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Religione al femminile: esperienze di fede, vita monastica ed universo devozionale nella recente storiografia socio-religiosa
di Maria Anna Noto
La quantità e la qualità di studi recentemente dedicati all’universo femminile rivelano il rinnovato interesse per un oggetto di ricerca, che, dopo essere apparso a lungo marginale nelle ricostruzioni storiografiche, ha acquisito piena dignità scientifica, grazie anche all’affermazione della storia di genere, di cui, evitando travisamenti estremistici, i testi che si è scelto di esaminare in questa occasione1 utilizzano i migliori contributi epistemologici, sotto il profilo tematico e metodologico. La gender history è solo una delle prospettive da cui la presenza femminile nella storia risulta investigata: essa, infatti, assurge a pieno titolo al rango di tematica appartenente alla storiografia politica, economica, sociale e culturale. In particolare, l’attenzione alla dimensione femminile nella storia trova un fertile terreno di indagine nella sfera religiosa, all’interno della quale la donna ha manifestato maggiormente la sua partecipazione e ha trovato canali di espressione più idonei e percorribili.
L’indagine sul ruolo espletato storicamente dalla donna si è approfondita. La dimensione familiare, tradizionale ambito di realizzazione dell’attività femminile, viene analizzata sotto una nuova luce, come parte integrante di dinamiche ben più vaste, che si allargano alla sfera sociale e politica. La donna appare un soggetto determinante, molto spesso eterodiretto, nella costruzione di strategie politico-economiche da parte dei ceti dirigenti; la sua collocazione assume una particolare rilevanza nell’ambito delle scelte e degli orientamenti delle élites di governo; il suo ruolo si disegna e si definisce all’interno delle famiglie e delle istituzioni monastiche, rispecchiando la direzione e gli intrecci degli interessi dei gruppi al potere.
Nei libri qui esaminati, incentrati sul Mezzogiorno di età moderna, figure femminili, più o meno famose presso i posteri, conducono le loro esistenze costantemente inquadrate in rigidi schemi imposti di volta in volta dalle famiglie d’origine, dai ceti di provenienza, dalle istituzioni di appartenenza. Le loro idee, le loro iniziative ed i loro impeti vengono precocemente incanalati in griglie precostituite, manipolati e strumentalizzati ai fini del raggiungimento di obiettivi superiori, convenientemente indirizzati alla creazione di modelli proponibili, imitabili e socialmente funzionali. Nonostante ciò, la donna emerge dalle zone d’ombra della storia, rivela la sua presenza nella vita di famiglie, comunità ed istituzioni, agisce, direttamente o indirettamente, a molteplici livelli, contribuisce in maniera determinante allo sviluppo degli eventi nel panorama locale, nazionale ed internazionale.


1. Le convergenze operative, le profonde interrelazioni e le compenetrazioni, contrassegnate da rapporti ora di collusione ora di collisione, tra i centri del potere civile e le istituzioni ecclesiastiche d’antico regime costituiscono lo scenario del volume di Elisa Novi Chavarria dal suggestivo titolo Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani. Secoli XVI-XVII.
La significativa endiade “monache-gentildonne” pone l’accento sul mantenimento di una radicata identità di ceto da parte delle religiose, il cui rapporto con le famiglie d’origine, dopo l’acquisizione dello status monacale, si presenta saldo ed inalterato, per nulla ridotto o compromesso dall’ingresso nelle mura claustrali. Ed è proprio questo il concetto su cui l’Autrice fonda l’interessante percorso storiografico tracciato nel suo libro: le spesse mura dei cupi edifici claustrali, lungi dal delimitare spazi circoscritti di segregazione e netto isolamento, rivelano, nei secoli passati, il loro carattere di permeabilità non solo materiale, attestando quella “labilità” di confine che, come sostiene la Novi Chavarria, si carica di molteplici accezioni semantiche.
“Labile” era, senza dubbio, la separazione “fisica” delle monache dal mondo esterno, che diventò un arduo e delicato settore d’intervento in epoca tridentina, durante la quale i provvedimenti relativi al rispetto della clausura si moltiplicarono, incontrando notevoli resistenze. Ma altrettanto “labile” era soprattutto la distinzione tra lo stile di vita riservato alle nobildonne in società e quello che conducevano le religiose facoltose all’interno del monastero: il lusso e le comodità non mancavano alle monache che, disponendo di una consistente dote, non dovevano rinunciare agli agi e ai privilegi spettanti al loro ceto di appartenenza. I molteplici elementi di “contiguità” tra dimensione conventuale e realtà sociale, i numerosi legami di “continuità” che le religiose mantenevano con la loro condizione originaria, testimoniano l’elevato grado di inserimento delle comunità monastiche femminili nel tessuto cittadino.
Il merito del volume di Elisa Novi consiste nell’affrontare lo studio degli istituti monastici femminili da una prospettiva validamente innovativa che, considerando l’innegabile pluralità degli ambiti di intervento dei monasteri e l’intrinseca commistione giurisdizionale esistente tra i vari centri di potere d’ancien régime, coglie acutamente l’incisivo ruolo svolto a più livelli dai conventi femminili, nel delicato e movimentato periodo in cui, in stretta concomitanza, si sviluppano due fenomeni epocali: da un lato, la formazione dello Stato moderno, che impegna le monarchie in una strenua affermazione dell’accentramento amministrativo, frutto di un difficile equilibrio tra compromessi ed imposizioni rispetto alla pervicace resistenza opposta dalla pluralità di poteri locali – questi ultimi, tenace residuo, nel corso dei secoli, di un assetto di tipo feudale, contrasteranno sempre, con il loro particolarismo e la rivendicazione dei propri secolari privilegi, il consolidamento centralistico delle strutture statali2 –; dall’altro lato, la parallela riorganizzazione dottrinale, pastorale ed amministrativa della Chiesa post-tridentina, che, con i decreti conciliari, sancisce le linee di una riforma globale, che avrebbe investito la realtà quotidiana di clero e fedeli, puntando ad un rassicurante inquadramento disciplinare, sul piano spirituale, devozionale e comportamentale, ritenuto indispensabile per preservare la società da pratiche fuorvianti o pericolose “contaminazioni”3.
La simultaneità di due eventi così importanti per l’evoluzione storica dell’intero mondo occidentale non poté non generare conflittualità, concorrenza, ma anche utili convergenze, funzionali al perseguimento dei medesimi obiettivi di “omologazione”, “uniformizzazione”, “regolamentazione” della società. «Al modello centralistico proposto di volta in volta dalla Chiesa o dallo Stato si oppose allora» nel Mezzogiorno d’Italia «il gioco delle forze locali, rappresentato nel Regno dall’attività degli episcopati, dalla nobiltà di Seggio della capitale, dall’antica aristocrazia feudale delle province, dalle università e dal ceto togato, oltre che dagli stessi organi del governo vicereale non sempre in linea con le decisioni di Madrid» (p. 23).
L’Autrice, delineando l’eterogenea rappresentanza delle forze centrifughe rispetto ai poteri centrali operanti nel Regno di Napoli, sottolinea lo spirito orgogliosamente corporativo di alcune di esse, tra le quali sono annoverati anche i monasteri femminili. Essi sono analizzati come enti strutturalmente integrati nel tessuto politico e socioeconomico delle comunità cittadine, perché la loro fondazione, la loro amministrazione patrimoniale, il sistema di reclutamento delle religiose ed il controllo nella detenzione delle cariche all’interno dell’istituto, dipendevano strettamente dagli apparati di potere locali e riflettevano l’accesa rivalità delle dinamiche fra i ceti. Il fondamentale ruolo regolativo che la monacazione delle fanciulle rivestiva nell’articolato ambito delle strategie patrimoniali delle importanti famiglie finiva per assumere una conseguente valenza politica, poiché la gestione dei beni dei conventi, assicurata dalla presenza nell’istituzione di esponenti del proprio gruppo parentale, garantiva alle élites dirigenti la conservazione di un indiscusso prestigio sociale e di un’incontrastata preminenza politico-economica4.
Nella convincente ottica proposta dalla Novi, i monasteri femminili, definiti come «spazi sociali ed economici aperti» (p. 15), fortemente legati ai centri di potere cittadini, si configurano a pieno titolo come enti protagonisti di quei rapporti di “negoziazione” per l’ottenimento del consenso, che le autorità centrali furono costrette ad intavolare con una intricata miriade di riottose giurisdizioni locali5. I conventi di monache, espressione sempre più diretta dell’identità di ceto, appaiono artefici, e al tempo stesso strumenti, di un’arroccata difesa di prerogative tradizionali ed interessi corporativi, di cui rappresentano un’emblematica dimostrazione le questioni, riguardanti i monasteri di donne, affrontate dal Consiglio Collaterale nel corso dei secoli. Esse sono il segno della concreta partecipazione dei conventi femminili alla orgogliosa e problematica rivendicazione giurisdizionale dei gruppi dirigenti locali rispetto ai processi di centralizzazione. Con profonda autocoscienza identitaria, le comunità religiose femminili si opporranno agli incalzanti tentativi di riforma, messi in atto dalla Chiesa post-tridentina, che, con l’obiettivo di reprimere gli innumerevoli abusi e di rigenerare i rilassati costumi delle monache, cercherà di imporre la clausura, di ottenere il loro reale isolamento, riducendo al minimo qualsiasi contatto con il mondo esterno, di sottoporle al controllo e alla giurisdizione del vescovo, di obbligarle alla professione solenne dei voti e alla conduzione di una vita casta, obbediente e povera, privandole di tutti quei privilegi di cui, fino ad allora, molte di loro avevano goduto tra le mura claustrali. Questi rigidi e drastici provvedimenti, generalmente percepiti come intollerabile emanazione di un invadente potere centrale, causarono disobbedienze, proteste, ricorsi o indispettita indifferenza da parte delle religiose, le quali spesso poterono contare su appoggi esterni, alimentati da solidarietà familiari, ma indubbiamente anche da particolaristiche valutazioni di difesa corporativa. In alcuni casi, di cui l’Autrice riporta esempi ricavati da illuminante documentazione, la severa prescrizione delle norme tridentine produsse traumi talmente intensi da dar luogo a reazioni estreme di abbandono della vita monastica.
L’intero discorso si iscrive nell’efficace visione del percorso formativo dello Stato moderno, teorizzato da Giuseppe Galasso e Aurelio Musi, caratterizzato dalla ricerca di un delicato equilibrio tra “dominio” e “consenso”, dalla necessità di una continua “negoziazione” tra Stato e corpi e dalla persistenza della dialettica tra “integrazione” e “resistenza”.
L’ampiezza e la solidità delle basi teoriche di riferimento, accompagnate dalla ricchezza e dalla varietà delle fonti archivistiche utilizzate dalla Novi Chavarria, sono messe in rilievo nell’Introduzione del libro elaborata da Gabriella Zarri, che, con la sua autorevole esperienza in questo settore di studi6, sottolinea che «l’ampia e paradigmatica ricerca di Elisa Novi Chavarria» rappresenta una punta matura di quella parte della storiografia italiana che, dopo un trentennio di indagini, ha compiutamente acquisito «l’importanza dello studio dei monasteri femminili come elemento qualificante della storia sociale e politica cittadina» (p. 10). Il volume, infatti, esamina l’universo monastico femminile7 sia sotto l’aspetto religioso-devozionale, sia sotto il profilo politico-istituzionale, mirando ad offrire un «quadro “largo” dei processi di formazione statale e dell’azione riformistica della Chiesa», le cui «svariate sfaccettature» e la cui complessità di intrecci hanno richiesto, come sottolinea l’Autrice nella Prefazione, un’estensione della significativa metafora della “labilità dei confini” anche al metodo di lavoro (p. 16), che nell’uso integrato di diverse tipologie di fonti, ha provveduto a fornire un’elaborazione organica della ricerca svolta8.


2. La visione di una Chiesa post-tridentina che, dopo aver superato l’urgenza di frenare e reprimere i fermenti dottrinari eterodossi, si dedicò nel territorio italiano ad un’accurata e metodica opera di omologazione culturale, comportamentale e devozionale, è strutturalmente presente anche nel libro Una santa della città. Suor Orsola Benincasa e la devozione napoletana tra Cinquecento e Seicento di Vittoria Fiorelli. La studiosa, nel ricostruire l’itinerario biografico e spirituale della serva di Dio napoletana, offre un emblematico esempio di artificiosa “manipolazione” vocazionale, ante e post mortem, rigidamente indotta dalle sospettose e prudenti gerarchie ecclesiastiche e sapientemente guidata dalla riformata Congregazione dei Chierici regolari teatini.
Gli elementi fondanti delle più accreditate acquisizioni della recente storiografia sull’età controriformistica sono ampiamente rinvenibili nell’interessante quadro delineato dalla Fiorelli, in cui la centralizzante tendenza della Chiesa post-conciliare a comprimere l’intero e multiforme panorama della religiosità all’interno di uniformanti schemi di riferimento, garanzia di sicura ortodossia, si incontra con il fervore propagandistico e rigeneratore dei nuovi Ordini religiosi, che aspiravano all’affermazione dei principi riformistici della Chiesa cattolica, veicolati dal prestigio e dalla diffusione territoriale della propria congregazione.
L’Autrice riesce egregiamente nell’impresa, che ella stessa definisce «quanto mai difficile», di «discernere la personalità di Orsola dal suo mito, rivedendo la sua vita con l’intento di ristabilire la verità storica di alcuni episodi che hanno subìto un vero e proprio rovesciamento di senso» (p. 15). Un idoneo “trattamento” dei dati e delle vicende riguardanti l’esperienza religiosa di Orsola Benincasa si rese necessario, agli occhi delle autorità ecclesiastiche, a causa delle caratteristiche mistiche ed estatiche della sua spiritualità, che tendeva ad esprimersi secondo modalità istintive ed irrazionali, in un rapporto totale e coinvolgente con la divinità. Tale personale esperienza mistica, dalle intense connotazioni emozionali e soggettive, fungeva da carismatico catalizzatore di coscienze, suscitando l’acritica ammirazione delle masse di fedeli, soggiogati dalle doti “soprannaturali” della giovane napoletana. La Fiorelli richiama, a tal proposito, la tipologia delle “sante vive” (sulle quali negli ultimi tempi si è soffermata con successo una serie di studi)9, che incarnavano quel tipo di santità femminile visionaria e profetica che, con l’interesse e l’appoggio dei centri di potere, creava intorno a sé un benefico flusso di venerazione, capace di incanalare ed alleviare le ansie delle popolazioni derivanti dalla angosciante precarietà esistenziale.
Orsola, religiosamente allevata fin da piccola dalla sua pia famiglia, ammirava il fenomeno delle “sante vive” e parallelamente si sentiva ispirata dalla spiritualità estatica e missionaria manifestata da Caterina da Siena, verso la quale, anche a motivo di un’ipotizzata discendenza familiare dalla santa senese, ella si riteneva ereditariamente ed intimamente predisposta.
Ma il Concilio di Trento, con tutta la sua epocale portata innovativa, determinò una profonda svolta anche nella definizione della categoria di “santità”, che proprio per la sua incisiva connotazione socio-antropologica, venne analizzata, rigenerata e resa funzionale al raggiungimento delle finalità tridentine, in virtù della sua penetrante influenza sul contesto socio-ambientale10.
Per questi motivi, l’interpretazione provvidenzialistica, missionaria ed ispirata che la Benincasa diede della sua vocazione, culminata con il viaggio presso la Curia romana per trasmettere in forma solenne al capo della Chiesa le proprie incontenibili istanze di rigenerazione etica e spirituale, suscitò un’inevitabile esigenza di investigazione, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, per appurare l’ortodossia e la veridicità dell’esperienza religiosa della carismatica napoletana.
Ed è appunto il “carisma” – il singolare contatto con il trascendente, che avrebbe potuto porsi pericolosamente sulla scia di quel rapporto libero e diretto tra Dio e il credente teorizzato dai protestanti – a destare le preoccupazioni della Chiesa postconciliare, che provvide a far confluire la vicenda della Benincasa nel solco dei modelli cultuali e comportamentali indicati dal progetto di riforma cattolica.
L’Autrice sottolinea molto efficacemente l’abilità dimostrata dalle autorità ecclesiastiche che, pur neutralizzando la potenziale carica deviante contenuta nell’originaria esperienza spirituale di Orsola, non ne sottovalutarono le capacità di penetrazione nel territorio e di affascinamento dei fedeli. Per questo, nel delicato periodo in cui il cattolicesimo mira a vietare ai credenti l’autonoma fruizione del divino ed il libero esercizio speculativo ed esegetico sui postulati dottrinali, proponendo modelli uniformi di esperienze di fede, rigorosamente vagliate e filtrate dalla mediazione ecclesiastica, la storia di Orsola si presenta emblematicamente come l’artificiosa costruzione di un modello di riferimento, immortalato nello schema esemplare dell’«ascesi monastica».
Secondo il programma perseguito prima dagli Oratoriani, su indicazione di san Filippo Neri, e poi dai Teatini che intesero farne un’icona della santità post-tridentina, da “mistica” soggetta a frequenti estasi profetiche «di chiara ascendenza cateriniana» «ella venne trasformata progressivamente in un tipico esempio di ascesi monastica» (p. 17). La categoria contemplata per la Benincasa era quella della “monaca fondatrice”, che risultava compatibile con il modello di santità femminile che la Controriforma aveva delineato, privato di autonomia teologica e devozionale e relegato al ruolo passivo di esempio di virtù.
Nella concezione cattolica di età moderna, la guida religiosa della società era affidata al clero maschile, alla cui competenza dottrinale erano demandati il controllo, le opportune sollecitazioni ed il continuo supporto alla spiritualità femminile, la quale doveva manifestarsi in forma sublime come «annientamento», umile sottomissione, totale e fiducioso abbandono alle indicazioni del direttore spirituale, «obbedienza cieca ai rappresentanti delle gerarchie ecclesiastiche» (p. 55)11.
Il volume si qualifica, dunque, anche per il taglio sociologico che assumono le riflessioni relative al ruolo della donna nell’ancien régime, emergenti dall’accurata caratterizzazione del topos di “santità femminile riformata” compiuta dall’Autrice.
Il paradigmatico titolo scelto per il libro va, invece, inquadrato nell’orizzonte politico-istituzionale e socio-culturale in cui si realizza il percorso di formazione dell’identità cittadina: una “santa della città” è colei che, essendo riuscita a catalizzare la venerazione della gente grazie alle sue doti “straordinarie” e, al contempo, a proporsi, dopo la “normalizzazione” della sua esperienza mistica, come “regolare” e virtuoso modello di rigorosa osservanza cattolica, può incarnare lo spirito devoto del territorio in cui ha operato, rafforzando l’identità cittadina e conferendo prestigio alla comunità. Secondo tale ottica, l’intento dei Padri Teatini di accrescere la popolarità e le benemerenze del proprio Ordine nel campo dell’applicazione della Riforma cattolica, attraverso la mirata elaborazione di una “leggenda agiografica” su Suor Orsola, si intrecciò con le aspirazioni della città di Napoli a perorare la causa di canonizzazione della Benincasa, della quale, ancor prima del decesso, i Teatini provvidero strumentalmente ad estendere il culto ai livelli sociali più elevati e, soprattutto, ai rappresentanti dell’amministrazione cittadina.
La dimensione della fama di Orsola rimase fondamentalmente circoscritta all’area napoletana, ma il libro della Fiorelli, come rileva significativamente Giuseppe Galasso nella Prefazione, ricostruendo con rigore e dovizia documentaria la parabola esistenziale della serva di Dio napoletana, attingendo metodologicamente alla ricchezza di apporti della storia socio-religiosa, della storia istituzionale e della storia di genere, trascende il piano della vicenda, per addentrarsi sia nella multiforme storia della metropoli napoletana tra ’500 e ’60012, sia nel processo di inquadramento normativo e comportamentale post-tridentino e nella «logica di politica religiosa di una grande istituzione storica, che è anche una grandiosa testimone della fede e della vita cristiana, quale notoriamente è la Chiesa cattolica» (p. IX).


3. Vittoria Fiorelli, nel titolo del suo successivo volume, Una esperienza religiosa periferica. I monasteri di madre Serafina di Dio da Capri alla terraferma, sposta intenzionalmente l’attenzione del lettore dallo spazio “centrale” della capitale napoletana, fulcro delle vicende di Suor Orsola Benincasa, ad una dimensione marcatamente “periferica” come quella dell’isola di Capri, dove si sviluppa la vicenda umana e socio-religiosa di Madre Serafina di Dio, al secolo Prudenza Pisa.
La storia della mistica caprese, ricostruita dettagliatamente dall’Autrice con elevato rigore documentario, rappresenta un’occasione di riflessione sui percorsi di disciplinamento sociale attuati dalla Chiesa post-tridentina, nella sua fase seicentesca di consolidamento, definita “trionfante”.
In tale periodo, il Papato e le Congregazioni romane, nell’ottica dell’accentramento strutturale ed organizzativo perseguito parallelamente anche dagli organismi statali, provvedono ad approntare strategie di divulgazione ed inquadramento devozionale, che, con la proposta di uniformi ed inattaccabili modelli edificanti, assicurino il pacifico incanalamento dei fedeli nel solco dell’ortodossia13.
Se nel caso di Suor Orsola Benincasa, il proficuo utilizzo della sua fama di carismatica era stato possibile solo mediante un’adeguata riconduzione della sua esperienza mistica entro i confini dell’ufficialità ecclesiastica, operata dagli Ordini religiosi che ne avevano sostenuto l’iter spirituale, nella vicenda caprese, collocata temporalmente in pieno Seicento, quando la Chiesa ha ormai delineato e stabilizzato i suoi canali di controllo e diffusione, la devota Prudenza Pisa inserisce fin dall’inizio il suo progetto religioso all’interno di un percorso “istituzionale”, fermamente ancorato all’ideologia, alla sorveglianza e alle procedure delle gerarchie ecclesiastiche, ispiratrici e compartecipi del disegno di fondazione monastica di Madre Serafina.
La Fiorelli rimarca opportunamente la saggia operazione di costruzione e canalizzazione della sua “vocazione”, pazientemente eseguita da Serafina fin da fanciulla, allorquando l’adesione alla volontà familiare di erezione di un conservatorio femminile si concretizza nella funzionale individuazione di valide guide appartenenti al potente clero napoletano e di un inattaccabile modello ispiratore di santità controriformata, come Santa Teresa d’Avila.
Vittoria Fiorelli evidenzia anche in questo lavoro l’importanza dell’evoluzione degli schemi di santità in epoca post-tridentina e l’influenza che tale progressiva trasformazione esercitò sulle formule di presentazione e le modalità di diffusione delle autonome esperienze religiose: Madre Serafina privilegia fin dal principio il modello di “monaca fondatrice” incarnato da Santa Teresa, che rappresenta una tipica espressione di osservante, obbediente e “convergente” santità femminile, alla quale ella si sente affine anche per livello di istruzione. Serafina, infatti, non rientra nell’immagine della “santa illecterata”, la cui aspirazione di “annullamento” della volontà la rende plasmabile dalle gerarchie ecclesiastiche maschili, come era accaduto nell’elaborazione agiografica della mistica Orsola Benincasa, ma si affida volontariamente alla protezione del clero maschile, onde garantire alla realizzazione del suo progetto sostegno ed approvazione.
Anche questo volume, come il precedente della Fiorelli, ha il pregio di partire da una storia particolare, da una vicenda umana localmente e temporalmente circoscritta, per affrontare temi di ampio respiro, collegati alla storia di genere, alla storia socio-economica e politico-istituzionale del Mezzogiorno d’Italia d’antico regime.
L’impresa fondativa di Madre Serafina, nel suo lungo iter istitutivo e trasformativo, pone in luce la realtà familiare, sociale ed educativa delle donne in età moderna – i cui destini erano necessariamente orientati al matrimonio o alla vita monastica –, realtà che nel corso del Seicento non ancora appariva del tutto disciplinata, nonostante gli incessanti tentativi di regolamentazione messi in atto dalla Riforma cattolica. Come nel caso della Napoli di Suor Orsola Benincasa, infatti, anche sull’isola caprese una particolare categoria sociale risulta rappresentata dalle cosiddette “bizzoche” o “monache di casa”14, che non potendosi permettere un accesso al convento, sceglievano di abbracciare la vita monastica mantenendo lo stato secolare, configurando uno stile di vita semireligiosa, su cui la Chiesa post-tridentina cercò con difficoltà di esercitare forme di sorveglianza o di inquadramento normativo.
Le indagini effettuate dalla Fiorelli fanno emergere, per la realtà periferica di Capri, analogamente alle tendenze centrifughe riscontrate in altri centri meridionali, la forte resistenza dei gruppi locali alle iniziative di carattere verticistico promosse dalla Chiesa. Il progetto di Madre Serafina verrà dapprima osteggiato dalla diffidenza delle “bizzoche”, che si mostravano contrarie a rinchiudersi in istituto e ad assoggettarsi a regole e gerarchie, ed allo stesso tempo timorose di perdere il ruolo preminente che rivestivano all’interno della comunità nel campo della prassi devozionale e dell’educazione delle fanciulle. Ma altrettanta ostilità all’originaria ipotesi erettiva del conservatorio femminile sarà espressa dall’intero corpo sociale caprese, che rivelandosi in «forte controtendenza rispetto ai tratti costitutivi che caratterizzavano le fasi di fondazione delle istituzioni monastiche sorte in pieno Seicento» (p. 77), inizialmente non colse la grande opportunità di prestigio, di sviluppo territoriale e socio-patrimoniale che l’erezione di un monastero poteva offrire alla città.
Il libro della Novi Chavarria, Monache e gentildonne, precedentemente presentato, illustra molto bene gli stretti legami esistenti fra le comunità cittadine, le élites dirigenti, e gli istituti monastici femminili. Questi ultimi rispondevano alle esigenze di affermazione sociale, di conservazione patrimoniale, di potenziamento del senso identitario delle oligarchie urbane, le quali tutelavano i monasteri cittadini e caldeggiavano, ove possibile e se necessario, la creazione di nuovi conventi, quali validi strumenti di gestione del potere15.
È proprio questa la motivazione di fondo che spinse numerose universitates della fascia costiera tra Napoli e Salerno a patrocinare nuove fondazioni conventuali e a richiedere, a tal fine, il fattivo intervento coordinatore di Madre Serafina, dopo che la sua fama di “monaca fondatrice” ebbe varcato i confini insulari capresi. A Capri, invece, l’ingerenza del clero e delle élites napoletani, cui la mistica affidò l’aspetto istituzionale della realizzazione della sua opera, contribuì a raffreddare l’interesse delle autorità locali per la fondazione del monastero, che, fin dalla predisposizione delle Regole, Madre Serafina sembrò voler sottrarre alla influenza dei potentati cittadini, evitando la potenziale interferenza delle strategie familiari dei ceti dirigenti.
Vittoria Fiorelli, penetrando nella dimensione delle dinamiche cittadine d’ancien régime, individua in questi elementi le ragioni della sostanziale diffidenza isolana nei confronti dell’entusiasmo istitutivo della serva di Dio, e tale ipotesi appare confermata dall’evidente cambiamento di rotta che si verifica nel momento in cui il prestigio del conservatorio e della carismatica caprese aumenta, calamitando l’attenzione delle gerarchie ecclesiastiche e di sempre più elevate sfere sociali, fino alla bramata concessione dello statuto di monastero di clausura, giunta nel 1748 dopo molteplici traversie. L’inserimento ufficiale dell’istituto nel panorama dei grandi e potenti complessi monastici del Regno, che lo proiettava in quella rete di rapporti politici ed economico-sociali da sempre intercorrenti tra i monasteri ed i tessuti urbani ospitanti, fu immediatamente percepito dalla comunità caprese come un’occasione imperdibile di stabilizzazione delle dinamiche cetuali interne, di accrescimento dell’immagine dell’isola all’esterno, di progressivo superamento della condizione di estrema periferia. Il saggio della Fiorelli offre un interessante spaccato della situazione politica, socio-economica e religiosa della Capri del Seicento, di cui vengono messi in luce i lunghi conflitti giurisdizionali tra autorità civili ed autorità diocesane, i continui rapporti culturali, professionali, commerciali e politici con la capitale, la contemporanea presenza di una tendenza centrifuga rispetto all’accentramento statale ed ecclesiastico e di un costante atteggiamento di emulazione e convergenza rispetto ai parametri sociali ed i modelli identitari proposti dal centro napoletano.
La “microstoria” di Madre Serafina di Dio si intreccia, in questa pregevole ricerca, con la “macrostoria” del processo di normalizzazione religioso-devozionale della “trionfante” Chiesa post-tridentina e con la “macrostoria” degli oscillanti rapporti fra centro e periferia, fra capitale e province nel Mezzogiorno di età moderna.


4. La pluralità di contributi contenuti in Donne e religione a Napoli. Secoli XVI-XVIII, a cura di Giuseppe Galasso e Adriana Valerio, trova un potente e significativo tratto unificante nella salda ispirazione tematica, comune ai diversi saggi, e nel parallelo intento – evidenziato dai curatori nella Premessa – di offrirsi come un ampio panorama di metodi e tecniche di ricerca, sperimentati e sperimentabili nell’ambito delle tematiche selezionate. Queste sono incentrate sull’esperienza religiosa femminile nel Mezzogiorno di età moderna, allo scopo di illuminarne i caratteri di originalità e tipicità, senza mancare di coglierne la partecipazione agli sviluppi del pensiero e delle strutture socio-religiose dell’Occidente d’ancien régime. Il Meridione d’Italia, ed il Regno di Napoli in particolare, analizzati sotto il profilo delle manifestazioni di fede espresse dall’universo femminile, emergono per la peculiarità delle loro forme di spiritualità e del loro sostrato ideologico-culturale, ma, nel contempo, non si rivelano avulsi dagli itinerari di trasformazione concettuale, comportamentale e strutturale, percorsi dall’Europa cattolica tra XVI e XIX secolo e promossi dai vertici delle gerarchie ecclesiastiche16.
Il saggio di Giuseppe Galasso, L’esperienza religiosa delle donne, che apre significativamente il volume, si presenta come una problematica ed articolata riflessione di carattere tematico e metodologico sugli studi di storia religiosa femminile, che, oltre a presentare una ragionata rassegna dei nuclei argomentativi sui quali fondare, sincronicamente e diacronicamente, la ricerca, chiarisce le modalità, le caratteristiche ed i confini dell’appartenenza del tema selezionato al settore della storia socio-religiosa e a quello della storia di genere. In particolare, Galasso si sofferma sui meriti e sul valore della gender history, alla quale un apporto rilevante è stato dato dalla storia socioreligiosa, che ha svelato la profonda dimensione della spiritualità, della mentalità e del costume delle donne, riconoscendola come parte integrante della realtà sociale d’antico regime17.
Nello stesso tempo, però, l’Autore mette in guardia da un uso distorto o da un’inidonea interpretazione della storia di genere, la cui sostanza è stata a volte travisata in chiave femministica, tendendo a renderla esclusivo appannaggio degli storici di sesso femminile, da cui è stata considerata, con atteggiamento vistosamente prevenuto e pregiudiziale, «“un’altra storiografia” o, più ancora, “una storiografia altra”» (p. 15). La ragion d’essere della storia di genere trova, invece, il suo fondamento nella reale necessità di cogliere, attraverso sistemi di indagine solidi ed autonomi, la specificità storica e sociale della donna, sottraendola al silenzio nel quale l’ha relegata il “dominio maschile” in ambito storico e storiografico.
Il campo più ricco ed articolato dell’espressione femminile in età moderna è, senza dubbio, rappresentato dalla sfera religiosa, nella quale una determinante impronta fu esercitata dalla diffusione dello spirito tridentino, che, declinandosi nel Mezzogiorno più come azione di disciplinamento sociale che come repressione dell’eresia, provocò l’affermazione di schemi e modelli omologanti, i quali finirono per fondersi con le preesistenti manifestazioni della religiosità meridionale e per creare modelli di mentalità e di comportamento condivisi e standardizzati. In quest’ottica, l’immagine della donna fu sottoposta ad un processo di attenuazione degli elementi di fisicità, che maggiormente ne connotavano l’identità, per assurgere al ruolo di saggia e pacata mediatrice dei rapporti familiari, di umile educatrice della prole ai valori cristiani.
La subalternità della condizione femminile appare chiaramente percepibile anche nell’ambito della santità, in cui la netta predominanza di personaggi maschili innalzati agli onori degli altari è accompagnata dalla prevalenza del misticismo e dell’esercizio della pietà come categorie più ampiamente ricorrenti nella determinazione della santità femminile. Tutto ciò conferma la radicata convinzione dell’«infermità» e dell’«inferiorità» dell’essere donna (p. 39), scaturente da un’atavica «concezione teoantropologica», sulla quale Galasso ritiene si fondi la condivisa ideologia della debolezza e, al tempo stesso, della pericolosità della natura femminile (p. 25). Per questo motivo, gli uniformanti orientamenti della Chiesa post-tridentina preferirono il tranquillizzante inquadramento della donna negli schemi di una regolata devozione, piuttosto che la sua elevazione a personaggio da venerare, incontrandosi, su questo piano, anche con la mentalità delle popolazioni, più inclini ad eleggere santi uomini al ruolo di patroni cittadini, poiché la funzione di protezione e salvaguardia veniva riconosciuta come tratto saliente dell’universo maschile.
Al pari della dimensione cultuale e dottrinaria, anche quella dello “spazio sacro” mostra un’evidente emarginazione femminile, che riserva alle donne, come luogo pressoché esclusivo di partecipazione alla spiritualità istituzionale, la clausura dei monasteri, la quale risponde a quell’esigenza di tutela e garanzia della fragilità naturale femminile, radicata nella tradizione religiosa, sociale e antropologica. Ed è ancora tale visione a condizionare l’impegno delle donne nel mondo della carità e dell’assistenza, anche con il mutare della temperie culturale nel corso dei secoli. Fino all’Ottocento inoltrato, a fronte di un incremento della presenza femminile nel settore della fondazione, promozione e direzione di istituti ed iniziative di beneficenza, si rileva nettamente la prevalenza dello status della donna come destinataria delle opere di carità più che come promotrice ed animatrice delle forme di assistenza sociale.
La tesi di fondo intende mettere in luce come gli occasionali od insospettabili episodi di affermazione della religiosità femminile risultino inseriti in un contesto di specificità dell’Italia meridionale, la cui «alterità è all’interno, non all’esterno» dell’Occidente cattolico di cui essa è pure espressione e parte integrante, in un costante e proficuo rapporto di genus proximum e differentia specifica, come efficacemente è indicato nel titolo dell’ultimo paragrafo del contributo di Galasso, dedicato appunto alla significativa relazione tra Mezzogiorno ed Europa nell’evoluzione degli eventi storici18.
In Donne e istruzione. Itinerari del messaggio religioso, Elisa Novi Chavarria traccia il variegato profilo dell’educazione destinata alle fanciulle, che appare fortemente condizionata da variabili di carattere sociologico, ma che è improntata dalla tradizionale ideologia sulla donna, basata sui suoi caratteri di debolezza morale e propensione al peccato. Tale visione comportava che la formazione delle donne fosse impostata rigidamente sui criteri dell’obbedienza, della remissività, della moderazione e del rispetto dell’autorità, incarnata in ogni caso da figure maschili, quali quelle del padre, del marito, dei fratelli, dei figli, dei tutori e così via. Anche in questo saggio è ribadita la costruzione post-tridentina di un ideale muliebre, incentrato sulle capacità di mediazione, pacificazione, integrazione e orientamento spirituale richieste alle donne, che fin da bambine venivano educate alla disciplina, alla soggezione e al soffocamento delle pulsioni fisiche e psicologiche.
L’immagine della donna come simbolo dell’onore e della rispettabilità della famiglia realizza la convergenza fra gli ideali identitari familiari, i modelli culturali della società di antico regime, gli orientamenti etico-religiosi della Chiesa post-tridentina. Al raggiungimento di questo modello femminile era prevalentemente finalizzata l’istruzione rivolta alle fanciulle, che dipendeva soprattutto dalla loro posizione cetuale ed era generalmente limitata ad alcuni apprendimenti. L’Autrice pone in evidenza la natura prevalentemente ecclesiastica e nettamente di stampo religioso delle opportunità educative riservate alle donne in epoca moderna, che andavano dalla dimensione privilegiata dei monasteri, a quella variegata dei conservatori – molto spesso espressione di identità ed interessi corporativi –, a quella meno qualificata delle parrocchiali scuole di dottrina cristiana o delle zoppicanti scuole pubbliche sovvenzionate dalle università dei centri minori. La ricostruzione delle caratteristiche dell’istruzione femminile nell’arco temporale dal XVI al XVIII secolo, induce, però, ad una fondamentale considerazione: neanche le profonde trasformazioni culturali e le innovazioni ideologiche introdotte dalla temperie illuministica riusciranno a scardinare la concezione della donna come essere “naturalmente inferiore” e pericolante, da avviare fin dall’infanzia alle cure domestiche ed alla morigeratezza dei costumi. Sorprendentemente «il pensiero laico» rivoluzionario e napoleonico «trovava su questo piano uno dei più forti elementi di convergenza con la tradizione cattolica» (p. 66).
Adriana Valerio focalizza l’attenzione su un problema spinoso ed ambiguamente affrontato, quale il concubinato del clero ed il particolarissimo rapporto che si veniva ad instaurare tra i sacerdoti, ministri consacrati del Signore, e l’universo femminile, peccaminoso e tentatore.
Nel suo intervento su Donne e celibato ecclesiastico: le concubine del clero, l’Autrice, dopo aver ricordato il lungo tergiversare della Chiesa sulla questione del celibato e il ferreo irrigidimento tridentino, scaturito come reazione alle innovazioni protestanti, nella fase in cui fu definitivamente abbandonata la strada della mediazione e della riconciliazione, sottolinea il frequente riaffiorare, all’interno della Chiesa cattolica, di mai sopite tendenze filogamiche, attestate da una considerevole produzione trattatistica che investe anche il Regno di Napoli ed arriva fino al tardo Ottocento.
La riforma tridentina, al fine di ostacolare le tendenze desacralizzanti manifestate dai protestanti nei confronti del clero, rimarcò nettamente la linea di confine tra il corpo ecclesiastico e la massa dei laici, aumentando la distanza tra sacerdoti e fedeli e sottolineando la superiorità dei primi rispetto ai secondi. Il celibato costituiva proprio uno dei tratti di distinzione del clero, la cui adeguata formazione, alla quale il Concilio cercò con difficoltà di provvedere, doveva essere improntata ad una severa rinuncia ai piaceri terreni e ad un convinto disprezzo per il corpo, fonte del peccato. La concezione della donna assumeva, allora, una valenza sempre più negativa, perché simbolo di vitale corporeità e per questo naturalmente predisposta alla corruzione e all’immoralità.
Tra le maglie di questa austera normativa, volta a limitare fortemente i contatti del clero con il mondo femminile, si consumarono drammi e sofferenze, determinati dalla difficile e turbata persistenza di una prassi, più o meno diffusa, che vedeva spesso, da un lato, i sacerdoti aderire ad un bisogno di affetto e di calore familiare, al di là del mero soddisfacimento di esigenze sessuali, e dall’altro, donne quasi sempre emarginate ed in difficoltà, cercare una protezione affettiva ed una sistemazione economica, che costava loro, però, nuova emarginazione, pubblico disprezzo, clandestinità. In una condizione in cui si veniva a configurare un vero e proprio menage familiare, consolidato frequentemente dalla nascita di figli, l’inasprimento post-tridentino non poté che causare un enorme disagio morale, psicologico e sociale da parte di singoli individui – preti e “perpetue” –, di intere comunità, nonché degli organi ecclesiastici deputati al controllo e alla repressione.
In questo clima disciplinante che investe la collettività, l’anello della catena sociale più debole e colpito appare, senza dubbio, la donna, che dalla mentalità misogamica inculcata dalla Chiesa è sottoposta ad atteggiamenti segreganti e repressivi per la sua demoniaca corporeità, ed è costretta, quando concubina di un sacerdote, a consumare il suo divorante senso di colpa ed il suo straziante conflitto interiore nella clandestinità, nell’emarginazione e nell’incomprensione da parte di tutti. Adriana Valerio sottolinea come anche gli scritti anticelibatari di dotti studiosi, che si leveranno nel corso dei secoli a difesa del legame matrimoniale e del diritto dei chierici ad ambirvi, saranno mossi solo da premura nei confronti del clero, rimanendo circoscritti «al prete, in un’ottica squisitamente clericocentrica» (p. 89), per nulla attenta al dramma e alla marginalità del mondo femminile legato agli ecclesiastici.
Con il saggio di Michele Miele si focalizza l’attenzione su una delle dimensioni quantitativamente e socialmente dominanti nell’universo femminile di antico regime, lo status monacale: Monache e monasteri del Cinque-Seicento tra riforme imposte e nuove esperienze, ripercorre le critiche fasi degli interventi di recupero morale e materiale operati sul generalizzato degrado dei conventi femminili napoletani, rievocando la fitta rete di interessi ed interrelazioni politico-sociali nella quale queste istituzioni erano profondamente calate. Da sempre inseriti nelle strategie patrimoniali dei ceti dirigenti, finalizzate all’idonea collocazione dell’eccedenza demografica e alla preservazione dell’asse ereditario, i monasteri femminili non rientrano esclusivamente nella sfera del potere ecclesiastico, ma risultano profondamente integrati nel tessuto cittadino e collegati ai poteri laici delle oligarchie urbane – secondo la tesi formulata negli studi di Gabriella Zarri ed approfondita recentemente da Elisa Novi Chavarria. Il risanamento dei chiostri femminili non poté non coinvolgere le autorità locali, le quali, se in alcuni casi furono propense ad irrigidire la vita monacale per impedire lo svilimento dell’«onore nobiliare» messo in discussione dagli atteggiamenti troppo disinvolti delle religiose, la maggior parte delle volte reagirono con netto spirito “corporativo” ai tentativi di soffocamento delle libertà e delle autonomie da sempre godute dagli istituti claustrali, nei quali le esponenti delle famiglie aristocratiche conducevano un’esistenza agiata, confortate dai continui contatti con l’esterno e sostenute dalla solidarietà del ceto d’origine.
Per tale motivo, Michele Miele illustra il lungo travaglio di una riforma, che, avviata già in epoca pre-tridentina, anche per iniziativa laica nei primi decenni del Cinquecento, si trasforma, dopo Trento, in un vero braccio di ferro tra le autorità ecclesiastiche diocesane e romane ed i riottosi monasteri napoletani. L’Autore rileva come fu solo il graduale processo di “mediazione” tra le iniziative introdotte dal centro romano e le rimostranze espresse dagli organismi rappresentativi locali ad agevolare la lenta applicazione della riforma, che, da «riforma impossibile» o «riforma impedita», fu parzialmente realizzata, attraverso un abile dosaggio, realizzato dalla politica centralistica della Congregazione dei Regolari, tra salde imposizioni e limitate concessioni. Miele chiude il suo contributo con la riflessione sulla mancata risoluzione, da parte delle oscillanti manovre di riforma, dei problemi reali all’origine della decadenza morale dei monasteri, il cui aspetto vocazionale non verrà mai affrontato con la dovuta profondità, dando luogo ad una rigenerazione claustrale precaria e superficiale.
L’obiettivo della ricerca rimane puntato sui conventi di donne nel saggio di Marcella Campanelli, «Una virtù soda, maschia e robusta». Il monachesimo femminile nel Settecento napoletano, nel quale gli incisivi cambiamenti ideologici, culturali, politicosociali del secolo dei Lumi mostrano i loro percepibili riflessi sul clima claustrale e sui modelli concettuali relativi alla religiosità femminile. Se nel corso dei secoli precedenti – secondo considerazioni affiorate in contributi già analizzati – i monasteri si erano configurati come un simbolo dell’autocoscienza identitaria, come uno strumento del potere nobiliare, come uno spazio ambito di osteggiata conquista per l’affermazione del ceto civile emergente, non stupisce che «negli ultimi decenni del XVIII secolo si assista, all’interno dei chiostri napoletani, ad un vero e sostanziale cambiamento demografico e sociale, riflesso di una “democratizzazione” di più vasta portata in atto al di fuori di essi, cui non era estraneo il lento, ma progressivo mutare del ruolo stesso della donna nell’ambito della società» (p. 144). L’allargamento dei criteri di accesso al convento, dovuto ad un sensibile allentamento del monopolio esercitato dalle tradizionali oligarchie cittadine, e l’acceso dibattito giurisdizionalistico, che si scagliava contro la deprecabile pratica delle cospicue doti monastiche, si accompagnarono ad una globale riconsiderazione delle manifestazioni di devozione, che sulla scia degli orientamenti razionalistici del tempo, era tesa alla valorizzazione di una fede sobria, consapevole, regolata, scevra da eccessi mistici, visionari o incontrollati, tendente al misurato esercizio, di matrice alfonsiana, delle virtù eroiche e del rigore ascetico, che caratterizzavano – come abbiamo già avuto modo di rilevare – il nuovo modello di santità femminile e delineavano il moderno ideale di monaca.
La tipologia delle caratterizzazioni in cui si declinano la spiritualità e la devozione femminile in età moderna non si presenta, come è noto, affatto compatta ed omogenea. Alla dimensione claustrale, rappresentata dalla formula di vita monastica assoggettata ad una regola, affiliata ad una famiglia religiosa e sottoposta alla pronuncia dei voti solenni, si affiancava un ventaglio indeterminato e scarsamente codificato di opzioni di vita religiosa, la cui classificazione sarà sempre soggetta a labilità interpretativa e difficoltà di inquadramento. Tali scelte esistenziali, ascrivibili alla categoria del nubilato devoto, definita significativamente “terzo Stato”, si propongono come un interessante campo di indagine per la ricerca storica e formano l’oggetto dello stimolante contributo di Giuliana Boccadamo: Monache di casa e monache di conservatorio. In esso emergono i confini indistinti tra oblate, monache di conservatorio, bizzoche, terziarie; l’imprecisione e l’incertezza investono sia l’aspetto più strettamente terminologico, con un uso spesso indifferenziato delle varie definizioni, sia i caratteri specifici connotanti lo status giuridico, sociale ed ecclesiastico di queste figure di religiose o “semi-religiose”. L’Autrice sottolinea opportunamente che un sicuro criterio per tentare di identificare e catalogare le variegate esperienze religiose del “terzo stato” è quello di rapportarle alla dimensione monastica regolare, rispetto alla quale, nel corso del tempo, esse continueranno a confrontarsi, modellarsi, assimilarsi o differenziarsi, eleggendola a costante termine di paragone. Il saggio pone in rilievo la diffidenza e, spesso, l’insofferenza della Chiesa nei confronti dei cosiddetti “monasteri aperti”, i conservatori che accoglievano donne osservanti la castità ed una regola, ma non vincolate ai tre voti solenni, al rigore ascetico-contemplativo e all’obbligo della clausura previsti per le monache. Le gerarchie ecclesiastiche, che generalmente non riusciranno a porre un freno a queste iniziative, a disciplinarle e ad eliminare l’ambiguità del loro statuto, saranno costrette a contendere la gestione di queste congregazioni femminili a poteri e corpi laicali, che, in virtù di diritti di fondazione e dotazione, ne rivendicavano la giurisdizione e l’amministrazione. Numerose difficoltà incontreranno i vescovi e gli organismi romani nell’esercizio delle loro pretese funzioni di controllo, soprattutto in considerazione del fatto che una tale scelta di vita, devota e consacrata, pur effettuata spesso sulla base di velate aspirazioni ad un maggior grado di autonomia, determinava, da parte delle donne che la compivano, la richiesta, cautamente vagliata e frenata dalle autorità ecclesiastiche, di fregiarsi dell’abito e dei simboli monacali, per l’esigenza di distinguersi dalle altre, consolidando la propria immagine nel tessuto sociale. La questione si presentava ancora più delicata nel caso delle bizzoche, o monache di casa, figure molto diffuse a Napoli e nel Mezzogiorno, che la Chiesa cercò, spesso con scarsa efficacia, di regolamentare, giungendo a legittimare nel Settecento «un doppio tipo di bizzocaggio» (p. 178), distinto tra bizzoche di devozione, o non professe, e bizzoche professe, usufruenti di maggiori privilegi, ma sottoposte ad una altrettanto maggiore vigilanza da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Il fluttuante universo delle “terziarie”, tuttavia, non godrà nel complesso di lusinghieri giudizi e riconoscimenti nel corso dell’età moderna, sulla scia di quella concezione negativa della donna ampiamente attestata; solo nell’Ottocento, sulla scorta di una mutata mentalità, esso riuscirà con fatica a ritagliarsi degli spazi nel sociale, nel campo dell’assistenza e dell’educazione, riscattandosi da una secolare esclusione dalle sfere della dottrina, della trasmissione culturale e della mediazione ecclesiastica, esclusione precedentemente imposta da una radicata visione misogina.
L’esperienza di un gruppo di donne, desiderose di condurre vita religiosa nelle forme dell’oblazione secolare, e la sofferta vicenda della loro coraggiosa fondatrice, costituiscono il nucleo tematico del contributo di Silvana Musella, dall’esplicativo titolo: «Non si facciano più Ritiri». Il riferimento è al divieto di Carlo di Borbone, nei primi anni del suo regno (10 luglio 1740), di creare conservatori o ritiri di oblate, senza l’autorizzazione del potere sovrano, a cui doveva spettare la giurisdizione su tale tipo di istituti di religiose secolari. Il saggio coglie una manifestazione del giurisdizionalismo napoletano causata dall’insofferenza per l’ingerenza dell’autorità vescovile nella vicenda relativa al Ritiro delle Alcantarine di Chiaia e per le accuse rivolte alla fondatrice, suor Maria Serafina Diodato. A seguito delle lamentele e delle proteste di alcune oblate della congregazione, riguardanti l’eccessivo zelo, l’ambizione, la vanità e l’immoralità della superiora, si innescò un processo che condusse alla soppressione dell’istituto e che mise in luce «un coacervo di forze che giocarono un ruolo determinante nella vicenda e che resero la storia del ritiro di Chiaia emblematica delle tensioni di un’epoca» (p. 199). L’episodio rivela la sovrapposizione delle sfere di competenza tra autorità civili ed ecclesiastiche, la concorrenza tra il potere arcivescovile e le tendenze autonomistiche degli Ordini religiosi, al cui ambito appartenevano i ritiri delle oblate, in una perenne interferenza di funzioni tra i vari centri di potere, che caratterizza non solo il Regno di Napoli in quei secoli19. L’evoluzione della questione, che chiarisce la rilevante incidenza del potere laico – rappresentato dal sovrano e dagli Eletti della città – sulla fondazione, il mantenimento e la salvaguardia di numerose strutture religiose, indica l’ormai avviato iter di laicizzazione della società civile, che, tra Settecento ed Ottocento, maturerà un progressivo ed insanabile distacco dalla tutela esercitata per secoli dalla Chiesa.
La proficua compenetrazione epistemologica tra storia religiosa e spirituale, antropologia e storia della teologia, fondata su solide basi di storia sociale, intende restituire, nel saggio di Vittoria Fiorelli – Cupio dissolvi. Destini di donne tra profetismo e ascesi monastica – la complessità del panorama, creatosi nelle epoche successive alla temperie umanistico-rinascimentale e all’ondata riformistica, contraddistinto da un accentuato «soggettivismo religioso». A tale preoccupante tendenza, sollecitata dalla spiritualità protestante, la Chiesa cattolica mirò a porre un freno, reprimendo, correggendo o incanalando nel giusto sentiero di modelli precostituiti. La ricerca si occupa del fenomeno della santità femminile nel Regno di Napoli e della sua progressiva evoluzione ideologica nel corso dell’età moderna, colta attraverso le esperienze diversificate di tre famose carismatiche: suor Orsola Benincasa, madre Serafina di Dio, santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe di Gesù. Nella vicenda della prima, consumatasi nel cuore della capitale napoletana a cavallo tra XVI e XVII secolo, è possibile riscontrare l’operazione di verifica, disciplinamento ed inquadramento che la Chiesa post-tridentina, e gli Ordini religiosi in particolare, riuscirono ad effettuare sulle spontanee manifestazioni estaticovisionarie di ispirazione cateriniana della fondatrice dell’iniziale conservatorio per bizzoche20. Madre Serafina di Dio, la cui azione di fondazione monasteriale si estese in pieno Seicento dalla periferica isola caprese alla prospiciente fascia di terraferma, fin dall’inizio compì la consapevole scelta di incarnare il perfetto prototipo di vita monastica integrata nell’apparato ecclesiastico istituzionale, nutrita da trasporto mistico e da fervore penitenziale21. La collaborazione di madre Serafina con le gerarchie della Chiesa ed il suo maggiore livello di istruzione, le permisero di ispirarsi, fin dalle origini, al modello teresiano della “monaca fondatrice” e dell’ascetica, modelli che – secondo l’Autrice – sembrano escludere l’accusa di “quietismo” per cui ella fu processata dal Sant’Uffizio, a causa dei suoi rapporti con Padri Oratoriani tacciati di tale devianza dottrinale. L’esperienza religiosa di Maria Francesca delle Cinque Piaghe, unica, fra le tre analizzate dalla Fiorelli, a concludersi con il successo della canonizzazione, si sviluppa nel cuore pulsante dei quartieri spagnoli di Napoli nel secolo dei Lumi, quando il mutato clima culturale si riflette sul cambiamento della sensibilità religiosa e dell’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche, le quali saranno protese a «ricercare un esempio di vita semireligiosa da consacrare alla devozione popolare» (p. 230), in una fase in cui il multiforme fenomeno del bizzocaggio meridionale era stato finalmente disciplinato e regolamentato dalla Chiesa e poteva essere offerto come modello di religiosità esemplarmente virtuosa. Gli elementi che accomunano le tre devote nominate riguardano l’ispirazione mistica, la pratica penitenziale, la scelta di conformarsi al modello di vita terziaria, il controllo costante mediante la discretio spirituum e la verifica ufficiale su di esse esercitati dalle sospettose autorità ecclesiastiche. Ma l’esistenza e l’opera di Maria Francesca appaiono più propriamente rispondenti a quello schema di santità dedita alla catechesi, all’assistenza e all’impegno attivo nel tessuto sociale, con una profonda compenetrazione con le strutture parrocchiali del quartiere ed una quotidiana condivisione delle esperienze di vita del proprio universo cittadino. L’epilogo felice della canonizzazione della serva di Dio sembra ricollegabile alla pluralità della rete di rapporti che ella seppe instaurare, non venendo assorbita dalla esclusiva direzione di nessun Ordine religioso, ma rendendosi organica alla dimensione ecclesiastica diocesana ed alla realtà territoriale locale, mantenendo fino alla fine il suo status di “monaca di casa” o religiosa secolare.
Laura Barletta, nel contributo su Le donne nelle istituzioni di beneficenza napoletane, prova a ricostruire l’entità e le motivazioni della presenza dell’universo femminile nel campo della beneficenza, non nell’acclarato ruolo passivo di destinatario delle opere assistenziali, ma nell’attiva funzione di fondatore, promotore e gestore di iniziative caritative. L’Autrice, proponendosi di appurare se il settore della carità, considerato un efficace strumento di antico regime per il controllo e la regolazione dell’ordine sociale, abbia rappresentato un canale di affermazione extra-domestica pubblica per le donne dei ceti elevati, comunque relegate in una condizione di subordinazione, scopre che, in realtà, anche in quell’ambito l’impegno femminile rientra nei parametri collettivamente stabiliti per l’azione delle donne, rimanendo organico al sistema di valori rapportabile alla mentalità del tempo. In tutto l’arco dell’età moderna, l’intervento delle donne nel ramo della beneficenza si presenta drasticamente minoritario, rispetto a quello maschile, sia nel ruolo di fondatrici, sia di collaboratrici nell’erezione, sia, soprattutto, di direttrici degli istituti di assistenza. L’Autrice conclude affermando che, se è desumibile una partecipazione episodica ed occasionale alle imprese caritative da parte delle signore laiche, costantemente risospinte in uno spazio di marginalità sociale, allo stesso modo non è possibile attestare un’evoluzione progressiva e sistematica dell’impegno femminile in pubbliche opere di assistenza, contrassegnato comunque dalla marcata compressione post-tridentina della figura e del ruolo della donna.
Sulla dimensione laicale del mondo femminile si sofferma anche il saggio di Giulio Sodano su Donne e pratiche religiose nella Napoli del Cinque e Seicento, nel quale la riflessione sull’innegabile marginalizzazione della donna e del suo rapporto con il sacro attuata dalla Chiesa post-conciliare, si accompagna all’analisi delle cause che produssero, invece, un’elevata partecipazione femminile alle pratiche sacramentali della confessione e della comunione, in misura nettamente maggiore rispetto alla percentuale maschile. L’innalzamento dei livelli di frequenza ai sacramenti si verificò, in particolare, fra Cinquecento e Seicento, quando sull’onda della persuasiva predicazione gesuitica, la confessione e la comunione divennero una prassi caratterizzante della devozione femminile. A tal proposito, l’obiettivo della ricerca è quello di enucleare alcune delle motivazioni possibili che spinsero le donne all’incremento di questa pratica, nonostante essa si traducesse per loro in un pressante controllo ecclesiastico puntato soprattutto sugli aspetti sessuali. Il marcato interesse per la vigilanza sugli abusi nella sfera sessuale, espresso in forma incisiva dalla Chiesa controriformistica, lungi dall’allontanare le donne dalla confessione, induce Giovanni Romeo, cui Sodano fa esplicito riferimento, a ritenere che proprio su questo terreno i confessori si affermarono nella mentalità femminile come saggi confidenti e preziosi consiglieri, rendendo assidua la frequenza del confessionale22. Secondo Giulio Sodano, il ruolo primario assunto dai confessori nella quotidiana esistenza femminile, si chiarisce ulteriormente se posto in relazione al processo di sacralizzazione cui furono sottoposti dalla Chiesa tridentina il vincolo matrimoniale e, di conseguenza, la dimensione familiare. Ad essa fu assegnata una funzione privilegiata nell’ambito dei disegni di disciplinamento ed omogeneizzazione della società perseguiti dopo Trento dalle gerarchie ecclesiastiche, e proprio per questo la donna fu investita di tutto il peso e la responsabilità della gestione morale e materiale del nucleo familiare, per superare i drammi e le difficoltà del quale, ella sentì di potersi rivolgere, per ottenere conforto e consolazione, alla Chiesa, in generale, e ai direttori spirituali, in particolare. Si finiva per demandare al sacro «la soluzione dei problemi di famiglia, visto che il sacro aveva con forza invaso, col sacramento del matrimonio, la famiglia stessa» (p. 283).
Un’altra sfaccettatura della devozione femminile viene indagata nel contributo di Genoveffa Palumbo, Fede napoletana. Gli oggetti della devozione a Napoli: uno sguardo di genere, nel quale la “fisicità” con cui si esprime da sempre la religiosità napoletana, e meridionale in generale, sembra acquistare particolare rilevanza nella sensibilità delle fedeli donne. Un dato evidente nella Napoli di Cinque-Seicento è la stretta compenetrazione e la labile distinzione tra la dimensione sacrale espressa nei pubblici luoghi di culto e quella ricostruita nel privato delle abitazioni. Nelle case dell’aristocrazia partenopea si registra un’abbondanza di oggetti di devozione, dai quadri agli altari, dalle icone alle reliquie, così come costante si mostra «il rapporto di solidarietà tra nobili e Chiesa napoletana» (p. 288), attraverso i legami con i monasteri femminili e le generose donazioni a chiese e cappelle. Tutto ciò – secondo l’Autrice – induce a riflettere sull’importanza degli “oggetti” nell’immaginario religioso meridionale, che si caratterizza, più di ogni altro, come «cristianesimo delle cose» (p. 310), cui le donne aderiscono con speciale trasporto e propensione. La ricerca prende in esame la prevalenza femminile nell’uso o nella detenzione di alcuni oggetti-simbolo caratteristici della devozione napoletana, quali la corona del Rosario e lo scapolare, o il determinante ruolo svolto da nobildonne cittadine e forestiere nel ricco allestimento di sante reliquie destinato alle strutture sacre più prestigiose della capitale – come la cappella di S. Gennaro nel Duomo o la chiesa del Gesù Nuovo – in cui «la fede napoletana fastosa e mondana, ma non per questo certamente volubile» trovò «una sua espressione destinata a durare» (p. 305). E alla veridicità del sentimento religioso meridionale, solo apparentemente offuscata dall’eccessiva “materialità” della devozione, appartiene anche lo speciale fervore per le molteplici connotazioni mariane e per gli elementi collegati alla passione di Cristo, che lungi dal bollare le eccessive manifestazioni fideistiche e cultuali del Mezzogiorno come incrostazioni di ancestrale superstizione, ne mettono in risalto le peculiari diversità, evidenziandone al tempo stesso l’appartenenza ad un comune sentire religioso di matrice cattolico-europea23.
Tutti i saggi raccolti nel volume Donne e religione a Napoli. Secoli XVI-XVIII, appaiono organicamente strutturati ed integrati fra loro, accomunati dall’intento di scandagliare la religiosità napoletana, alla ricerca, da un lato, di adesioni ed ossequiose ricezioni rispetto agli uniformanti orientamenti centralistici della Chiesa post-tridentina, dall’altro, di resistenze, interpretazioni originali e sviluppi locali di fenomeni complessi, la cui ricca ed eterogenea articolazione, dipendente dall’intreccio di molteplici variabili, viene tratteggiata da una storiografia duttile e rigorosa, della quale si è cercato, senza alcuna pretesa di completezza, di indicare qualche linea nella presente rassegna.






NOTE
1 E. Novi Chavarria, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani. Secoli XVI-XVII, Milano, Franco Angeli, 2001; V. Fiorelli, Una santa della città. Suor Orsola Benincasa e la devozione napoletana tra Cinquecento e Seicento, Napoli, Editoriale Scientifica, 2001; Eadem, Una esperienza religiosa periferica. I monasteri di madre Serafina di Dio da Capri alla terraferma, Napoli, Guida, 2003; G. Galasso, A. Valerio (a cura di), Donne e religione a Napoli. Secoli XVI-XVIII, Milano, Franco Angeli, 2001.^
2 Tra gli irrinunciabili quadri d’insieme sull’evoluzione delle ricerche inerenti allo “Stato moderno”, si vedano: Lo Stato moderno, I, Dal Medioevo all’età moderna, a cura di E. Rotelli, P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1971; Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra Medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1994; Fisco, religione e Stato nell’età confessionale, a cura di H. Kellenbenz, P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 1989. Più specificatamente sul Mezzogiorno, cfr. G. Galasso, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia. Lineamenti di storia meridionale e due momenti di storia regionale, II ed. riv. e accresciuta, Firenze, Le Monnier, 1984; Idem, Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino, Einaudi, 1994; A. Musi, Mezzogiorno spagnolo: la via napoletana alla Stato moderno, Napoli, Guida, 1991; Idem, L’Italia dei Viceré. Integrazione e resistenza nel sistema imperiale spagnolo, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2000. Interessanti rassegne storiografiche sul tema sono: G. Petralia, «Stato» e «moderno» in Italia e nel Rinascimento, in «Storica», n. 8, 1997; F. Benigno, Ancora lo «stato moderno» in alcune recenti sintesi storiografiche, in «Storica», n. 23, 2002.
Proprio di recente, le relazioni presentate al Convegno organizzato dall’Università degli Studi di San Marino (6-8 dicembre 2004) sul tema “Lo Stato Moderno d’ancien régime” hanno fatto il punto sullo stato attuale degli studi ed hanno indicato stimolanti prospettive di sviluppo.^
3 Nell’ambito di un’amplissima bibliografia sull’argomento, cfr., quali efficaci visioni d’insieme, Il Concilio di Trento come crocevia della politica europea, a cura di H. Jedin, P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 1979; Il Concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi-W. Reinhard, Bologna, Il Mulino, 1996; A. Prosperi, Il Concilio di Trento e la Controriforma, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di N. Tranfaglia, M. Firpo, IV, L’età moderna, 2, La vita religiosa e la cultura, Torino, UTET, 1986; G. Miccoli, Crisi e restaurazione cattolica nel Cinquecento, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano, C. Vivanti, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, 2. L’Italia religiosa, a cura di G. Miccoli, Torino, Einaudi, 1974; A. Prosperi, Il Concilio di Trento: una introduzione storica, Torino, Einaudi, 2001; P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna, Il Mulino, 2000; A. Prosperi, Riforma cattolica, Controriforma, disciplinamento sociale, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, vol. II: L’età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994.^
4 Cfr. B. Pellegrino, Istituzioni ecclesiastiche nel Mezzogiorno moderno, Roma, Herder, 1993. Si veda anche il quadro offerto dai contributi contenuti in Oltre le grate. Comunità regolari femminili nel Mezzogiorno moderno fra vissuto religioso, gestione economica e potere urbano, a cura di M. Spedicato, A. D’Ambrosio, Bari, Cacucci, 2001; E. Novi Chavarria, Patrimoni monastici femminili nel Mezzogiorno moderno: capitale e centri minori, in Le inchieste europee sui beni ecclesiastici (confronti regionali secc. XVI-XIX), a cura di G. Poli, Bari, Cacucci, 2005, pp. 103-117.^
5 Una prospettiva generale sulla concezione “pattizia” e “contrattualistica” dello Stato, recentemente accreditata storiograficamente da molteplici riscontri sulla vitalità e l’influenza delle rivendicazioni di corpi e ceti nella gestione del potere, è offerta da A. De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2001.^
6 Si citano solo alcuni dei lavori della studiosa: G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000; Eadem, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII), in Storia d’Italia, Annali, 9, La Chiesa e il potere politico, cit., ora in Recinti, cit.; Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia, G. Zarri, Roma-Bari, Laterza, 1994. Ultimamente ha visto la luce il volume miscellaneo I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, Atti del Convegno storico internazionale (Bologna, 8-10 dicembre 2000), a cura di G. Pomata, G. Zarri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005.^
7 Tra le recenti pubblicazioni sul monachesimo femminile, alcune appaiono ancora focalizzate sul tradizionale ruolo subalterno delle religiose, si vedano M. Laven, Virgins of Venice: enclosed lives and broken vows in the Renaissance convents, London, Penguin, 2003 (trad. it. Monache: vivere in convento nell’età della Controriforma, Bologna, Il Mulino, 2004); H. Hills, Invisible city. The architecture of devotion in Seventeenth Century neapolitan convents, New York, Oxford University Press, 2004. Uno sguardo sul monachesimo femminile napoletano è offerto da Storia minima al femminile del monastero napoletano di Santa Monica, a cura di G. Boccadamo, A. Valerio, Napoli, D’Auria Editore, 2003.^
8 La stimolante argomentazione affrontata nel volume ha fornito l’input per un interessante Convegno, organizzato dalla Novi presso l’Università di Campobasso nei giorni 11 e 12 novembre 2003, i cui risultati sono confluiti nel volume di recentissima pubblicazione: La città e il monastero. Comunità femminili cittadine nel Mezzogiorno moderno, a cura di E. Novi Chavarria, Napoli, ESI, 2005 (con saggi di E. Novi Chavarria, M. Campanelli, G. Boccadamo, F. Cozzetto, M.A. Noto, E. Papagna, K. Di Rocco, M. Spedicato, R. Salvemini, G. Sodano, V. Fiorelli, L. Scalisi, L. Barletta, A. Lerra, A. Musi, G. Muto, A. Spagnoletti).^
9 Cfr., tra gli altri, G. Zarri, La sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ’400 e ’500, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990; Finzione e santità tra medioevo ed età moderna, (Atti del Convegno Internazionale di Udine, ottobre 1989), a cura e con introduzione di G. Zarri, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991. Si veda anche Donna potere e profezia, a cura di A. Valerio, Napoli, D’Auria, 1995.^
10 Cfr., A. Turchini, La fabbrica di un santo. Il processo di canonizzazione di Carlo Borromeo e la Controriforma, Casal Monferrato, Marietti, 1984; G. Galasso, Santi e santità, in Idem, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, nuova ediz. accresc., Lecce, Argo, 1997, pp. 79-143; J.M. Sallmann, Santi barocchi: modelli di santità, pratiche devozionali, e comportamenti religiosi nel Regno di Napoli dal 1540 al 1750, trad. it., Lecce, Argo, 1996; G. Romeo, Ricerche su confessione dei peccati e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Napoli, Città del Sole, 1997; Idem, Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell’Italia della Controriforma, Firenze, Le Lettere, 1998; P. Scaramella, I santolilli. Culti dell’infanzia e santità infantile a Napoli alla fine del XVII secolo, Roma, Ed. Storia e Letteratura, 1997; Idem, Le Madonne del Purgatorio. Iconografia e religione in Campania tra rinascimento e controriforma, Genova, Marietti, 1991; P. Delooz, Pour une étude sociologique de la sainteté canonisée dans l’église catholique, in Agiografia altomedievale, a cura di S. Boesch Gajano, Bologna, Il Mulino, 1976; Santità, culti, agiografia. Temi e prospettive, a cura di S. Boesch Gajano, Roma, Viella, 1997; M. Caffiero, Santità, politica e sistemi di potere, in Santità, culti, agiografia, cit. Sugli sviluppi storiografici del tema “santità”, si vedano anche: M. Gotor, I beati del Papa. Santità, Inquisizione e obbedienza in età moderna, Firenze, Olschki, 2002; Idem, Chiesa e santità nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2004; Aa.Vv., Storia della Santità nel cristianesimo occidentale, Roma, Viella, 2005.^
11 Il tema della santità moderna, della sua dimensione storica e socio-culturale, del suo rapporto con il clero regolare, che annovera un’ampia bibliografia, è stato recentemente discusso nel V Convegno Internazionale AISSCA, svoltosi presso l’Università degli Studi di Lecce nei giorni 3-6 maggio 2003, incentrato su “Ordini religiosi, santi e culti tra Europa, Mediterraneo e Nuovo Mondo (secoli XV-XVII)”, di cui sono in corso di pubblicazione gli Atti a cura di B. Pellegrino e G. Zarri; e nel volume Ordini religiosi, santità e culti: prospettive di ricerca tra Europa e America Latina. (Atti del Seminario di Roma 21-22 giugno 2001), a cura di Gabriella Zarri, Galatina, Congedo Editori, 2003.^
12 Per l’evoluzione socio-politica della città di Napoli, cfr. G. Galasso, Napoli capitale: identità politica e identità cittadina. Studi e ricerche 1266-1860, Napoli, Electa, 2003; A. Musi, Napoli, una capitale e il suo regno. Prefazione di G. Galasso, Milano, Touring Club Italiano, 2003.^
13 Sul tema, cfr. P. Prodi (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 1994; A. Prosperi, Riforma cattolica, Controriforma, disciplinamento sociale, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di G. De Rosa-T. Gregory-A. Vauchez, vol. II: L’età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994; P. Schiera, Disciplina, disciplinamento, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», n. 18, 1992; G. Alessi, Discipline. I nuovi orizzonti del disciplinamento sociale, in «Storica», n. 4, 1996; O. Niccoli, Disciplina delle coscienze in età tridentina, in «Storica», n. 9, 1997.^
14 Cfr. G. Boccadamo, Monache di casa e monache di conservatorio, in Donne e religione a Napoli, cit., di cui si parla nel prosieguo del presente lavoro.^
15 Si veda, a tal proposito, E. Novi Chavarria, Nobiltà di Seggio, nobiltà nuova e monasteri femminili a Napoli in età moderna, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (1993), pp. 84-111.^
16 Attente ed illuminanti analisi sulle tendenze storiografiche espresse da recenti lavori di storia socio-religiosa sono effettuate da E. Novi Chavarria, Passato e presente della storiografia socio-religiosa, in «L’Acropoli», 4 (2003), pp. 54-68.; O. Niccoli, A proposito di qualche libro recente di storia religiosa, in «Studi storici», 38/1, 1997, pp. 107-134; L. Scalisi, Tra Napoli e Palermo: fra storia e storiografia, in «L’Acropoli», 6 (2005), pp. 686-698; V. Fiorelli, Anima, battesimi
e streghe. Prospettive di storia religiosa dell’Italia moderna
, in «L’Acropoli», 7 (2006), pp. 94-110.^
17 La stessa co-curatrice del volume, Adriana Valerio, è impegnata da tempo, attraverso associazioni, enti e pubblicazioni, nella valorizzazione della “storia al femminile”, soprattutto sul versante socio-religioso. Ne è un esempio il coordinamento del Progetto Dracma. Un archivio per le Donne tra memoria, ricerca e identità, (2002-2005), per la valorizzazione del patrimonio archivistico relativo alla storia delle donne nel Mezzogiorno (Archivi di Stato della Campania e Biblioteca Nazionale di Napoli).^
18 La questione è ampiamente affrontata dall’Autore nel suo L’altra Europa, cit.^
19 Riferimenti agli intrecci tra il piano civile ed il piano socio-religioso nella vita cittadina del Mezzogiorno moderno si ritrovano in alcuni contributi del recentissimo volume L’Italia delle cento città. Dalla dominazione spagnola all’unità nazionale, a cura di M.L. Cicalese, A. Musi, Milano, Franco Angeli, 2005 (in particolare si vedano i saggi di G. Brancaccio, Monopolio e duopolio della vigilanza ecclesiastica; A. Lerra, Le chiese ricettizie; E. Novi Chavarria, Inquisizione e potere politico a Napoli e nella Lombardia spagnole; M.A. Noto, Il caso di Benevento; A. Tortora, La Riforma in Italia. Un tema per una ipotesi di ricerca). Una disamina dei conflitti politicoreligiosi in ambito siciliano è stata condotta recentemente da L. Scalisi, Il controllo del sacro. Poteri e istituzioni concorrenti nella Palermo del Cinque e Seicento, Roma, Viella, 2004. Per una visione generale dei rapporti tra individui ed organismi istituzionali nella storia della Chiesa cattolica, cfr. il recentissimo volume di G. Greco, La Chiesa in Occidente. Istituzioni e uomini dal Medioevo all’età moderna, Roma, Carocci, 2006.^
20 Cfr. V. Fiorelli, Una santa della città, cit. e l’analisi che ne è stata fatta nella presente rassegna.^
21 Cfr. Eadem, Una esperienza religiosa periferica, cit., illustrata precedentemente.^
22 Cfr. G. Romeo, Ricerche su confessione dei peccati e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Napoli, Città del sole, 1997; Idem, Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell’Italia della Controriforma: a proposito di due casi modenesi del primo Seicento, Firenze, Le lettere, 1998; Idem, Note sui confessori delle monache nella Napoli moderna, in Munera Parva. Studi in onore di Boris Ulianich, a cura di G. Luongo, vol. II, Napoli, Fridericiana, 1999.^
23 Sulle peculiarità della religiosità popolare del Mezzogiorno, cfr. anche gli orientamenti storiografici espressi in G. De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Roma-Bari, Laterza, 1978; Idem, Vescovi popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia sociale e religiosa dal XVII al XIX secolo, Napoli, Guida, 19832; Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, 2 voll., a cura di G. De Rosa, A. Cestaro, Venosa, Osanna, 1988; M. Rosa, Religione e società nel Mezzogiorno tra Cinque e Seicento, Bari, De Donato, 1976; Clero e società nell’Italia moderna, curato dal medesimo Autore, Roma-Bari, Laterza, 1992; Idem, La Chiesa meridionale nell’età della Controriforma, in Storia d’Italia, Annali, 9, La Chiesa e il potere politico dal medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, Torino, Einaudi, 1986; ed il recentissimo ed ampio volume di G.M. Viscardi, Tra Europa e «Indie di quaggiù». Chiesa, religiosità e cultura popolare del Mezzogiorno (secoli XV-XIX), premessa di G. De Rosa, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005.^
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