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Una intervista su Napoli
di Pietro Treccagnoli
Mi torna per caso sotto gli occhi il titolo di una recente intervista di Pietro Treccagnoli a Vincenzo Lipardi, segretario generale di Città della Scienza. “Il mondo si sta trasformando, ma in città la cultura è vecchia”, titolava Il Mattino del 18 marzo scorso; e il titolo rendeva appieno il senso dell’intervista.
Lipardi lamenta che Napoli si attardi in miti e opinioni in netto contrasto con quel che suggeriscono i tempi attuali, per cui vi si ritrova solo “una vecchia cultura chiusa nelle mura cittadine”. E lo afferma con toni anche aspri. “Da noi – dice – è passata l’idea di una cultura identitaria, rivendicando il primato borbonico dei bidet, dimenticando che la gente viveva nei tuguri e ancora oggi vive nei bassi”. Gli pare che, “se si vuole uscire dal baratro in cui stiamo precipitando, perché Napoli è una città che lentamente affonda, bisogna fare un’operazione di verità”.Ricorda perciò “gli indici di disoccupazione o l’enorme tasso di descolarizzazione”, e smentisce “la bugia”, “la favola del turismo”, del quale Napoli potrebbe e dovrebbe vivere, laddove “il turismo è un ingrediente piccolo di un’economia più grande”, così come ovunque si vede.
Era ovvio che il problema di Bagnoli occupasse qui il primo e maggiore posto. Anche su di esso Lipardi era più che netto. Bagnoli – dice –rimane “una grandissima occasione di sviluppo della città”, a patto che si imbocchi la via giusta: “Bagnoli dovrebbe avere zero cemento per le case e il cemento necessario per riportare industrie innovative” in una zona dal passato industriale così importante, come appunto Bagnoli è. Anche “la bellezza – aggiungeva – deve essere un elemento di attrazione industriale, non può essere un elemento edonistico fine a se stesso”. E, naturalmente, l’industria che egli pensa di ripristinare a Bagnoli non è quella siderurgica coi suoi indotti e connessi; non è quella della seconda, bensì quella della terza e, ormai, quarta “rivoluzione industriale”: quella che ora è detta “industria 4.0”. Per questa via egli pensa che si possano avere a Bagnoli addirittura 20mila posti di lavoro.
Il complesso dell’intervista fa intendere che, definendo vecchia la cultura della città, egli pensa
innanzitutto e soprattutto, ma non soltanto alla classe politica e amministrativa o alle sempre discusse classi dirigenti napoletane. Ed è, invero, facile contestare alcune sue affermazioni e richiamare elementi e criteri di giudizio diversi dai suoi. La sua definizione della cultura napoletana come “cultura identitaria”, sulla quale la città si è ripiegata, rinchiudendovisi, è, però, un tratto forte, difficilmente contestabile.
È il tratto di una cultura diventata tessuto connettivo interclassista di uno spirito cittadino, di una sorta di ortodossia civica per cui ciò che qualifica Napoli nel mondo attuale non è il suo presente o l’idea del suo futuro, ma il suo passato. E di questo passato di 25 secoli ci si ferma ai sei secoli in cui la città è stata capitale di un regno (per scelta dei suoi sovrani, non per la sua forza politica o militare), mentre della diecina di dinastie che hanno regnato su Napoli se ne ricorda una sola, che copre poco più di uno dei sei secoli del suo ruolo di capitale.
Questa identità derivata dal passato è tutta giocata su una serie di rivendicazioni, di postume contestazioni, di deplorazioni di torti e violenze subite, di rapine e di oppressioni, che tolgono al passato napoletano la sua più vera e più nobile dignità, senza che di ciò neppure ci si avveda.
Il luogo comune della solita “geremiade napoletana”, irritante per tutti noi napoletani, ma non per caso così diffuso, trae una delle sue prime e maggiori ragioni da questa cultura identitaria, mal fondata e per nulla costruttiva. Ed è da questa “cultura identitaria”che bisogna uscire una volta per sempre, se si vuole davvero contestare e togliere ogni ragione a discorsi come quelli che a Napoli fanno Lipardi e quelli che convengono con lui (e che non sono affatto pochi), ma che fuori di Napoli sono frequentissimi, e che le tanto frequenti esaltazioni di Napoli e di tutto ciò che la riguarda (a volte opportunistiche e interessate, a volte sincere e perfino commoventi per la loro ingenuità) non valgono a bilanciare.
È, insomma, a una diversa "cultura identitaria” che bisogna giungere, guardando – realisticamente, ma con grande slancio ideale e operativo – all’autentico passato della città, al suo grave e pesante presente e al suo possibile migliore futuro. E Napoli ne ha tutta la possibilità sol che si guardi allo specchio così com’è, al naturale del suo presente, e senza le ubbie del tante volte predicato (e cercato anche dove meno conviene) “riscatto di Napoli” o di un ennesimo “rinascimento napoletano”.
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