica121. Egli è promotore di un dialogo tra Europa orientale e occidentale, ritenuto possibile per via delle comuni radici culturali, negli anni in cui è più acuta la fobia anticomunista, e individua in Mann un candidato ideale per l’ingresso nella Société européenne de culture. Non solo il decennale impegno a favore della democrazia, ma anche il tentativo di conciliare tra loro la Germania dell’Est e dell’Ovest nel segno di Goethe rendono infatti auspicabile l’adesione dello scrittore. Mann, a sua volta, condivide con Campagnolo la contrarietà all’anticomunismo cieco e all’esclusione della Russia e dei suoi uomini di cultura dal consesso delle nazioni europee. La collaborazione di Mann con il filosofo italiano, pur se limitata dall’età già avanzata e dai numerosi impegni dello scrittore, attesta pertanto uno sforzo condiviso nel tracciare, con iniziative concrete, la via verso la rappacificazione di un continente, se possibile, diviso ora al suo interno ancor più che negli anni della lotta tra fascismo e antifascismo.
Mann pubblica su «Comprendre», la rivista della Societé européenne de culture, alcuni saggi122 incentrati proprio sul senso dell’Europa, a partire dalla conferenza Il mio tempo, già tenuta negli Stati Uniti, in cui si schiera apertamente per una mediazione tra Occidente e mondo russo, nei confronti del quale confessa il suo inestinguibile debito, e puntella la sua antica opinione circa l’urgenza che il liberalismo allarghi i propri orizzonti a un socialismo moderato123. Notevole è anche il saggio Retour d’Amérique, redatto espressamente per «Comprendre» e pubblicato nel 1953, in cui Mann ammette, nonostante i lunghi anni trascorsi negli Stati Uniti, di sentirsi ancora integralmente un uomo europeo e di avere lasciato il suo paese d’adozione anche per via del forzato conformismo a cui il maccartismo obbliga gli americani. Il suo «européisme» non lo esime, tuttavia, dal criticare sia quella che giudica la sottomissione al denaro e al potere americani, sia l’imitazione delle tendenze culturali d’oltreoceano124.
Proprio per questo suo atteggiamento allo stesso tempo attento e severo, Mann è indicato dalla casa editrice Einaudi come l’intellettuale più adatto a redigere la prefazione delle Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, raccolta curata da Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli e uno dei best seller degli anni Cinquanta125. Il libro pone al centro una caratterizzazione civile che accomuna popoli diversi attraverso sentimenti e valori condivisi, e comprova l’esistenza di un progetto culturale democratico, al quale collaborano case editrici, riviste e singoli intellettuali, al di là delle diverse sfumature politiche. L’Italia non è dunque testimone passiva dell’opera di Thomas Mann, ma protagonista della costruzione di una comunità di dimensioni sopranazionali, composta non da istituzioni politiche, né da espressioni valoriali astratte, ma da scambi, percezioni reciproche, collaborazioni editoriali, dunque da ponti tra l’ideale e la sua concreta trasformazione in atto, in una continua mediazione di senso che crea, con i suoi legami anche affettivi, una famiglia allargata di consanguinei.



V

Nel dopoguerra Mann raggiunge l’apice del suo successo divenendo un autore particolarmente popolare, in Italia e in tutto il mondo. Pochi giorni dopo aver festeggiato il suo settantottesimo compleanno, egli fa riferimento alla quantità sempre maggiore di lettere che gli vengono indirizzate e riconosce che, verosimilmente, è dai tempi di Goethe che uno scrittore non è travolto da tanti messaggi di stima e riconoscenza126. Un simile fenomeno si può chiarire solo ammettendo che, nell’Europa del dopoguerra (e in paesi reduci da anni di intenso leaderismo), Thomas Mann è un pater patriae del quale si percepisce l’estremo bisogno. Tale identificazione, alla quale Mann non si sottrae, si riflette nell’evoluzione della sua idea di Europa, che non è più recepita come quel brodo di coltura ottocentesco e primonovecentesco, con le letture con divise e i contatti reciproci, bensì come una nuova Anverwandlung parallela a quella da lui esperita con Goethe, che lo ha portato a concepire la «parentela di sangue» di cui parla nella lettera inviata all’Accademia dei Lincei.
Questa nuova (e ultima) fase trova nel romanzo “medievale” Der Erwählte (L’eletto), ingiustamente considerato secondario, il suo cardine. Protagonista è Gregorio, figlio dei due gemelli incestuosi Wiligis e Sibylla, il quale si macchia a sua volta della colpa di incesto sposando inconsapevolmente la madre, regina di Fiandra e Artois, e decide di sottoporsi a una tremenda penitenza, vivendo in solitudine per diciassette anni su uno scoglio impervio nel canale della Manica. Il volere di Dio, tuttavia, si manifesta nel suo riscatto: Gregorio è designato per salire al soglio pontificio e giunge a completa redenzione quando la madre, pellegrina a Roma per chiedere perdono dei suoi peccati, riconosce nel papa il figlio-marito e con lui si riconcilia. Di questo romanzo, percorso da una vena ironica marcata, a tratti perfino surreale127, lo scrittore fornisce una lettura scettica. In quanto «opera tarda, in ogni senso, non solo per gli anni del suo autore, ma come prodotto di una tarda epoca che gioca, usandole, con le onorate antiche forme di una lunga tradizione», egli riconosce di essere «qualcuno arrivato tardi, un ultimo, uno che conclude e chiude»:

Per me, ho l’impressione come se non dovesse venire più nulla. Spesso la nostra letteratura contemporanea, le cose più sottili e più alte mi paiono quasi un congedo, un ricordare rapido, un ricapitolare ed evocare ancora una volta il mito occidentale – prima che cada la notte, forse una lunga notte e un profondo oblio. Una piccola opera come questa è tarda cultura che viene prima della barbarie, già guardata dal tempo quasi con occhi estranei128.

Senza dubbio una simile interpretazione rimanda al suo pessimismo culturale, che, nonostante l’amore per la democrazia e il lungo flirtare con l’idea socialista, gli appartiene costitutivamente. Eppure L’eletto contiene un’idea positiva per l’Europa e un messaggio che attrae particolarmente il lettore italiano. Diversi sono, infatti, gli indizi di una dimensione prettamente continentale della narrazione. In primo luogo, la prosa manniana raccoglie una grande varietà di lingue, dal decadente latino medievale all’antico francese, da passaggi in inglese a quelli in un idioma regionale come il Plattdeutsch, che un lettore attento può riconoscere – e il riconoscimento è tema centrale del romanzo – a seconda del livello di comprensione linguistica, ma la cui complessità rimane velata anche allo studioso che non si occupi specificamente dell’opera. Nelle intenzioni di Mann, la varietà linguistica del libro non svolge una mera funzione interna al romanzo, differenziando socialmente tra loro i personaggi; la studiata mescolanza linguistica, e soprattutto lo strano dialetto parlato sulla Manica dai pescatori Wiglaf e Ethelwulf, è simbolo di una unificazione che non è solo in prospettiva futura, ma già in atto129. Si tratta pertanto di un disegno linguistico integrativo, che mostra ai lettori l’inscindibilità delle lingue e dunque delle culture, i prestiti e gli incroci che non sono accessori, ma componenti fondamentali degli scambi comunicativi.
Oltre all’aspetto linguistico, è a livello simbolico che l’autore suggerisce il suo messaggio, ponendo la città di Roma al centro della narrazione come luogo in cui confluiscono peccatori e uomini misericordiosi, lingue e culture diverse, e dunque cuore pulsante di un’Europa umanistica e cristiana. Proprio le radici cristiane e universalistiche, dunque etiche e democratiche dell’Europa rappresentano per Mann, di cultura protestante e non credente, un aspetto di crescente importanza. Il narcisismo assoluto dei gemelli Wiligis e Sibylla, che è una riproposizione del topos letterario del Doppelgänger romantico, suggerisce, inoltre, che nell’altro si riconosce soltanto ciò che amiamo di noi stessi. Tale orgogliosa affermazione di sé, che porta ad accettare come degna soltanto l’altra copia di noi stessi – e infatti Sibylla, una volta perso il gemello Wiligis, rifiuta di sposarsi fino a quando non è attratta da Gregorio, non sapendo chi in realtà sia, ma constatando in lui la presenza di qualcosa che le assomiglia – altro non è se non il riconoscimento dell’uguale a sé, dei popoli europei che si riconoscono affini e attratti l’uno dall’altro, perché legati da una vera e propria «parentela di sangue». Il protagonista, infine, è un uomo che molto ha peccato, ma che è comunque toccato dalla grazia, e più è terribile il peccato, più è abbondante la misericordia, inaspettato dono gratuito che procede da Dio e che in alcun modo si può meritare. Dopo l’addolorata conclusione delle vicende di Adrian Leverkühn nel Doctor Faustus, ecco dunque la certezza, seppure in parodia, che anche per l’Europa divisa vi è speranza, finché si verifica il riconoscimento dell’altro come parte di sé – «Io vi riconosco sempre», dice la vecchia Sibylla al papa-figlio-marito130.
Nell’ultima fase della vita di Thomas Mann e della sua riflessione sull’Europa si osserva, pertanto, come a contare sia soprattutto l’emozione. Se la parola «amore» posta in conclusione allo Zauberberg poteva lasciare al lettore un retrogusto artificiale, perché appariva quasi imposta e obbligata dall’ottimismo un po’ posticcio di metà anni Venti e da un bisogno ragionevole di rappacificazione tra gli estremi, ora la razionalità di quella scelta si affianca al trasporto suscitato dal sentimento. In occasione della sua ultima visita a Roma, nel 1954, Mann annota sulle pagine del suo diario che la città «mi entusiasma pur sempre per la prospettiva millenaria che offre, e quando rivedo San Pietro o il Foro Romano, il cuore mi batte più forte»131: solo ora egli ha conquistato se stesso, anche agli occhi del suo pubblico, come uomo completo, come vero e proprio Goethe novecentesco, letterato e politico, razionale e sentimentale allo stesso tempo.
Ancora al termine di una lunga cavalcata, che lo ha portato dall’esaltazione della Kultur tedesca a quella dell’Europa umanistica, Mann può permettersi di non dare neppure una definizione completa di che cosa sia, a suo parere, l’Europa: non tanto perché essa sia già esistente e presente sotto gli occhi – o nei cuori – di tutti, quanto perché, come per Croce, essa è un oggetto di fede ancor più che il risultato di un convincente processo politico132. Di essa, egli scrive che non può essere disgiunta dalla profondità cronologica che la caratterizza, dunque dalla sua storia millenaria, ma anche dai valori umanistici e dal suo ruolo di conciliazione attivamente svolto per «éviter une catastrophe sans nom», come scrive nel maggio del 1953, appena rientrato dall’Italia133. L’Europa non è una spettatrice neutrale, ma una mediatrice coinvolta, secondo quanto esige la sua storia. È questa, in fondo, la continua esigenza dell’oggi134, alla quale Mann, fino all’ultimo respiro, non si sottrae.













NOTE
1 Sul rapporto tra Mann e Silone cfr. E. Mazzetti, Thomas Mann und die Italiener, Frankfurt am Main-Berlin, Lang, 2009, pp. 163-185. Orientarsi all’interno della bibliografia su Thomas Mann è un’operazione titanica. Per questo si rimanda principalmente alle annate più recenti del «Thomas Mann Jahrbuch» oltre che a L. Mirabelli, Centotre anni di bibliografia in lingua italiana su Thomas Mann (1908-2011), Roma, Istituto italiano di studi germanici e Associazione italiana di studi manniani, 2011.^
2 «Die Cocktail Partys, das PEN-Dinner [,] der turbulente Empfang in der Akademie mit Television-Ansprache. […] Zwischendurch viel von der großartigen Stadt gesehen. Mit Silone San Clemente, das Altertümlichste, tief hinab in die Mitras-Sphäre» (Th. Mann, Tagebücher 1953-1955, a cura di I. Jens, Frankfurt am Main, Fischer Taschenbuch Verlag, 2003, p. 53, annotazione del 1° maggio 1953).^
3 Thomas Mann a Ranuccio Bianchi Bandinelli, 3 maggio 1953, in Th. Mann, Lettere a italiani, Introduzione e commento di L. Mazzucchetti, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 100-101.^
4 I protagonisti provengono dallo spettacolo cruento di una della corrida portoghese e il Professor Kuckuck coglie l’occasione per raccontare di «un antichissimo santuario romano, dove dall’elemento superiore cristiano si scende giù sino al culto di una divinità molto incline al sangue, i cui riti un tempo stavano quasi per strappare il grado di religione universale al culto del Signore Gesù, essendo i suoi misteri straordinariamente diffusi nel popolo. I neofiti di quella fede non venivano battezzati con l’acqua, ma col sangue di un toro, che forse era il dio medesimo, benché vivesse poi anche quale divinità in chi versava il suo sangue. Tale dottrina conteneva qualcosa di indissolubile e di unificante, rappresentava per tutti i suoi adepti un’unione di vita e di morte, ed il suo mistero consisteva nell’uguaglianza e nell’identità fra uccisore e ucciso, fra la scure e la vittima, fra il dardo e la mira…» (Th. Mann, Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, in Tutte le opere di Thomas Mann, a cura di L. Mazzucchetti, vol. V, Milano, Mondadori, 1955, pp. 1063-1064).^
5 Th. Mann, Briefe 1948-1955 und Nachlese, Frankfurt am Main, S. Fischer, 1965, p. 294.^
6 Thomas Mann a Gottfried Bermann Fischer, 27 maggio 1953, in Idem. Lettere, a cura di I.A. Chiusano, Milano, Mondadori, 1986, p. 857.^
7 La storiografia si è occupata principalmente del rapporto di Mann con la politica e con il suo paese d’origine. In questa sede si rimanda a K. Sontheimer, Thomas Mann und die Deutschen, München, Nymphenburger Verlagshandlung, 1961; W.F. Michael, Thomas Mann auf dem Weg zur Politik, Bern, Lang, 1985; F. Fechner, Thomas Mann und die Demokratie. Wandel und Kontinuität der demokratierelevanten Äußerungen des Schriftstellers, Berlin, Duncker & Humblot, 1990; B. Hermann, Der heitere Verräter. Thomas Mann – Aspekte seines politischen Denkens, Stuttgart, Ibidem-Verlag, 2003; M. Görtemaker, Thomas Mann und die Politik, Frankfurt am Main, S. Fischer, 2005. Sulla questione europea si segnala il numero della «Revue de littérature comparée» (ottobre-dicembre 1998) dedicato a Heinrich et Thomas Mann européens, a cura di Y. Chevrel e M. Schmeling; V. Hansen, Thomas Mann e l’Europa, in A. Ruchat (a cura di), Thomas Mann come lavorava, come l’abbiamo letto, Como-Pavia, Ibis, 2000, pp. 159-175; M. A. Raschini, Thomas Mann e l’Europa. Religione umanità storia, Venezia, Marsilio, 1994 (che è tuttavia di carattere filosofico e scarsamente informativo). Appare significativo che nel libro di A. Kraume, Das Europa der Literatur. Schriftsteller blicken auf den Kontinent 1815-1945, Berlin, De Gruyter, 2010, Thomas Mann venga citato solamente in riferimento al fratello Heinrich e al figlio Klaus, ai quali viene dedicato ampio spazio.^
8 F. Guidali, Scrivere con il mondo in testa. Intellettuali europei tra cultura e potere (1898-1956), Milano-Udine, Mimesis, 2016.^
9 L. Mazzucchetti, La conversione di Thomas Mann. Omaggio nel suo settantesimo compleanno [1945], ora in Idem. Novecento in Germania, Milano, Mondadori, 1959, pp. 277-283.^
10 T. Mann, Pensieri di guerra e Idem, Federico e la grande coalizione, in Idem, Scritti storici e politici, a cura di L. Mazzucchetti, Milano, Mondadori, 1957, rispettivamente pp. 33-52 e pp. 53-112.^
11 A. Williams, Thomas Mann’s nationalist phase: A study of “Friedrich und die Grosse Koalition”, in «German Life and Letters», 22 (1969), 2, pp. 147-155.^
12 T. Mann, Betrachtungen eines Unpolitischen, Berlin, S. Fischer, 1918, tr. it. Considerazioni di un impolitico, a cura M. Marianelli e M. Ingenmey, Milano, Adelphi, 1997.^
13 Uno studio completo è quello di Ph. Gut, Thomas Manns Idee einer deutschen Kultur, Frankfurt am Main, S. Fischer, 2008.^
14 G. Bollenbeck, Bildung und Kultur. Glanz und Elend eines deutschen Deutungsmusters, Frankfurt am Main, Insel-Verlag, 1994; W. Lepenies, The Seduction of Culture in German History, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2006.^
15 T. Mann, Il mio tempo, in Tutte le opere di Thomas Mann, a cura di L. Mazzucchetti, vol. XI, Scritti storici e politici, Milano, Mondadori, 1957, p. 623.^
16 V. Hansen, Thomas Mann e l’Europa, cit., p. 161.^
17 Sulle visioni di Europa circolanti in Germania nel primo Novecento e sulle loro ramificazioni fin nel secondo dopoguerra si rimanda a V. Conze, Das Europa der Deutschen. Ideen von Europa in Deutschland zwischen Reichstradition und Westorientierung (1920-1970), München, Oldenbourg, 2005; Ch. Bailey, Between Yesterday and Tomorrow: German Visions of Europe, 1926-1950, New York, Berghahn, 2013; R. Bavaj, M. Steber (a cura di), Germany and ‘The West’: The history of a modern concept, New York-Oxford, Berghahn, 2015. Sul concetto di Abendland si rimanda a D. Pöpping, Abendland. Christliche Akademiker und die Utopie der Antimoderne 1900-1945, Berlin, Metropol, 2002; V. Conze, Facing the Future Backwards. “Abendland” as an Anti-liberal Idea of Europe in Germany between the First World War and the 1960s, in D. Gosewinkel (a cura di), Anti-liberal Europe. A Neglected Story of Europeanization, New York-Oxford, Berghahn, 2015, pp. 72-89.^
18 L. Mazzucchetti, Il romanziere della rivoluzione tedesca e suo fratello [1920], ora in Idem, Novecento in Germania, Milano, Mondadori, 1959, pp. 64-69.^
19 Thomas Mann a Lavinia Mazzucchetti, 4 luglio 1920, in Th. Mann, Lettere a italiani, cit., pp. 17-18.^
20 T. Mann, Della repubblica tedesca, in Idem, Moniti all’Europa, Milano, Mondadori, 1947, p. 17.^
21 Ivi, p. 18.^
22 Ivi, p. 20.^
23 Ivi, p. 21.^
24 Ivi, p. 23.^
25 Ivi, p. 39.^
26 Ivi, pp. 44-45.^
27 Tra i principali contributi sul tema si vedano A.-M. Saint-Gille, La «Paneurope». Un débat d’idées dans l’entre-deux-guerres, Paris, Presses Paris Sorbonne, 2003; V. Schöberl, “Es gibt ein grosses und herrliches Land, das sich selbst nicht kennt – es heisst Europa”. Die Diskussion um die Paneuropaidee in Deutschland, Frankreich und Grossbritannien 1922-1933, Berlin-Münster, Lit, 2008.^
28 T. Mann, Rendiconto parigino, in Tutte le opere di Thomas Mann, a cura di L. Mazzucchetti, vol. XI, cit., p. 198.^
29 T. Mann, La montagna incantata, Milano, Corbaccio, 1992, p. 676.^
30 T. Mann, Rendiconto parigino, cit., pp. 187-188.^
31 T. Mann, Cultura e socialismo, in Idem, Pace mondiale e altri scritti, a cura di R. Bagnoli, Napoli, Guida, 2001, p. 23.^
32 Ivi, p. 26.^
33 Ivi, pp. 31-32.^
34 Cfr. T. Visone, L’Europa oltre l’Europa. Metamorfosi di un’idea nella crisi degli anni Trenta (1929-1939), Pisa, Edizioni ETS, 2015, pp. 274-312. Si veda pure D. Holmes, Politisierung eines Unpolitischen? Thomas Mann and Socialism, 1918-1933, in «Oxford German Studies», 34 (2005), 2, pp. 189-196.^
35 T. Mann, Appello alla ragione, in Idem, Moniti all’Europa, cit., p. 81.^
36 Ivi, p. 82.^
37 Ivi, pp. 88-89.^
38 Ivi, p. 90.^
39 Ivi, p. 92.^
40 Ivi, p. 100.^
41 Per la corrispondenza cfr. O. Besomi, H. Wysling, La corrispondenza Croce-Mann, 1930-1936, in «Archivio Storico Ticinese», 61 (1975), pp. 33–48 e B. Croce, T. Mann, Lettere 1930-1936, Napoli, Pagano, 1991. Si vedano, inoltre, A. Venturelli, Thomas Mann e Benedetto Croce: un confronto tra due borghesie, in «Studi Germanici», 13 (1975), pp. 333-353; A. Di Benedetto, Interesse di Croce per Thomas Mann: una breve intesa?, in A. Comi, A. Pontzen (a cura di), Italien in Deutschland. Deutschland in Italien: die deutsch-italienischen Wechselbeziehungen in der Belletristik des 20. Jahrhunderts, Berlin, Schmidt, 1999, pp. 317–341; G. Galasso, Benedetto Croce et l’unité européenne, in A. Bachoud, J. Cuesta, M. Trebitsch (a cura di), Les intellectuels et l’Europe de 1945 à nos jours, Paris, L’Harmattan, 2009, pp. 21-42; A. Schneider, Un incontro “che ha lasciato una traccia profonda”: Thomas Mann e Benedetto Croce a Monaco di Baviera, 28 settembre 1931, in A. Benini e A. Schneider (a cura di), Thomas Mann nella storia del suo tempo, Firenze, Passigli, 2007, pp. 317-367.^
42 B. Croce, recensione a Thomas Mann, Betrachtungen eines Unpolitischen, in «La Critica», 18 (1920), p. 183.^
43 B. Croce, Antihistorismus, München-Berlin, Oldenbourg, 1931.^
44 Mann a Croce, 27-28 novembre 1939, in B. Croce, T. Mann, Lettere 1930-1936, cit., pp. 3-4.^
45 Inferno, canto XXIII, versi 28-30.^
46 H. Lehnert, E. Wessell, Nihilismus der Menschenfreundlichkeit. Thomas Manns “Wandlung” und sein Essay “Goethe und Tolstoi”, Frankfurt am Main, Klostermann, 1991.^
47 T. Mann, Goethe e Tolstoi, in Nobiltà dello spirito, Milano, Mondadori, 1953, p. 98.^
48 L. Mazzucchetti, Thomas Mann e Goethe, in T. Mann, Dialogo con Goethe, a cura di L. Mazzucchetti, Milano, Mondadori, 1955, p. XXVIII.^
49 B. Croce, La Germania che abbiamo amata, in «La Critica», 34 (1936), p. 461.^
50 Ivi, p. 464.^
51 Ivi, p. 466.^
52 F. Guidali, Scrivere con il mondo in testa, cit., pp. 122-134.^
53 T. Mann, Attenzione, Europa!, in Idem, Moniti all’Europa, cit., p. 106.^
54 Ivi, p. 113.^
55 T. Mann, Studi umanistici e umanesimo, in Tutte le opere di Thomas Mann, a cura di L. Mazzucchetti, vol. XII, Scritti minori, Milano, Mondadori, 1958, p. 498.^
56 Ivi, p. 504.^
57 Ivi, p. 505.^
58 Ivi, p. 506.^
59 Thomas Mann a Ferdinand Lion, 13 marzo 1952, in Idem,Lettere, a cura di I.A. Chiusano, cit., p. 857.^
60 J. Assmann, Mose gegen Hitler. Die Zehn Gebote als antifaschistisches Manifest, in «Thomas Mann Jahrbuch», 28 (2017), pp. 47-62.^
61 T. Mann, Carlotta a Weimar, in Tutte le opere di Thomas Mann, a cura di L. Mazzucchetti, vol. V, cit., pp. 191-192.^
62 T. Mann, Misura e valore. Prefazione alla rivista omonima, in Idem, Moniti all’Europa, cit., p. 129.^
63 Ivi, pp. 129-130.^
64 Ivi, pp. 138-139.^
65 F. Guidali, Scrivere con il mondo in testa, cit., pp. 128-134.^
66 T. Mann, Misura e valore, cit., p. 140.^
67 Ivi, p. 141.^
68 T. Mann, Il problema della libertà, in Scritti storici e politici, cit., p. 375.^
69 T. Mann, L’altezza dell’ora, in Idem, Moniti all’Europa, p. 66.^
70 T. Mann, Il problema della libertà, cit., p. 193.^
71 T. Mann, L’altezza dell’ora, cit., p. 65.^
72 T. Mann, Attenzione, tedeschi! Cinquantacinque radiomessaggi alla Germania, in Idem, Moniti all’Europa, cit., pp. 197-339.^
73 Ivi, p. 339.^
74 T. Mann, Deutschland und die Deutschen. Essays 1938-1945, a cura di H. Kurzke, S. Stachorski, vol. 5, Frankfurt am Main, S. Fischer, 1996, p. 434.^
75 T. Mann, La Germania e i tedeschi, in Idem, Moniti all’Europa, cit., p. 361.^
76 Ivi, p. 374.^
77 Ivi, p. 364.^
78 Ivi, pp. 365-366.^
79 Ivi, p. 378.^
80 Cfr. V. Mertens, Groß ist das Geheimnis. Thomas Mann und die Musik, Leipzig, Militzke Verlag, 2006; H. R. Vaget, Seelenzauber. Thomas Mann und die Musik, Frankfurt am Main, S. Fischer, 2006.^
81 T. Mann, La Germania e i tedeschi, cit., p. 364.^
82 Cfr. A. Schönberg, T., Mann, A proposito del Doctor Faustus. Lettere 1930-1951, a cura di E. Randol Schönberg, Milano, Archinto, 2008.^
83 T. Mann, La Germania e i tedeschi, in Idem, Moniti all’Europa, cit., p. 364.^
84 Ivi, p. 377.^
85 Sul legame tra Mann e la Germania del dopoguerra cfr. le ricerche più recenti in «Thomas Mann Jahrbuch», 27 (2014).^
86 T. Mann, Perché non ritorno in Germania, cit., pp. 346-347.^
87 K. Jaspers, Die Schuldfrage, Heidelberg, Lambert Schneider, 1946 (la più recente traduzione italiana è La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Milano, Cortina, 1996).^
88 R. Kadereit, Karl Jaspers und die Bundesrepublik Deutschland. Politische Gedanken eines Philosophen, Paderborn, Schöningh, 1999; M.W. Clark, A Prophet without Honour. Karl Jaspers in Germany, 1945-58, in «Journal of Contemporary History», 37 (2002), 2, pp. 197-222; Ch. Thornhill, Karl Jaspers. Politics and metaphysics, London-New York, Routledge, 2002; E. Alessiato, Karl Jaspers e la politica. Dalle origini alla questione della colpa, Napoli, Orthotes, 2012.^
89 A. Dirk Moses, German Intellectuals and the Nazi Past, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2007; S.A. Forner, German intellectuals and the challenge of democratic renewal: Culture and politics after 1945, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2014, pp. 18-148. Interessante è anche la prospettiva adottata da A.M. Parkinson. An Emotional State: The Politics of Emotion in Postwar West German Culture, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2015.^
90 In merito, si veda almeno l’agile volumetto «Come il cavaliere sul lago di Costanza». Lavinia Mazzucchetti e la cultura tedesca in Italia, a cura di A. Antonello, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2015. Sui rapporti tra Mann e la Mazzucchetti, cfr. E. Mazzetti, Thomas Mann und die Italiener, cit., pp. 117-143.^
91 T. Mann, Una lettera di Th. Mann. Perché non ritorno in Germania, in «Oggi», 1 (1945), 17, p. 10.^
92 J. Petersen, Vorspiel zu “Stahlpakt” und Kriegsallianz: Das deutsch-italienische Kulturabkommen vom 23. November 1938, in «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 36 (1988), 1, pp. 41-77.^
93 E. Mazzetti, Thomas Mann, dialoghi italiani. Sintonia spirituale e comune cultura europea nei carteggi (1920-1955), Roma, Artemide, 2016.^
94 A lungo il riferimento è stato I.B. Jonas, Thomas Mann und Italien, Heidelberg, C. Winter Universitätsverlag, 1969.^
95 E. Mazzetti, Thomas Mann und die Italiener, cit.^
96 Cfr. in particolare E. Galvan, Bellezza und Satana. Italien und Italiener bei Thomas Mann, in «Thomas Mann Jahrbuch», 8 (1995), pp. 109-138 e H. Koopmann, Thomas Mann e l’Italia, in «Belfagor», 40 (2005), 4, pp. 373-391.^
97 T. Schneider, Das literarische Porträt. Quellen, Vorbilder und Modelle in Thomas Manns “Doktor Faustus”, Berlin, Frank & Timme, 2005, in particolare pp. 238-239; K. Kerényi, Thomas Mann und der Teufel in Palestrina, in «Neue Rundschau», 73 (1962), pp. 328-346.^
98 Sulle relazioni che intercorrono tra Mann e l’Italia negli anni del fascismo cfr. E. Mazzetti, Thomas Mann und die Italiener, cit., pp. 52-56 e Idem, Thomas Mann, dialoghi italiani, cit., pp. 11 sgg.^
99 A. Modena (a cura di), Enzo Ferrieri, rabdomante della cultura. Teatro, letteratura, cinema e radio a Milano dagli anni Venti agli anni Cinquanta, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 2010.^
100 Mann a Ferrieri, 14 aprile 1927, ora in E. Mazzetti, Thomas Mann, dialoghi italiani, cit., p. 20.^
101 T. Mann, Discorso intorno a Lessing, ora in Idem, Nobiltà dello spirito. Saggi critici, Milano, Mondadori, 1953, pp. 267-284.^
102 E. Mazzetti, Thomas Mann und die Italiener, cit., pp. 269-271.^
103 B. Tecchi, Thomas Mann, in «Oggi», 1 (1933), 25, p. 3.^
104 F. Weiher, Über die Gegensätze “Geist und Leben” und “Künstler und Bürger” in der Thomas Mann-Forschung, in «Thomas Mann Jahrbuch», 29 (2016), pp. 57-70.^
105 F. Papi, Vita e filosofia. La scuola di Milano. Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Milano, Guerini, 1990; G. Scaramuzza, L’estetica e le arti: la scuola di Milano, Milano, CUEM, 2007; D. Assael, Alle origini della scuola di Milano. Martinetti, Barié, Banfi, Milano, Guerini, 2009.^
106 E. Mazzetti, Thomas Mann, dialoghi italiani, cit., pp. 27-49.^
107 «Neigung der Italiener, den Fascismus als ebenso gemein und verbrecherisch hinzustellen, wie den Nationalsozialismus, – wie ich glaube irrtümlich», nota del 15 agosto 1933 (Thomas Mann, Tagebücher 1933-1934, a cura di P. de Mendelssohn, Frankfurt am Main, S. Fischer, 1977, p. 152).^
108 Thomas Mann a Lavinia Mazzucchetti, 12 ottobre 1937, ora in E. Mazzetti, Thomas Mann, dialoghi italiani, cit., p. 46.^
109 F. Sarazani, Croce, Mann, Gide e la sventurata generazione, in «Mercurio», 1 (1944), 3, pp. 118-122.^
110 Mann a Castelnuovo, 2 febbraio 1948, in T. Mann, Lettere a italiani, cit., p. 59.^
111 Documento cit. in E. Mazzetti, Thomas Mann, dialoghi italiani, cit., p. 107.^
112 M. Andreis, Postilla al discorso di Thomas Mann «La Germania e i tedeschi», in «Belfagor», 2 (1947), pp. 107-108.^
113 L. Mazzucchetti, Il «Doktor Faustus» di Thomas Mann [1948], ora in Idem, Novecento in Germania, Milano, Mondadori, 1959, p. 296.^
114 L. Vincenti, Un Faust di Th. Mann, in «La Nuova Stampa», 18 settembre 1948, p. 3.^
115 Nel 1953 Mann parla infatti della necessità di mettersi in cammino non verso un’Europa tedesca, ma una Germania europea (T. Mann, Ansprache vor Hamburger Studenten, in T. Mann, Die gesittete Welt. Politische Schriften und Reden im Exil. Frankfurter Ausgabe in Einzelbänden, a cura di P. de Mendelssohn, Frankfurt am Main, S. Fischer, 1986, p. 811).^
116 W. Wende, Ein neuer Anfang? Schriftsteller-Reden zwischen 1945 und 1949, Stuttgart, Metzler, 1990, pp. 242-277.^
117 E. Mazzetti, Thomas Mann und die Italiener, cit., pp. 97-101. La documentazione in merito è pubblicata in Idem, Thomas Mann, dialoghi italiani, cit., pp. 181-185.^
118 Mazzetti manca, a dire il vero, di rendere pienamente giustizia al rapporto tra i due. Si veda E. Mazzetti, Thomas Mann und die Italiener, cit., pp. 282-286.^
119 Thomas Mann, Lettera sul Dottor Faustus, in «aut aut», 1 (1951), 1, pp. 6-10. La lettera (scritta tra i giorni 8 e 12 agosto) è pubblicata poi nella sua interezza in T. Mann, Lettere a italiani, cit., pp. 80-84.^
120 E. Paci, Una lettera inedita a Thomas Mann (18 settembre-30 ottobre 1950), traduzione e cura di F. Guidali, in «Fronesis», 8 (2012), 16, pp. 109-121. Per un commento alla missiva, si veda F. Guidali, In margine a una lettera inedita di Enzo Paci, ivi, pp. 9-25.^
121 Alla Société européenne de culture è dedicata la recente monografia di N. Jachec, Europe’s Intellectuals and the Cold War. The European Society of Culture, Post-War Politics and International Relations, London-New York, I. B. Tauris, 2015. Per un primo inquadramento della figura di Campagnolo, si rimanda a L. Cedroni and P. Polito (a cura di), Saggi su Umberto Campagnolo, Roma, Aracne, 2000.^
122 T. Mann, Mon Temps, in «Comprendre», (1951), 3, pp. 68-81; Idem, L’artiste et la société, ivi, (1953), 7-8, pp. 143-146; Idem, Éloge de l’éphémère, ivi, (1953), 7-8, p. 147; Idem, Retour d’Amérique, ivi, (1953), 9, pp. 94-5.^
123 T. Mann, Il mio tempo, cit., pp. 611-634.^
124 Idem, Retour d’Amérique, cit., pp. 94-95.^
125 E. Mazzetti, Thomas Mann, dialoghi italiani, cit., pp. 125-145.^
126 T. Mann, Tagebücher 1953-1955, cit., p. 71, annotazione del 15 giugno 1953.^
127 Sull’ironia di Thomas Mann si veda il recente J. Ewen, Thomas Manns Ironie als literarischer Wahrheitspluralismus, in «Thomas Mann Jahrbuch», 29 (2016), pp. 45-56.^
128 T. Mann, Nota sul romanzo «L’eletto», 1951, in Idem, L’eletto, Milano, Mondadori, 1979, pp. 18-19.^
129 Sulla lingua de L’eletto, cfr. C. Bronsema, Thomas Manns Roman “Der Erwählte”. Eine Untersuchung zum poetischen Stellenwert von Sprache, Zitat und Wortbildung, Dissertation, Universität Osnabrück 2005, consultabile all’indirizzo https://repositorium.ub.uni-osnabrueck.de/bitstream/urn:nbn:de.../E-Diss831_thesis.pdf.^
130 T. Mann, L’eletto, cit., p. 248.^
131 Thomas Mann a Klaus Mampell, 17 maggio 1954, in Idem, Lettere, a cura di I.A. Chiusano, Mondadori, Milano 1986, p. 916.^
132 G. Galasso, Benedetto Croce et l’unité européenne, cit., p. 42.^
133 T. Mann, Retour d’Amérique, cit., p. 95. Il saggio porta la data del 10 maggio 1953.^
134 T. Mann, Die Forderung des Tages, Berlin, S. Fischer, 1930.^
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