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Nazione, sviluppo economico e Questione Meridionale
di Aurelio Musi
Due sono i pregi fondamentali di questo libro di Guido Pescosolido, Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia (Rubbettino 2017). In primo luogo la struttura tripartita del volume – Nazione e Risorgimento, Sviluppo economico e Mezzogiorno, Meridionalisti – consente di cogliere, entro un differenziato ma ordinato quadro espositivo, la linea logica sostanzialmente unitaria che lo caratterizza. In secondo luogo il linguaggio chiaro ma mai banale, non semplificatore dei problemi, favorisce la conoscenza della riconsiderazione del dibattito storiografico, proposta dall’autore, che ripubblica saggi editi in circostanze diverse, ma organicamente fra loro collegati ora in un’inedita introduzione.
Proprio da questa introduzione è necessario partire perché essa è dedicata al chiarimento di alcuni concetti che ricorrono nel libro. Pescosolido distingue innanzitutto “nazione moderna” da “nazionalità”. In molti casi – scrive l’autore – «la coscienza e volontà di essere Nazione politica è scaturita dall’esistenza di identità nazionali di tipo culturale, linguistico, etno-naturalistico, territoriale. Ma certo senza la coscienza e volontà di condividere un comune destino politico quelle identità, in sé e per sé prese, non fanno Nazione moderna, fanno nazionalità» (p. 12). Un’altra differenza sostanziale, che costituisce il leit-motiv di molte argomentazioni dell’autore, è quella fra lo “sviluppo assoluto” del Mezzogiorno e il suo “sviluppo comparato”. Il Meridione d’Italia, soprattutto dagli anni Cinquanta del Novecento fino ad oggi, ha fatto enormi progressi nella vita economica, sociale e civile, superiori a qualsiasi altra area del Mediterraneo. Ma se si parla invece «in termini di comparazione fra Sud e Centro-Nord, in tale ottica non è coerente con una comune appartenenza nazionale il fatto che il PIL pro capite del Mezzogiorno sia stato nel 2015 pari al 56,5% di quello del Centro-Nord, cioè grosso modo sullo stesso livello di rapporto di sessanta anni addietro, mentre nel 1861 non era inferiore al 90 per cento» (p.21). Un terzo elemento di congiunzione di gran parte delle argomentazioni del volume è rappresentato dalla critica costante e severa del cosiddetto “pensiero meridiano” e, più in generale, di tutte quelle forme di revisionismo che hanno negato il dislivello tra Nord e Sud e hanno ritenuto “obsoleta” la questione meridionale negandole addirittura in qualche caso fondamenti di legittimità. Di particolare interesse è infine, per quanto attiene al senso complessivo dell’introduzione, la periodizzazione, proposta da Pescosolido sulla base di una considerevole e inoppugnabile serie di dati, dello sviluppo economico italiano e del rapporto Nord-Sud del paese dal 1861 a oggi, scanditi assai schematicamente in quattro fasi: una prima, caratterizzata da “due diversi gradi di arretratezza” Nord-Sud; una seconda, caratterizzata da un vero e proprio “dislivello”; una terza, lo spartiacque degli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento che vede avvicinarsi le due parti del paese; una quarta, quella attuale, che vede il ritorno del divario alla condizione precedente a quella degli anni Cinquanta.
La prima parte del volume è dedicata al tema Nazione e Risorgimento. Il capitolo dal titolo Nazione e Stato nella storia d’Italia ricostruisce il dibattito sulla periodizzazione e la natura della storia nazionale italiana dopo l’Unità. È qui che Pescosolido riprende e sviluppa la non coincidenza fra “Nazione culturale” e “Nazione politica”, che ha evidenziato nell’introduzione, e sostiene la tesi che i fattori di indebolimento della “Nazione politica” siano recenti e non risalenti all’unificazione nazionale. Si tratta di una tesi che ben si comprende e si giustifica alla luce dell’obiettivo dell’autore di sostenere senza se e senza ma le ragioni dell’Unità italiana. Suscita tuttavia, al tempo stesso, qualche perplessità se si ricorda che i più avvertiti e autocritici esponenti delle classi dirigenti liberali e del pensiero meridionalista, fra gli anni Settanta e la fine dell’Ottocento, spesero non poche argomentazioni per invitare a riflettere sulle modalità spesso non corrette del processo di unificazione e sugli effetti che esse ebbero sulle popolazioni soprattutto del Mezzogiorno. Si disse e si scrisse allora che le difficoltà del processo unitario erano derivate dalla reductio ad unum non solo di istituzioni politiche differenti come quelle degli antichi Stati italiani, ma anche dei differenti sentimenti di appartenenza nazionale preesistenti al 1860.
Ricordare tutto questo significa forse impostare e articolare in modo alquanto diverso rispetto alle argomentazioni di Pescosolido la questione della “Nazione napoletana”. La definizione di essa come “protonazione monarco-aristocratica”, proposta da Pescosolido, non è, a mio parere, appropriata. Essa non coglie un carattere di fondo ben sottolineato da Giuseppe Galasso, a cui pure si ispira Pescosolido: il suo essere stata, cioè, una comunità politica con una sua inconfondibile personalità morale, sviluppatasi nella sua vicenda plurisecolare dai normanni all’Unità d’Italia. Peraltro proprio per questo patrioti borbonico-liberali, prima dello spartiacque del 1848, poterono legittimamente rivendicare la possibilità che da Napoli partisse il movimento per la costruzione di un’Italia unita. Poi le cose andarono diversamente: e ben ne conosciamo i motivi.
In realtà tutto il ragionamento di Pescosolido trae spunto in prevalenza dal primo volume che Galasso ha dedicato al Regno di Napoli angioino e aragonese nella Storia d’Italia Utet, da lui diretta. Come è noto, ad esso sono seguiti altri cinque volumi. Essi hanno ulteriormente approfondito e sviluppato la questione della “nazione napoletana”, a cui di recente Galasso ha dedicato uno scritto “ad hoc” (“Nazione napoletana”, in «L’Acropoli», XVI 2015, pp. 187-212). L’interesse di questo scritto sta nella ricostruzione, fondata in larga parte su appunti inediti, della discussione svoltasi tra Galasso e Romeo dopo la pubblicazione di Mezzogiorno medievale e moderno e in preparazione della Storia del Mezzogiorno, diretta dai due storici. In sostanza Galasso ha chiarito qui, ancor meglio rispetto ai suoi scritti precedenti, che non si può negare uno sviluppo nazionale nel Mezzogiorno fondato sui seguenti caratteri: la presenza di una tradizione peculiare; lo Stato come autentico motore del dinamismo e dello sviluppo sociale; un corpo politico con una sua inconfondibile fisionomia nel quadro italiano ed europeo; un ruolo di primo piano svolto nella nazione Italia come “realtà nazionale plurinazionale”. Io stesso poi, nel mio volume Mito e realtà della nazione napoletana (Guida, 2016), ho cercato di dimostrare come la “nazione napoletana”, che dopo l’Unità diventa mito e invenzione, fosse una realtà storica ben configurata fin dall’Umanesimo. Essa fu la rappresentazione dell’autocoscienza e del sentimento di appartenenza ad una comunità politica, la nazione-Regnum, con caratteri distintivi: la fedeltà alla sovranità monarchica, il primato della capitale che andò sempre più identificandosi con l’intero Regno, l’accelerazione del livello della decisione politica rispetto al ruolo e al peso delle forze economiche e sociali. E ho anche rilevato che tali caratteri, mutatis mutandis, persistono nella contemporanea realtà del Mezzogiorno.
Quanto scritto in precedenza non toglie nulla, ben s’intende, all’utilità di una ricostruzione e di un punto di vista quale quello espresso da Pescosolido che, comunque, ha il merito di riprendere un tema, quello delle “nazioni prima della nazione”, proposto solo da qualche anno nella storiografia italiana.
La seconda parte del libro, Sviluppo economico e Mezzogiorno, è sicuramente quella riuscita meglio per non pochi motivi. Essa è una ricostruzione lucida e puntuale delle diverse fasi che hanno segnato il dibattito tra Romeo e Gerschenkron sul processo di accumulazione dell’economia italiana e sul rapporto tra Risorgimento e capitalismo. In secondo luogo Pescosolido dimostra con argomenti inconfutabili il valore ancora attuale delle tesi di Romeo, sottolineandone la chiave meridionalistica. Infine le pagine dell’autore ripetutamente valorizzano il contributo del Sud allo sviluppo industriale italiano, implicitamente confutando l’ideologia del Mezzogiorno come “palla al piede” e freno del progresso nazionale. Le ragioni dell’arresto dello sviluppo industriale del Mezzogiorno nell’ultimo quarantennio del Novecento sono da Pescosolido riferite in prevalenza ai condizionamenti internazionali, alla mancata programmazione e politica dei redditi, alle responsabilità del ceto politico italiano e dei sindacati.
L’ultima parte del volume è dedicata ai Meridionalisti. Si tratta di veri e propri profili biografici in miniatura, utilissimi al lettore per cogliere gli aspetti più importanti delle personalità dei meridionalisti. Di Leopoldo Franchetti sono sottolineati la sistematicità del pensiero e l’esperienza diretta sul campo, la linea di condotta rappresentata dal trinomio “analizzare, denunciare, proporre”, l’impegno umanitario e filantropico. A Giustino Fortunato è dedicato un pregevolissimo profilo, in cui sono evidenziati la visione del nesso strettissimo fra Mezzogiorno e Stato nazionale, l’unitarismo del meridionalista, il suo “pessimismo” mai rinunciatario, l’impegno filantropico e l’antifascismo. Parole appassionate sono dedicate a Gaetano Salvemini: oggi più che mai – scrive l’autore – l’Italia ha bisogno di maestri come lui. Di Salvatore Cafiero viene soprattutto ricordata la lezione a non dissolvere l’unità nazionale nella più larga unità europea: «questa invece – sono parole di Cafiero – non può trovare che in quella il solido terreno etico-politico nel quale mettere profonde e stabili radici» (p.263). Infine un’appassionata testimonianza di fedeltà: «Al meridionalismo di Compagna, Galasso e Romeo e della loro Nord e Sud sento di appartenere oggi come ieri senza riserve e tanto meno senza pentimenti» (p.30).
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