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Terre senz'ombra
di Anna Ottani Cavina
Le Terre senz’ombra, di cui tratta Anna Ottani Cavina (ed. Adelphi), sono le terre italiane, le terre che formano L’Italia dipinta, come suona il sottotitolo del libro. Le parole sono scelte con cura. Già dalla prima pagina il lettore capisce il loro perché. Senz’ombra, quelle terre, perché ricche di luce, ricche della solarità mediterranea: una luminosità talmente rilucente che, come la lettura del libro suggerisce e conferma, anche la visione notturna dei paesaggi italiani ne è avvolta, circonfusa.
Su questo fondamento naturale la Cavina ha brillantemente individuato e narrato che si è basata, dai primi anni del Seicento, una svolta creativa di rilievo nella storia dell’arte moderna, che, e cioè la pittura di paesaggio. Non che prima di allora di tali pitture non ve ne fossero. In tutta la pittura tardo-medievale e rinascimentale il paesaggio ricorre spesso. Emilio Sereni si servì di queste raffigurazioni per la sua storia del paesaggio agrario nell’Italia di quei tempi; e già nella pittura antica, del resto, per quel po’ che ne è rimasto, ma anche attraverso la ben più folta sopravvivenza di mosaici, il paesaggio era tutt’altro che assente. Quella che la Cavina ha il grande merito di aver individuato e raccontato resta, però, una novità in tutta la portata del termine: è l’invenzione della pittura del paesaggio dal vero e sul luogo dipinto, en plein air, all’aria aperta, col pittore che esce dalla sua bottega, e va passeggiando in cerca di luoghi da rappresentare, prefissati o scelti sul momento. Il paesaggio cessa con ciò di essere uno sfondo. Diventa un tema autonomo, un personaggio esso stesso da cogliere e rappresentare secondo il genio e le predilezioni culturali e stilistiche del pittore.
Una svolta davvero, dunque che durerà, in vario modo, e in vari paesi europei, ininterrotta, finché a metà dell’Ottocento confluirà nella grande prassi paesistica degli impressionisti che vi imprimeranno un nuovo, glorioso suggello. Questo è, però, solo un lato del processo ricostruito in questo libro. L’altro lato è di un’ancora maggiore interesse. La Cavina ha, infatti, collegato la genesi di questo nuovo genere di arte alla mutata sensibilità e concezione della natura, che, grazie soprattutto al Galilei, si affermò in Italia tra Cinquecento e Seicento. Tra le glorie galileiane è certamente l’invenzione del cannocchiale, che trasformò in generale l’osservazione della natura, e innanzitutto lo studio del cielo notturno, avviando l’astronomia ai vertici che poi ha finito col raggiungere con gli odierni telescopi. Ed è proprio da un piccolo notturno – una Fuga in Egitto di Adam Elsheimer – che si prendono qui le mosse per narrare questo mutamento. Il dipinto ebbe vicende fortunose, ma finì poi con l’essere ritrovato. Vi si rappresenta una notte di luna piena, riflessa in un corso d’acqua, e accompagnata da una nitida dipintura della Via Lattea, talmente precisa che, avendo la Cavina ipotizzato che la notte rappresentata dovesse essere una notte romana della prima estate del 1609, anno del dipinto, di recente astronomi tedeschi l’hanno identificata, in base alla posizione delle stelle dipinte dall’Elsheimer, con quella del 16 giugno 1609. Galilei divulgò l’invenzione l’anno dopo. La Via Lattea e la luna del dipinto, così precise (la luna vi figura con le macchie scopertevi dal Galilei), fa subito pensare che il pittore abbia usufruito di un qualche ausilio ottico. Ha egli avuto fra le mani, grazie a un precoce invio da parte di Galilei a qualche personalità romana, in rapporto col pittore, un cannocchiale o una copia del Sidereus Nuncius, l’opera fortunatissima in cui nel 1610 rese conto delle sue scoperte? Saggiamente Cavina lascia aperta la questione. L’importante del suo studio è nella sua mirabile ricostruzione del passaggio alla pittura di un paesaggio dal vero e con l’occhio nuovo che sulla natura porta la “rivoluzione scientifica” galileiana.
Nacque così una nuova idea dell’Italia. Si passa, ad esempio, dall’Italia delle querce all’Italia dei cipressi: un’idea fra le tantissime, foggiate dalla pittura di diecine e diecine di artisti transalpini, che forma quasi un parallelo di quell’altra immagine che negli stessi secoli ne formano i viaggiatori del Grand Tour, ma, mi pare di poter dire, molto più autentica e dettagliata, all’insegna della luce che il paese offre. L’esemplificazione che ne dà l’autrice è di un interesse inesauribile, grazie anche al fascino di una prosa che riesce senza sforzo sempre seducente pur nella rigorosa filologia che sorregge ogni pagina.
L’autrice è, peraltro, una studiosa metodologicamente troppo avvertita per non notare e far notare subito l’insopprimibile stacco tra il paesaggio reale e il paesaggio dipinto. Quest’ultimo, ella dice, è una nuova attitudine di conoscenza reale, ma anche una illimitabile occasione di andare oltre il reale, inventando nuovi mondi. Per capirlo bisogna tradurre in termini espliciti le tensioni e le proiezioni del dipinto (quel che Roberto Longhi, qui citato, intendeva come parlare dei quadri e parlare ai quadri, ognuno nella sua individuale singolarità e creatività. E di qui la Cavina creativa deduce che, più della rappresentazione puntuale o scientifica del vero, conta, come realtà e fine di quest’arte, la “riscoperta lirica” di quel vero: un criterio di metodo assolutamente perfetto.
Nel libro Roma e Napoli campeggiano come luoghi elettivi di questo cammino del paesaggio italiano dipinto. Le pagine su Thomas Jones a Napoli sono tra le più belle del libro, che si presenta con una non comune e molto felice ricchezza di riproduzioni, su una carta “delicatamente granulosa”(come l’ha definita quel gran sensualone di Marc Fumaroli): un bel libro, nella migliore tradizione Adelphi, come meritava uno studio di questo livello.
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