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Il romanzo di Napoli
di Vladimiro Bottone
Emma Giammattei ha da poco ripubblicato, ampliandolo, il suo “Il romanzo di Napoli. Geografia e storia della letteratura nel XIX e XX secolo” (Guida editore), opera che compone in forma unitaria i maggiori interessi di ricerca perseguiti dalla studiosa napoletana. Geografia e Storia in qualità di assi portanti, dunque, come programmaticamente enunciato fin dal sottotitolo. Tenendo però ben ferma l'avvertenza che il primo termine del binomio, ovvero la Geografia, risulterà nell'indagine di Giammattei sempre mediato da una Storia delle idee e dell'immaginazione capace di ricostruire lo sdoppiarsi del luogo, Napoli, in rappresentazione mentale, forma culturale e, dunque, “topos” capace di dare vita ad uno sterminato corpus di testi narrativi e a un ancora più smisurato sottotesto di immagini collettive.
Non per caso, già dal capitolo iniziale Emma Giammattei pone al lavoro il suo strumentario di topografa della memoria letteraria e archeologa del sapere ripercorrendo il sedimentarsi “dell'immagine del Vesuvio”. Un'immagine che, quasi accompagnamento per basso continuo, risulta pressoché inscindibile dalla partitura della mitografia napoletana, letteraria ed extra-letteraria.
Mettere a fuoco la genesi e lo sviluppo di un'“immagine del Vesuvio” comporta, per Giammattei, il rifare la storia della “costruzione estetica” relativa a un elemento costitutivo del paesaggio napoletano nel suo strutturarsi, durante i secoli, in termini di codificazioni culturali e rappresentazioni mentali da ricondurre sempre, costantemente, alla loro storicità. Il Vesuvio dunque, emblema della città, viene riportato da Giammattei a condensazione simbolica dei molteplici contrasti che hanno tramato la rappresentazione letteraria e iconografica e, se si vuole, la stessa riconoscibilità di Napoli. Ricorre quindi, per lo “sterminator Vesevo” l'idea di una contrapposizione tra Natura e Storia, con la cieca distruttività lavica che sommerge la complessa, squisita storicità di Pompei. Oppure l'antitesi, così frequente nella letteratura odeporica imperniata su Napoli, fra Bello e Orribile; tra il profilo acquerellato del vulcano ed il suo rivelarsi, in prossimità, come imbuto infernale. O ancora il contrasto fra la magmatica incandescenza delle colate e la neve che ricopre la sommità del cono o il mare, non lontano, a bagnarne le pendici. Un processo di simbolizzazione non diverso nei meccanismi, ma dal segno algebrico invertito, subentrerà poi quando il Vesuvio, in sonno, verrà a costituirsi come raffigurazione letteraria di un'assenza, di un'inerzia, di una sonnolenza capaci di permeare, da ultimo, la “provincia addormentata” di un Michele Prisco.
Già quest'assaggio dell'opera, articolata lungo diciotto impegnati capitoli, ci dà la misura di quanto il lavoro di Giammattei si disimpegni attraverso molteplici linee di confine disciplinari, spaziando con cura, intelligenza e dottrina lungo le coordinate di più secoli. Senza temere di aprire il compasso dell'analisi fino ai nostri giorni ultimissimi, che fanno da perno alla corposa nota introduttiva con cui Emma Giammattei aggiorna questa seconda edizione, arricchita, dell'opera. Si tratta, nello specifico, di pagine che non solo e non tanto situano il testo nell'autobiografia intellettuale della studiosa, quanto procurano di fare il punto intorno a quello che viene giustamente inquadrato come «un fenomeno unico nella storia della letteratura italiana e della moderna industria culturale». Vale a dire le inesauste «forza e durata dell'immaginario napoletano».
La questione è di eccezionale interesse considerata la capacità del contesto napoletano, nonostante le sue crisi di status e funzione, di riproporsi come testo tanto nella cultura alta che nell'immaginario popolare o, per dire ancor meglio, pop. Di rappresentarsi nei più vari registri della poesia e del teatro, oltre che in una produzione romanzesca che, sotto l'aspetto quantitativo, non ha eguali in Italia. Una produzione così esportabile nei contenuti, incessante nelle pubblicazioni, robusta nelle tirature da aver reso la città un topos letterario che trova paragoni e precedenti solo in pochissime capitali della modernità e della post-modernità. «Un alveo confortevole di generi e sottogeneri narrativi, fra giornalismo e letteratura», per adoperare le parole di Giammattei. Il tutto, si badi bene, perpetuandosi l'assenza di un'industria culturale locale contraddistinta da dimensioni produttive e slancio diffusionale quantomeno significativi.
Il fenomeno che Giammattei inquadra dà da pensare, nel senso letterale dell'espressione, rivestendo non solo i caratteri dell'eccezionalità, ma anche quelli di una paradossalità che lo rendono ancor più eclatante e, dunque, bisognevole di un adeguato sforzo esplicativo. Assai opportunamente Emma Giammattei chiama in causa Roberto Saviano e la soi-disant Elena Ferrante come simboli esemplari di questa vitalità mostrata da Napoli nel suo sdoppiarsi in forme narrative dalla fortuna e dal respiro, di fatto, planetari. Due simboli dicevamo che, nell'orizzonte ampiamente globalizzato dell'industria culturale e dei media, Giammattei finemente individua come speculari. Con la costruzione dell'immagine autoriale realizzata, “per iperbole ed enfasi”, nel caso di Saviano e “per negazione e reticenza” nella fattispecie della Ferrante. Ferrante e Saviano i quali, peraltro, costituiscono la punta massimamente visibile di un fenomeno di produzione letteraria, trasposta o trasponibile in chiave multimediale, ancora più vasto. Un fenomeno il cui esito, per Giammattei, consiste nel disconoscere Napoli come luogo restituendola «come riconoscibile e produttivo topos […] forma sostituiva, immagine spolpata e abrasa invece che costruita e da costruire».
Una Napoli divenuta, quindi, doppio immaginativo di se stessa e matrice di storie funzionali al consolidarsi del suo brand narrativo. Il tutto attraverso una mutazione nelle modalità espressive che Giammattei, a giusto titolo, mette in rapporto con il collasso della progettualità e delle Grandi Narrazioni ideologiche avvenuto durante il farsi e disfarsi del Novecento. Cosicché la forma e la fortuna caratterizzanti questi ultimissimi capitoli del “romanzo di Napoli” trovano la loro precondizione essenziale, se non ragione ultima, nello sganciarsi “di conoscenza e progetto”; in sostanza nella negazione delle ragioni narrative volte alla ricerca e scavo della realtà.
Napoli come “logo”, in senso kleiniano, si sostituisce dunque a quella esplorata nella stagione novecentesca dei Pomilio, Rea, Ortese, La Capria, Compagnone. Ad essa subentra una Napoli largamente fagocitata, per Giammattei, dai meccanismi della comunicazione di massa subentrata alle Grandi Narrazioni. Con il rischio concreto che venga a dissoluzione la stessa forma-romanzo, ormai troppo vuota e fragile per non essere prima schiacciata, quindi triturata e assimilata dalla logica intrinseca a quei medesimi meccanismi comunicativi. Il “romanzo di Napoli” che, dagli antesignani Ranieri e Mastriani in poi, aveva avuto modo di rappresentarne la realtà si trasforma e degrada, così, in una più generica “narrazione di Napoli”. Narrazione resa possibile da quella che Giammattei, con una formula assai efficace, individua come «l'eccezionale adoperabilità dell'immaginario napoletano». Ovvero, per adoperare un altro felice conio di Giammattei, il suo «carattere di inesauribile attrattore di racconto».
Ed eccoci giunti alla soglia su cui, per il momento, la riflessione dell'Autrice si arresta. Quella soglia dove prende invece corpo una questione che non ha cessato, durante gli anni, di interrogarmi in qualità di lettore ed in quanto narratore. Vale a dire: da dove si origina quella capacità, così peculiarmente napoletana, di generare racconto e immaginario tanto autoctoni quanto allogeni? E ciò nonostante le drammatiche perdite di rappresentanza subite nel tempo dalla città; ad onta delle stagnazioni economico-produttive e nonostante l'ulteriore ridimensionamento subito da un'industria culturale locale già fragile nel suo pur nobile passato. Perché, nonostante questo insieme di condizioni teoricamente inibitrici, l'ex capitale sospinta in apparenza ai margini della Storia resta un'inesauribile matrice di storie?
La suggestione che vorrei avanzare fa perno sulla nozione di “cittàmondo”. Vale a dire di una scena urbana esperita tanto dal pubblico che dagli autori, tanto dai visitatori che dagli autoctoni, tanto dagli “Anciens” che dai “Modernes” come capace di far coabitare in se stessa una pluralità di concetti, figure ed esperienze normalmente antitetiche (Illuminismo e regressione; ordine-disordine; sfarzo-miseria; tradizione-modernità; europeo-extraeuropeo; aperto-chiuso; Natura-Storicità; Bello-Orribile). La “città-mondo”, dunque, come immagine di totalità che, dando l'impressione di racchiudere l'intera gamma dei comportamenti umani, garantisca la plasticità necessaria per venire declinata in una fenomenologia quanto mai varia di rivisitazioni narrative e, finanche, di mitizzazioni da fissare nell'immaginario collettivo. La “città-mondo” come tessuto urbano dotato, per dirla proprio con Giammattei, di «eccezionale adoperabilità» sia da parte delle più disparate visioni narrative, volte a valorizzare ora questo ora quell'aspetto storico e antropologico, sia da parte dei più vari piani e dispositivi di fiction.
In questo senso il vero, grande precedente di Napoli, quanto a “cittàmondo” capace di catalizzare infinite storie, resta la Londra ottocentesca narrata in presa diretta da Dickens e fatta rivivere, ai giorni nostri, dal Michael Faber de “Il petalo cremisi e il bianco”. Quella Londra del secolo XIX sondata, per scorci e bagliori intuitivi, dal Dostoevskij di “Note invernali su impressioni estive”. Ovvero il notes di viaggio in cui l'uomo del sottosuolo disdegnava la Parigi regolamentata ed haussmanniana, in favore dell'ascendente quasi ipnotico esercitato dalla capitale inglese, per Dostoevskij apocalittica Baal e Babilonia. Una Babilonia dove «ogni contraddizione, ogni contrasto convivono accanto al loro opposto mano nella mano, smentendosi vicendevolmente senza mai negarsi l'un l'altro».
Come sappiamo Londra ha individuato per tempo la propria traiettoria nella modernità, sciogliendo il violento gioco di contrasti ottocentesco ed affermandosi come scena urbana compiuta intorno alla funzione dominante di grande piazza finanziaria dal respiro transnazionale. Napoli, in dipendenza di un'altra vicenda storica, non ha attenuato la propria vocazione per i chiaroscuri. Finanche accentuandola se poniamo mente al caratteristico “effetto di fusione”, centrale in tutta la saga televisiva di “Gomorra”, fra gli arcaismi delle sub-culture criminali, da un lato, gli stili di consumo e le strategie finanziarie ultramoderne dall'altro.
La Napoli città-mondo, divaricata tra Modernità e Passato, resta dunque lì: come motivo di scandalo nella cronaca, di catarsi o illusoria salvezza allorché riflessa nell'occhio di chi prova ad aggiungere un'ulteriore puntata al suo interminabile, per certi aspetti formidabile feuilleton.
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