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Gilmo Arnaldi
di Giuseppe Galasso
Di Gilmo Arnaldi non fu mai in dubbio l’orientamento politico. Coloro, che, come me, lo hanno conosciuto sin dalla prima giovinezza, sanno che il suo credo politico era di semplice e immediata formulazione e riconoscibilità.
Era il credo della liberal-democrazia occidentale quale si atteggiava in tutti i suoi complessi e difficili problemi all’indomani della seconda guerra mondiale e nell’Italia post-fascista. Era il credo della forza profonda dei principii e delle idee come motore della storia. Era il credo di un laicismo non gridato e non sistematizzato, ma profondamente vissuto come una dimensione imprescindibile della libertà di coscienza, tanto più in gioco in quanto in lui la tradizione e la realtà del cattolicesimo formavano parte di un retaggio familiare, al quale egli non poté mai essere insensibile. Era il credo del principio della nazionalità, che a lui, italianissimo di educazione e di sentimenti, imponeva la consapevolezza di molti e gravi problemi storici e strutturali. Era il credo della maturità storica di un europeismo, fatto anche di idealità, di vissuta cultura storica, di passioni e di speranze per un futuro diverso dei popoli europei, senza sacrificio delle loro dimensioni nazionali, ma col senso pieno di quel che di nuovo per essi comportava la dimensione europea. Era il credo della funzione civile e pubblica della cultura, che rifiutava ogni e qualsiasi atteggiamento castale e magistrale degli intellettuali e degli studiosi, ma senza mai implicare in alcun modo una qualsiasi subordinazione degli studi o dell’intelligenza ai prìncipi attuali o potenziali.
Di questi e di altri pochi, simili e connessi credo si alimentava la passione civile che, contrariamente all’idea che molti ebbero di lui, fu in lui sempre fortemente viva e attiva. Ma non si creda che la chiarezza e la saldezza dei principii affievolisse in lui il senso chiaro e immediato delle necessità e delle urgenze della politica. Fu pronta a senza tentennamenti la sua solidarietà con i partiti centristi degli anni ’50, così come la sua convinzione dell’opportunità del passaggio al centrosinistra nei successivi anni ’60, e poi la sensibilità al tema della “questione comunista” dagli anni di Moro a quelli di Berlinguer. Allo stesso modo mai nessun dubbio egli ebbe sulla inevitabilità della scelta atlantica e delle necessità politiche e militari che ne conseguivano.
Insomma, egli era tutt’altro che sprovvisto di senso politico e delle discipline e dei condizionamenti che la “politica buona” impone non meno della “politica cattiva”, pur vivendo anche queste istanze della prassi politica con lo stesso spirito critico che lo connotava inconfondibilmente in tutte le sue riflessioni e attività. Uno spirito critico non privo di accentuazioni e di venature di perplessa intelligenza, che poteva dare in molte occasioni, nel discorrere con lui, l’impressione di qualcosa di irrisolto o di non del tutto chiarito che si agitasse nel suo spirito.
Come per molti di noi, il suo mentore politico fu fino alla fine Ugo La Malfa, ma profonda fu ugualmente la suggestione esercitata su di lui da personalità eminenti del campo democratico (cattolici, liberali, socialdemocratici), e non solo.
Nei suoi interventi giornalistici Gilmo ebbe modo di riflettere tutto ciò con la schiettezza di una dialettica di semplicità fine e allusiva, penetrante e consapevole, molto spesso sotto quella esibita problematicità, cui abbiano accennato e che gli era propria. Lo vediamo, quindi, discutere spesso con pertinenza di argomentazioni e di prospettive di problemi e momenti cruciali delle vicende del suo tempo.
Così discute del «futuro per i “laici”» su «L’Europa» del 29 settembre -3 ottobre 1975; o proprio, senz’altro, del «“laicismo” dei laici» (ivi, 8 agosto - 5 settembre 1975). Lo vediamo commentare lucidamente i risultati delle elezioni del 15 giugno 1975 e trarne una lezione di esemplare acume, riassunta nella necessità di ridare fiducia nelle istituzioni a quanto ancora c’era di borghesia produttiva, chiarendo in modo inequivocabile che l’impresa privata fondata sul profitto era una funzione sociale insostituibile (con una presa di posizione che ci dice molto anche delle sue convinzioni in materia di politica sociale).
Su un tema difficile come quello della liceità dell’aborto lo vediamo chiosare la posizione dei vescovi italiani e la discussione sul Concordato del 1929 che ne seguì, sempre con la solita fermezza e chiarezza politica, congiunta a un’umana sensibilità anche al problema religioso («L’Europa», 26 dicembre 1975 - 5 gennaio 1976). Un tema di natura politica altrettanto difficile – l’eventualità di un secondo partito cattolico accanto alla Democrazia Cristiana («L’Europa», 31 ottobre - 14 novembre 1975) – appare analizzato con una intelligenza brusca, insolita in lui, ma oggetto di una coerente e non occasionale riflessione, come si vede nell’articolo La Chiesa non è più al di là del fiume (ivi, 25 luglio - 8 agosto 1975), che tiene presente anche eventuali implicazioni in esso di problemi interni alla Chiesa. E non ci vuole molto a capire come anche nel “giornalista” Arnaldi il tema spadoliniano del Tevere più largo o più stretto fosse uno di quelli da lui più sentiti, così come il tema ricorrente della «“laicizzazione” della DC» (ivi, 27 giugno - 11 luglio 1975) e come quello, più volte ricorrente, della celebrazione del 20 settembre (fin su «Il Messaggero» del 20 settembre 1995). E chi vuole una prova di più del senso politico di Arnaldi legga il suo ricordo di La Malfa a un anno o poco più dalla morte («Il Giornale» 2 marzo 1980), dove ricorre una definizione davvero memorabile di quel grande leader politico come «costretto spesso a far politica per interposto partito».
La parte maggiore dell’attività pubblicistica di Arnaldi riguardò sempre, comunque, l’università, grande passione della vita morale e sociale della nostra generazione di universitari. Sarebbe lungo analizzare nei dettagli le sue prese di posizione al riguardo. Vorremmo, piuttosto, affermare che i suoi interventi, soprattutto per alcuni aspetti, sono, e resteranno, una fonte spesso davvero illuminante della storia dell’università italiana, quale istituzione didattica e di ricerca e quale momento altamente significativo della realtà sociale e culturale e dei suoi sviluppi nell’Italia degli ultimi trenta o quarant’anni del secolo XX. E non esitiamo a credere che chi percorrerà i suoi (invero, neppure troppo numerosi) scritti sull’argomento potrà pienamente rendersi conto del perché di una tale affermazione.
Alla fine, l’università comportava per lui motivi di delusione paralleli ed equivalenti a quelli che gli provocava la politica italiana. Per l’università può, tuttavia, dirsi che in lui viveva sempre la fiamma giovanile accesa da un’ideale di università, anche troppo mitizzante, che fu proprio della nostra generazione. Per la politica la sua reazione alle delusioni fu, invece, se non mi inganno, diversa. Fu, a un certo punto una reazione che consistette anche – salvo mio errore di lettura delle frequenti conversazioni con lui – in una tendenza progressivamente più radicale, pur non comportando alcuna disdetta o mutamento delle sue idealità giovanili. Ne era, anzi, come una cerchia protettiva stesa intorno al nucleo del credo che solum fu suo, quello delle idee della liberal-democrazia occidentale: un modo, radicaleggiando, non solo di proteggerle, ma di assicurarne ancor più l’inestinguibile potenzialità di sviluppo politico e civile, di cui egli fu e rimase sempre intimamente convinto anche dinanzi all’affiorare di un mondo tecnologico e mediatico così diverso da quello della propria formazione e presa di coscienza, e che tanto, e subito, si rifletteva anche nei modi e nelle vie di fare politica e di giudicarne.
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